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Orgoglio partigiano. Uno scritto del 1952

08/09/2020

di Pietro Chiodi

Per ricordare l’8 settembre, quest’anno ricorriamo a uno scritto del filosofo Pietro Chiodi (1915-1970), uscito per la prima volta sul periodico «La Voce» di Cuneo il 28 settembre 1952. Chiodi, partigiano combattente, è noto anche per essere stato insegnante di Beppe Fenoglio. Il testo è in uscita insieme ad altri scritti nell’antologia Pietro Chiodi, Beppe Fenoglio e la Resistenza curata da Cesare Pianciola per le Edizioni dell’asino. Ringraziamo Pianciola anche per aver scritto una nota al testo appositamente per il nostro sito.

L’orgoglio non è una virtù. Non si dovrebbe mai essere orgogliosi. Tanto meno poi di aver fatto qualcosa, come il partigiano, che mirava proprio a ricostituire l’uguaglianza morale fra gli uomini, fra i cittadini, come membri di una collettività priva di discriminazioni e di «meriti» e di «orgoglio» patriottici. Ma, alle volte, dentro di me, mi succede di sentirmi pieno di un infinito orgoglio e sempre solo per una sola cosa: d’aver fatto il partigiano.

Sono orgoglioso d’aver fatto il partigiano quando vedo gli uomini e le donne, i democristiani e i comunisti, i forti e i deboli, che vanno a votare: perché so che un popolo degno di questo nome non può ubbidire che a coloro che egli stesso si è scelto con libere e genuine elezioni. 

Sono orgoglioso di aver fatto il partigiano quando dico quello che penso, senza preoccuparmi di chi mi possa sentire, ma sopratutto quando qualcuno sostiene liberamente il contrario di ciò che io penso e dico: perché so che la libertà di pensiero è la sostanza stessa dell’uomo.

Sono orgoglioso di aver fatto il partigiano quando vedo un democristiano che legge l’Unità o un comunista che legge il Popolo Nuovo: perché so che la libertà di stampa è la condizione fondamentale per l’educazione d’un popolo civile. 

Sono orgoglioso di aver fatto il partigiano quando i lavoratori scendono in sciopero per difendere il pane dei loro figli e la loro dignità di uomini: perché so che l’educazione alla tutela dei propri diritti ed il riconoscimento di quelli altrui si ottiene solo attraverso la libertà. 

Sono orgoglioso di aver fatto il partigiano quando incontro l’Ebreo senza triangolo giallo ed il negro a braccetto con una bianca: perché so che gli uomini, a differenza dei cavalli, non si dividono in razze. 

Sono orgoglioso d’aver fatto il partigiano quando vedo le fotografie dei campi di Dachau e di Buchenwald: perché so di aver contribuito a cancellarli dalla faccia della terra. 

Sono orgoglioso di aver fatto il partigiano quando tocco con mano che i nemici della nostra causa coincidono coi nemici della libertà umana, dell’elevazione degli umili e dei poveri, con gli esaltatori della violenza e dell’oppressione. 

Sono orgoglioso di aver fatto il partigiano quando penso che coloro che ci vilipendono hanno avuto anche da noi la possibilità di stampare liberamente i loro giornali e di scegliersi non più obbligatoriamente i loro padroni. 

Sono orgoglioso di aver fatto il partigiano quando mi accorgo che alcuni partigiani hanno compiuto azioni indegne della causa per cui combattevano: perché so che questo non tocca né la validità della causa né la gloria dei 70.000 che si immolarono per essa. 

Ma soprattutto sono orgoglioso di aver fatto il partigiano quando qualcuno mi dice che non dovrei esserne orgoglioso: perché penso che sono io che, combattendo per la libertà, gli ho conferito il diritto di dirmelo.

Nota, di Cesare Pianciola

Ho raccolto per le Edizioni dell’asino di Roma sotto il titolo Beppe Fenoglio e la Resistenza tre scritti del filosofo Pietro Chiodi su Beppe Fenoglio, Leonardo Cocito e la Resistenza, con una prefazione di Alberto Cavaglion e con un saggio di Gabriele Pedullà intitolato Pietro e Beppe, ripreso dal volume a cura di Giuseppe Cambiano e mia Esistenza, ragione, storia. Pietro Chiodi (1915-1970), Editrice petite plaisance, Pistoia 2017.

