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In città. Nei giorni della quarantena

21/03/2020

di Claudio Pasqual

Il nostro amico e socio, nonché presidente in carica di storiAmestre, ci manda alcune note da Mestre, che riprendono il filo della rubrica che ha tenuto sul nostro sito fino al gennaio 2018. Cose viste durante una breve passeggiata di metà marzo, fatta secondo le prescrizioni in vigore in quei giorni.

Passeggiare  il fine settimana (14-15 marzo 2020)

Esco, o meglio usciamo, c’è mia moglie con me. Non sappiamo stare tutto il giorno chiusi in casa, abbiamo bisogno di aria e di muoverci, di camminare. E di guardarci attorno. Non ricordo, nella nostra vita insieme, un giorno o quasi in cui non siamo usciti almeno per un po’, per non farlo bisognava che uno fosse ammalato. Già, la malattia, la pandemia per cui per decreto del governo sono obbligati alla reclusione gli infermi e sani, i primi perché infetti, i secondi per timore che si infettino.

Non riesco a stare tutto il tempo fra quattro mura, devo andar fuori. Le passeggiate non sono proibite ancora, purché non ci si assembri e si mantenga il metro di distanza di sicurezza dalle altre persone. 

È sabato sera, sono le sei e mezza o giù di lì. Prendiamo la direzione di Carpenedo, imbocchiamo viale Garibaldi. Il traffico è quasi inesistente: all’incrocio con via Fradeletto non serve aspettare che si illumini il verde al passaggio pedonale per attraversare. Radi anche i passanti. Parecchi sono quelli che portano a spasso il cane, comportamento consentito dalle ordinanze governative. Qualche coppia si capisce che è stata mossa dalle nostre stesse intenzioni: si capisce dall’andatura, dallo sguardo, dal modo di parlarsi, che non hanno una meta precisa, basta la strada e andare. Tutti, quando ci si incrocia, facciamo in modo di mettere una distanza: quelli in compagnia si dispongono in fila indiana, chi lascia il marciapiede per la carreggiata, chi si sottrae in anticipo cambiando lato della strada. Ognuno cerca di farlo con discrezione, senza darlo troppo a vedere, con naturalezza, come se non fosse intenzionale; negli sguardi, negli occhi che si abbassano o ti scrutano, si coglie un misto di imbarazzo e di sospetto. 

Arriviamo alla farmacia di via San Donà alle spalle della chiesa di Carpenedo, che è sempre aperta – la farmacia, non so la chiesa – anche nel fine settimana. C’è gente che aspetta fuori, gettiamo un’occhiata all’interno attraverso la vetrina e ne vediamo persone in coda. Volevamo acquistare delle medicine, rinunciamo. Facciamo la strada a ritroso, ritardiamo un po’ il rientro a casa passando per piazza Ferretto. 

Dal ponte sul Marzenego ci si apre davanti uno spazio vuoto di gente, completamente deserto non fosse per i due vigili – immobili al centro della piazza, opportunamente distanziati fra loro – e  un tale che spunta dopo poco dal fondo. I locali pubblici tutti chiusi, molte vetrine dei negozi, di quelli ancora in attività, a luci spente.  Sembrerebbe la mezzanotte o più tardi di un giorno qualsiasi, invece sono le sette e tre quarti di un sabato sera.  Per un attimo mi ritrovo catapultato con l’immaginazione in uno di quei film e romanzi del genere apocalittico, ma mi ridesto subito: non può essere, i vigili hanno una posa tranquilla e quei pochi passanti non sono in lotta per la sopravvivenza in un mondo dove il necessario manca e dominano violenza e sopraffazione; procedono a passo normale, ostentando indifferenza, e così gli agenti nei loro confronti.

Galleria Barcella, normalmente uno dei passaggi più frequentati del centro, è un corridoio vuoto, non un’anima viva: una scenografia da Arancia meccanica, ma non c’è niente da temere, non c’è proprio nessuno, anche i teppisti hanno paura del coronavirus.

Alle 20 siamo di nuovo a casa.

Domenica 15. Siamo in via Silvio Trentin, sono le diciotto, quando parte da finestre e terrazzini di case e palazzi un flashmob. Gente che canta; bandiere, italiane ma anche del Veneto, che sventolano. Però sono poche abitazioni, e l’allegria che si vorrebbe spontanea suona forzata. Infatti è un fuoco di paglia, pochi minuti ed è tutto finito.

Farmacie e supermercati

Nella farmacia dietro casa, le due dottoresse indossano una cuffietta sui capelli, i guanti di plastica, la mascherina sulla bocca e una visiera trasparente che copre loro tutta la faccia. Leggo in un sito specializzato che si tratta di una “semicalotta protettiva da lavoro con schermo realizzato in policarbonato rialzabile”. Una lastra in plexiglas è stata montata sul bordo esterno del bancone, in modo da riparare chi serve dal fiato del cliente. Si può rimanere all’interno al massimo in due alla volta.

Nei supermercati, striscioline di nastro adesivo colorato sono state incollate sul pavimento davanti a ogni cassa, distanziate di un metro, a indicare dove fermarsi in coda con il carrello. Dov’è in funzione un sistema di annunci vocali, si susseguono dall’altoparlante informative sui comportamenti da tenere tra gli scaffali e alle casse – il provvidenziale metro di distanza – e rassicurazioni sul regolare rifornimento del punto vendita. Io vado alla Cadoro di via Torino, grande e meno frequentato degli altri. Qui un cartello all’ingresso avverte che devi entrare da solo, niente spesa in coppia o con tutta la famiglia. E infatti mi capita di assistere alla scena di un commesso del reparto ortofrutta che rimprovera con tono severo due coniugi che non hanno rispettato l’invito. Dopo mi accorgo che l’uomo non è uscito, gira soltanto un po’ al largo dalla moglie.

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