di Andrea Lanza
Un nuovo reportage da Toronto del nostro Andrea Lanza, che da qualche anno vive in Canada per lavoro. Le foto nell’articolo sono sue.
1. Da Toronto, gli Stati Uniti sono vicini. Nelle giornate limpide si intravedono anche, a saperlo, guardando la costa del lago nel punto in cui diventa invisibile. Il fiume Niagara, che segna il confine, è a un paio di ore di pullman, cui bisogna aggiungere il non poco tempo che esigono i normali controlli di frontiera. Con la pandemia hanno deciso che frontiera si può passare solo a piedi.
Quando al di là del confine sono iniziate le imponenti manifestazioni in reazione all’omicidio di George Floyd, anche Toronto si è mossa. È vero, il movimento si è fatto velocemente globale. Gesti, parole, rivendicazioni vengono ripetute in luoghi completamente diversi acquistando significati e portate differenti. Se insisto sulla vicinanza è per introdurre un primo elemento da considerare nell’osservare le rifrazioni locali di questo movimento globale. Qui la contiguità fisica con gli Stati Uniti gioca un ruolo fondamentale, in primo luogo perché si accompagna al bisogno di differenziazione: l’identità canadese si alimenta dell’esplicita distinzione dagli Stati Uniti. Se il moto spontaneo potrebbe essere quello di rassicurarsi in nome di questa totale differenza (“qui è diverso”, “noi siamo diversi”), le manifestazioni hanno voluto innanzitutto chiarire questo: che i canadesi non pensino che il razzismo anti-nero non è un problema loro, perché invece esiste e anzi è endemico anche in Canada. La società canadese si vuole fondata sul multiculturalismo; la valorizzazione della diversità è un principio assunto come costitutivo dell’identità nazionale (o plurinazionale). Al termine “straniero”, avvertito come sconveniente, viene preferito quello di “newcomer”, nuovo arrivato. La nazionalità è ottenibile in tempi infinitamente più corti che in Europa, e più velocemente anche che negli Stati Uniti, al punto che nelle grandi città ormai oltre metà della popolazione non è nata in Canada. In questo contesto, l’attenzione è posta al razzismo sistemico, ovvero quello che perdura negli stereotipi e che finisce per discriminare parte della popolazione nonostante leggi e autorappresentazioni sociali.
2. Le prime manifestazioni ci sono state venerdì 5 giugno, con un corteo che ha girato nelle strade del centro e un ritrovo nella piazza del municipio.
“Black lives matter” (“Le vite dei e delle nere contano”) e “I can’t breathe” (“Non posso respirare”, quel che diceva George Floyd durante l’arresto in cui è morto soffocato): fin dal venerdì 5 giugno, sono le due frasi più ripetute e più riprodotte nei manifesti fatti tutti rigorosamente a mano. L’altra donna della foto mostra un cartello con scritto: “Nell’epoca dell’in/formazione l’ignoranza non è un’opzione”.
3. Per sabato 6 si annuncia la manifestazione più importante, ma fin da un paio di giorni prima sono iniziate a circolare voci insistenti sul pericolo di scontri e devastazioni. Gruppi di black blocs sembravano dover calare in città, in provenienza dal Québec e da Montreal, da un mondo francofono percepito come oscuro nel Canada anglofono. Si sosteneva che gli scontri fossero stati meticolosamente preparati e sui social sono girate, già venerdì, foto di pile di mattoni che sarebbero state appositamente scaricate sui marciapiedi lungo il percorso del corteo.
Centinaia di negozi, banche e alberghi del centro città hanno allora nascosto le proprie vetrine con protezioni in legno. Andando a cercare l’inizio del corteo, noto che parecchie di queste protezioni, così come altri negozi che scelgono o non possono permettersi di proteggersi, portano esplicite scritte di adesione e sostegno alla lotta contro il razzismo anti-nero. Impossibile distinguere autentica convinzione da tattiche di prevenzione dei danni o da strategie di marketing.
Non sono l’unico a non trovare il corteo: percorrendo la lunga Queen Street West incontro molte persone con cartelloni preparati a casa, la voce degli scontri ha creato un caos organizzativo notevole. Finisco per ritrovare il corteo al punto d’arrivo, nella stessa piazza del municipio della vigilia. Ci sono alcune centinaia di manifestanti. Età media piuttosto bassa. Leggera prevalenza di donne e ragazze. Un certo numero è composto di neri, specialmente fra il nucleo che si comprende essere il gruppo organizzatore; rispecchiando la città, il resto dei manifestanti è connotato dalla diversità, soprattutto fra i giovani.
I manifestanti si dispongono inizialmente nella piazza mantenendo il “physical distancing” di due metri.
Quando iniziano i brevi discorsi fatti al megafono, le persone tendono a compattarsi intorno a un primo cerchio. Ogni intervento termina con il lancio di tre o quattro slogan che la piazza ripete in coro – “no justice, no peace”, “I can’t breathe”, “Black lives matter”. Se i fatti degli Stati Uniti sono spesso evocati, l’attenzione viene richiamata soprattutto sulle violenze poliziesche in Canada. A questo proposito, il nome più ricorrente è quello di D’Andre Campbell, ucciso in aprile a Brampton (sobborgo di Toronto) con un colpo di pistola, dopo che la famiglia aveva chiesto l’intervento della polizia nell’impossibilità di contenere una crisi del ventiseienne con problemi psichici.
Una ragazza tiene un cartellone con una lunghissima lista di nomi di vittime di violenza razzista in Nord America (Canada e USA). Anche altri cartelloni riportano nomi o l’esortazione a ripetere i nomi per non dimenticare che le vittime erano persone. Sullo sfondo qualcuno stigmatizza sarcasticamente il nesso razzismo-maschilismo prendendo in giro gli stereotipi: “Il razzismo è l’energia dei cazzi piccoli”.