Ho lavorato con Pietro Chiodi negli anni Sessanta, quando mi seguì nella mia tesi di laurea su Sartre (1963). Poi per qualche anno fui suo assistente. Intanto avevo vinto il concorso per insegnare nei Licei e scelsi poi questa strada anche se Chiodi ne fu certamente deluso.

Chiodi era nato nel 1915 a Corteno (Brescia) in alta Val Camonica, da una modesta famiglia. Dopo le magistrali a Sondrio, venne a Torino con una borsa di studio per frequentare l’Università e laurearsi con Nicola Abbagnano, Nell'ottobre 1939 cominciò a insegnare al Liceo classico Govone di Alba, dove ebbe tra i suoi allievi in terza liceo il futuro scrittore Beppe Fenoglio che lo avrebbe poi raffigurato come professor Monti nel Partigiano Johnny. Strinse una profonda amicizia con il collega di italiano e latino Leonardo Cocito, con il quale condivise il primo tratto della sua vicenda partigiana. Nella primavera del 1944 – o forse prima: secondo i documenti militari che lo riguardano la sua attività partigiana inizia il 3 marzo 1944 – Chiodi organizzò una banda autonoma nel Roero, sulle colline intorno a Bra, in collegamento con Leonardo Cocito. Il 18 agosto Cocito, Chiodi e altri furono catturati dalle SS e interrogati dalla Gestapo a Bra e poi trasferiti alle Nuove di Torino. Cocito venne impiccato per rappresaglia, insieme ad altri sette partigiani, a Carignano il 7 settembre 1944.

Chiodi fu deportato, prima a Bolzano, poi in un campo di concentramento vicino a Innsbruck, dove riuscì a farsi passare per lavoratore volontario ammalato e a ottenere il foglio per il rimpatrio. Ai primi di ottobre giunse a Montaldo Roero (dove c’era la famiglia della moglie) e agli inizi del 1945 riprese la guerriglia come comandante del Distaccamento garibaldino «Leonardo Cocito», sino alla liberazione di Torino alla fine di aprile. Per raccontare e chiarire queste vicende Chiodi scrisse Banditi, uscito nel 1946 a cura dell’ANPI di Alba e nel 1961 in seconda edizione presso Panfilo (ovvero Arturo Felici, partigiano GL). Poi dal 1975 fu pubblicato in varie edizioni da Einaudi (l’ultima è del 2015, con l’introduzione di Gian Luigi Beccaria). È un libro che secondo Franco Fortini e Claudio Pavone si colloca tra i migliori esempi di memorialistica resistenziale. 

Ritornato ad Alba, riprese l’insegnamento e gli studi su Heidegger. Pubblicò la prima traduzione italiana di Essere e tempo (Bocca, Milano-Roma 1953) e i libri L’esistenzialismo di Heidegger (Taylor, Torino 1947) e L’ultimo Heidegger (Taylor, Torino 1952). Nel 1957 venne a stabilirsi a Torino con la sua giovane compagna Aida Ribero, che poi fu militante e storica del femminismo. Intanto lavorava su Kant del quale tradusse per l’Utet la Critica della ragion pura e gli Scritti morali. Nel 1964 fu chiamato sulla cattedra di Filosofia della Storia, dopo averla insegnata come incaricato. Il 17 marzo 1965, in un’aula del rettorato, lesse la impegnativa prolusione su Filosofia, storia e realtà umana tracciando un programma di lavoro che fu interrotto dalla morte precoce il 22 settembre 1970, per i postumi di un’operazione cui si sottopose per alleviare i dolori artritici che lo affliggevano fin da giovane.

Chiodi studiava Heidegger già prima della Resistenza. Ne abbiamo in Banditi un tragicomico indizio nell’interrogatorio da parte delle SS nell’agosto 1944:

– Conosci il tedesco? – Lo so leggere ma non saprei parlarlo. – Che libri leggi in tedesco? – Sto leggendo Heidegger. Max si rivolse all’agente della Gestapo dicendo:

– Dev’essere uno scrittore comunista. Vero? – L’altro guardò l’ufficiale italiano dicendo: – Ja, ja. – Questi annuì col capo. 

Negli anni Sessanta Chiodi si confrontò con il Sartre della Critica della ragione dialettica e nel 1965 pubblicò Sartre e il marxismo (Feltrinelli, Milano), con le importanti appendici degli articoli del 1963 sui concetti di alienazione e di dialettica.

