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Leggendo la recensione di un libro sulla peste del 1630 a Firenze

19/03/2020

di Lucio Sponza

Quel che un recensore della London Review of Books nota in uno studio recente sulla peste del 1630 a Firenze, letto mentre le situazioni descritte del libro cominciavano ad assomigliare alla nostra vita quotidiana.

Ho letto in questi giorni di metà marzo l’interessante recensione di un libro su Firenze durante la peste del 1630: Florence Under Siege. Surviving Plague in an Early Modern City, scritto da John Henderson e pubblicato da Yale University Press nel 2019. Fra molte altre fonti Henderson si avvale delle memorie e cronache contemporanee di Giovanni Baldinucci e di Francesco Rondinelli. La recensione è di Erin Maglaque ed è apparsa nella London Review of Books del 20 febbraio scorso. 

Si tratta della peste di manzoniana memoria, che ai veneziani ricorda anche di più l’erezione della Basilica della Salute. Pare che fosse giunta in Italia con l’arrivo di truppe mercenarie germaniche nell’autunno del 1629; il contagio si diffuse rapidamente nel nord della penisola e le autorità fiorentine speravano di restarne immuni bloccando ogni traffico e ogni movimento di persone per i passi appenninici, ma pare che dei contadini li attraversassero di nascosto mentre le guardie, annoiate, giocavano a carte. E al ritorno i contadini portarono la peste.

La prima vittima, nei giorni caldi dell’estate del 1630, sarebbe stato un venditore di polli a Trespiano, vicino a Firenze. In città incominciarono a morire in gran numero in agosto. “L’arcivescovo ordinò che suonassero le campane di tutte le chiese della città e che uomini e donne si inginocchiassero a pregare per una intercessione divina”. Purtroppo l’invocazione non fu ascoltata e l’epidemia continuò a colpire sempre di più: in settembre 600 corpi furono seppelliti fuori delle mura della città. Si diffuse il panico e si propagavano voci di “untori” – come quella di un medico siciliano che avrebbe infettato i suoi pazienti somministrando loro del pollo marcio (sempre polli!). Furono istituiti dei lazzaretti dove tenere in quarantena i malati e i morenti. 

Strade e chiese diventarono deserte, ogni forma di aggregazione fu proibita. Due ragazze, Maria e Camilla, approfittando del ricovero della madre all’ospedale organizzarono una festicciola da ballo con dei vicini: furono scoperte e i genitori dei loro amici finirono in galera. I preti ascoltavano dalla strada la confessione dei parrocchiani in casa attraverso porte e finestre tenute aperte; altari portatili furono sistemati agli angoli delle strade in modo che gli abitanti dei vicoli intorno potessero, rimanendo in casa, partecipare in qualche modo alla cerimonia.

Una tesi di fondo del libro è che i poveri erano doppiamente vittime della peste, perché per i ricchi si facevano delle eccezioni. Così a una coppia facoltosa (Virginia Baldovinetti e Lorenzo Frescobaldi) fu concesso di convolare a nozze nella chiesa di San Lorenzo. A queste “persone più civili” era consentita la sepoltura nelle tombe di famiglia delle loro chiese parrocchiali, invece che essere ammucchiate in fosse comuni. “Quando la moglie del cancelliere alla Sanità morì di peste il suo corpo fu sepolto in chiesa, ma i servitori che l’avevano assistita furono mandati in quarantena”.

Henderson contestualizza le vicende sottolineando come la povera gente si trovasse in condizioni fisiche più precarie del solito a causa della crisi degli anni precedenti, che aveva colpito soprattutto l’industria della lana, tanto importante per l’economia fiorentina. Questo causò un diffuso deperimento fra i lavoratori, rendendoli più suscettibili al contagio. 

Altri gruppi di emarginati soffrirono a causa di pregiudizi: gli ebrei furono rinchiusi in un ghetto “per il cattivo odore che emanava dai loro corpi” (allora si pensava che il contagio si diffondesse con l’aria); le prostitute furono perseguitate perché il calore provocato dall’attività sessuale, si diceva, corrompeva il corpo rendendolo più vulnerabile alle infezioni. Una certa Giulia di Filippo, trovata dalla Sanità mentre esercitava questo suo mestiere, fu costretta a girare per la città sul dorso di un mulo, rivolta all’indietro e con un cartello appeso al collo, su cui era scritto il suo reato.

Agli occhi delle autorità cittadine, scrive il recensore Maglaque, “i poveri erano sia vittime che criminali, senza difesa di fronte all’infezione, ma erano anche veicolo del contagio perché camminavano, danzavano, respiravano”. Un medico contemporaneo, Antonio Righi, scrisse un trattato in cui collegava il ruolo sociale con le condizioni fisiche: i nobili costituivano la parte sana e vigorosa della società, in grado di tener lontane le malattie; i poveri erano gli organi deboli che attraevano e rafforzavano le patologie. Secondo Righi, “la peste di Firenze non entrò attraverso le sue mura, ma si sviluppò e diventò letale nel corpo dei poveri”.

Forse (anche) per questo le autorità provvidero a distribuire cibo, bevande e medicinali alle case in quarantena. Francesco Rondinelli annotò che qualche fiorentino altolocato si preoccupava che questo servizio rendesse i destinatari pigri e senza più voglia di lavorare. 

Fra il settembre del 1630 e il luglio del 1631 furono giudicate 566 persone per non aver rispettato i vincoli della quarantena; la maggioranza di loro fu imprigionata, ma non per molto tempo – e solo una minoranza fu severamente multata.

Il contagio cessò di diffondersi a inizio estate del 1631 e i fiorentini tornarono nelle strade per la processione del Corpus Domini. Il 12% della popolazione era deceduta a causa della peste, una percentuale molto inferiore a quelle che furono registrate a Venezia (33%), Milano (46%) e Verona (61%). Furono più efficienti le autorità fiorentine o la pestilenza fu meno mortale aldilà dell’Appenino? Le percentuali, commenta Maglague – presumibilmente sostenendo la tesi di Henderson – “ci dicono qualcosa di chi vive e di chi muore, ma non ci dicono granché sulla sopravvivenza. I fiorentini capirono i pericoli, ma si assunsero consapevolmente dei rischi: per noia, desiderio, abitudine, dolore. Per capire che cosa voleva dire sopravvivere faremmo bene osservare Maria e Camilla, le giovani sorelle che affrontarono la peste danzando”.

Ogni riferimento alla nostra realtà non è puramente casuale, anche se purtroppo (ma forse non tanto, almeno per chi scrive) è bene rimanere a casa. 

Nota. Erin Maglaque, Inclined to Putrefaction, “London Review of Books”, vol. 42, n. 4, 20 febbraio 2020 [recensione del libro di John Henderson, Florence Under Siege. Surviving Plague in an Early Modern City, New Haven, Yale University Press, 2019, 363 p.], disponibile online.
 

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