Una ragazza si è disegnata sul corpo i segni di proiettili e di colpi al viso e tiene un cartello con scritto FTP acronimo per “Fuck the police” (“Fanculo alla polizia”). L’altra ragazza tiene un manifesto con scritto “Se la violenza non è mai una risposta [frase ricorrente nella retorica canadese], perché poi la polizia e il governo la usano così tanto?”.
“Sono il prossimo?”
La donna con la maschera lanciata dal fumetto (degli anni Ottanta) e poi film V per Vendetta (2005) tiene in mano un cartellone con scritto: “A quale età mio figlio nero sarà visto come una minaccia?”. Molti cartelloni insistono sull’esortazione a non considerare il nero come un pericolo.
Un altro cartello proclama: “La mia pelle non è un’arma”.
Come negli Stati Uniti, al centro delle proteste vi è la denuncia delle violenze della polizia e del loro carattere razzista. Tale violenza si fonda sull’attribuzione al nero di una forza fisica pericolosa, di una latente violenza pronta a esplodere o di una virilità insidiosa. Il nero, appunto, è avvertito come potenziale minaccia.
Le manifestazioni sono contro il razzismo che colpisce la popolazione nera. Alcuni cartelloni sottolineano come altre componenti della società, altre “racialized minorities” (“minoranze razzializzate”, secondo l’espressione inglese per indicare minoranze su cui sono proiettate connotazioni razziali) o “visible minorities” (“minoranze visibili”, secondo l’espressione inglese per indicare minoranze che sono appunto distinguibili a prima vista), portino la propria solidarietà riconoscendo la particolarità del razzismo anti-nero, che si esprime fra l’altro nella violenza della polizia. Mentre le minoranze asiatiche (ben più numerose) sono vittime di pregiudizi sulla loro onestà e lealtà (essendo le grandi comunità cinesi percepite come chiuse e autarchiche), i neri, come detto, sono visti come forti e potenzialmente violenti.
In queste manifestazioni c’è stato un reale rispetto per la specificità del razzismo contro i neri e la volontà di non voler evocare o affiancarvi altre forme di discriminazione. L’unico riferimento ad altri razzismi presenti in Canada è stato quello di cui sono vittime le e gli indigeni (Prime Nazioni, Metis e Inuit). Due ragioni credo possano spiegare quest’eccezione. La prima è il carattere strutturale di questo razzismo nella storia coloniale prima e canadese poi, attraverso le guerre di conquista, le conversioni forzate, l’integrazione violenta attraverso una rete di convitti scolastici e, oggi, il perdurare della marginalizzazione di queste popolazioni. La seconda è l’analogia col razzismo contro i neri nel tradursi dei pregiudizi in violenza della polizia contro queste minoranze. Una voce di wikipedia elenca i nomi delle vittime della polizia canadese (un censimento che si dichiara incompleto e risale nella cronologia fino ai primi anni Trenta).
4. Una settimana più tardi, sabato 13, c’è una nuova manifestazione, programmata da parecchio tempo da “Remember the 400”, “Ricordare il quarto centenario”, un’organizzazione nata l’anno scorso per commemorare i quattrocento anni trascorsi dallo sbarco a Hampton (Virginia) dei primi schiavi africani deportati nel Nord America continentale. Il punto d’incontro questa volta è nel piccolo parco Christie Pits. Quando arrivo qualche minuto dopo l’una, ora della convocazione, i comizi di apertura sono già iniziati. Anche in questa occasione alcune persone si susseguono al megafono per brevi discorsi che si concludono ogni volta con il lancio ripetuto di alcuni slogan ripetuti da tutti i partecipanti, distribuiti al sole e all’ombra sui declivi erbosi del parco.
Sullo sfondo: “Ama la gente nera quanto ami la cultura nera”, con riferimento al successo di musicisti, cantanti e rapper neri.
Nei numerosi cartelloni fatti in casa gli slogan sono simili a quelli della settimana prima: contro il silenzio o per la diminuzione dei fondi destinati alla polizia e il ricollocamento di tali fondi in servizi sociali ed educativi per i quartieri più disagiati, dove le tensioni con la polizia e la violenza dei poliziotti sono maggiori.
Quale migliore supporto per un cartellone che una mazza da hockey che a Toronto tutti hanno in casa?
Il corteo si è poi mosso verso il palazzo del parlamento provinciale, percorrendo uno degli assi della città: Bloor Street. Al solito, i cortei qui si muovono veloci. Nessun impianto musicale, solo slogan scanditi per molte volte di seguito.
“Il silenzio è violenza”
“Pari diritti per gli altri non significa meno diritti per te o per voi”
Nessuna sosta o rallentamento lungo il paio di chilometri di percorso. Ci si ferma solo una volta arrivati davanti al parlamento dell’Ontario dove una decina di poliziotti in bicicletta controlla la manifestazione. Il contatto fisico non ha nulla di violento, nonostante molti slogan siano esplicitamente contro la violenza della polizia. Come la settimana precedente, quando i manifestanti si mettono col ginocchio a terra, in molti con il pugno alzato, i poliziotti presenti si inginocchiano a propria volta. Il gesto simbolico è stato lanciato quattro anni fa dal giocatore di football Colin Kaepernick per mostrare il proprio dissenso al momento rituale dell’inno nazionale, cantato prima di ogni partita ufficiale di ogni sport in Nord America. Ora, questo stesso gesto acquista nuovi significati, essendo tragicamente simile alla postura del poliziotto che ha soffocato George Floyd.