Il marxismo, secondo Chiodi, non va seguito quanto alla pretesa di avere scoperto nel comunismo «la soluzione dell’enigma della storia» (Manoscritti del 1844) e va criticata la sua idea di un principio unico, socio-economico, agendo sul quale sarebbe possibile l’eliminazione definitiva dell’alienazione. Tuttavia Marx ha avuto il merito di vedere la natura globale del fenomeno dell’alienazione: «La campana suona per tutti e suona per tutto l’uomo. Non si può restare uomini ed assistere indifferenti alla disumanizzazione di un altro uomo o di una parte di noi stessi», dice Chiodi. 

Sono righe che ci rimandano alla pagina di Banditi, quando Chiodi, Cocito e i loro compagni sono stati portati dalle SS a Bra e attendono in carcere la loro sorte.

Fuori si sentono voci tranquille di passanti e grida di bambini. Un terribile pensiero mi prende. Perché mi sono impegnato in questa lotta? Perché sono qui quando tanti più sani e forti di me vivono tranquilli sfruttando la situazione in ogni modo? Ripenso alla mia vita di studio, al mio lavoro su Heidegger interrotto. Perché ho abbandonato tutto questo? Mi ricordo con precisione: una strada piena di sangue e un carro con quattro cadaveri vicino al Mussotto. Il cantoniere che dice: – È meglio morire che sopportare questo –. Sì è allora che ho deciso di gettarmi allo sbaraglio. Avevo sempre odiato il fascismo ma da quel momento avevo sentito che non avrei più potuto vivere in un mondo che accettava qualcosa di simile […]. Una strana pace mi invade l’animo a questo pensiero. Ripeto dentro di me: “Non potevo vivere accettando qualcosa di simile. Non sarei più stato degno di vivere”.

Chiodi anche negli anni Sessanta rimaneva l’uomo della Resistenza che in una nota datata 13 giugno 1944, poco prima di essere catturato dalle milizie fasciste, scriveva: «Sono fondamentalmente d’accordo con lui [Luigi Pareyson]. Bisogna andare il più possibile verso sinistra senza compromettere la libertà», cioè bisogna unire il massimo di libertà politica col massimo di giustizia sociale. La Resistenza è l’esperienza che alimenta le sue riflessioni di filosofia politica, anche quando non la nomina.

Sartre e il marxismo è dedicato a Fenoglio, l’amico scrittore morto nel 1963, col quale nel dopoguerra si era incamminato «per gli amari sentieri della sinistra non comunista». Sull’amico, due anni dopo Chiodi scrisse il bellissimo saggio Fenoglio, scrittore civile. Qui rievoca «quella terribile esperienza che fu la guerriglia nel cuneese» e a proposito di Una questione privata dice: «La violenza è imposta; non certo nel senso che sia vilmente subìta, bensì in quello della sua virile assunzione in quell’intermondo commisto di volere e non volere che definisce il luogo del tragico».

Italo Calvino, al quale Chiodi aveva inviato l’articolo, gli scrisse il 14 aprile 1965 (la lettera si legge, per intero, in Beppe Fenoglio, Lettere 1940-1962, a cura di Luca Bufano, Einaudi, Torino 2002, p. 182, n. 2):

Speriamo che si dia l’occasione di ripubblicare il Suo scritto in una sede di più larga diffusione. Ho trovato perfetto il ritratto per tutto quello che avevo potuto capire io, e illuminante per i dati nuovi che mi ha dato. E la Sua ricerca d’una definizione letteraria mi ha interessato proprio perché Lei parte da una diffidenza per i metodi e la terminologia della critica letteraria e quasi da un rifiuto del lavoro letterario in quanto ha di specifico. Forse proprio per questo Lei giunge a dire qualcosa – non solo su Fenoglio, ma sul rapporto autore-opera – di molto pertinente e persuasivo.

Il lascito di Chiodi è anche un lascito etico e politico rivolto ai giovani. Nella premessa alla seconda edizione di Banditi, scriveva:

La presente ristampa si rivolge particolarmente ai giovani, non già per far rivivere nel loro animo gli odi del passato, ma affinché, guardando consapevolmente ad esso, vengano in chiaro senza illusioni del futuro che li attende se per qualunque ragione permetteranno che alcuni valori – come la libertà nei rapporti politici, la giustizia nei rapporti economici e la tolleranza in tutti i rapporti – siano ancora una volta manomessi subdolamente o violentemente da chicchessia.

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