di Francesco Selmin
In occasione della cerimonia di premiazione delle borse di studio erogate dalla Fondazione Maria Antonietta Lazzarini, che si terrà oggi 6 dicembre 2018 a Este, presentiamo alcune pagine dal libro di Francesco Selmin, La donna che uccise il principe. Maria Antonietta Lazzarini e Luigi Alberico Trivulzio, da poco uscito per Cierre. Selmin vi ricostruisce un fatto di cronaca nera avvenuto a Milano alla fine del 1938, quando Maria Antonietta Lazzarini uccise a pistolettate il principe Luigi Alberico di Trivulzio, con cui aveva una relazione clandestina sin dagli anni Venti. Le perizie psichiatriche designarono Maria Antonietta, nata a Este nel 1898, “inferma di mente”: pertanto al delitto non seguì un processo ma un lungo internamento in manicomio.
Cinque colpi di pistola
Esasperati dalle ossessive richieste di sovvenzioni, dalle telefonate e da pressanti domande di abboccamenti, ma ormai decisi a non darle più ascolto, i Trivulzio si rivolgono alla Questura che, nel 1937, decide di rimpatriare la Lazzarini a Este con il foglio di via. La donna non demorde, non accetta la fine di una storia più che decennale. Scrive più volte al principe chiedendo di poterlo incontrare, ma non ottiene risposta. Nell’ottobre 1938 torna a Milano decisa a vederlo a tutti i costi. Prende alloggio in un albergo e riprende a molestare i Trivulzio, anche presentandosi alla loro abitazione, ma trova sempre l’ingresso sbarrato.
Sempre più irritata, Maria sprofonda in uno stato di grande agitazione. A chi la incontra fa discorsi strani, sconclusionati, minacciosi. Una persona che la conosce da tempo si rivolge alla polizia per sapere come agire per farla internare.
Il 29 ottobre la Questura la diffida a cessare le molestie, ma non ravvisa la necessità di un altro foglio di via per rimandarla a Este. È la principessa Trivulzio a far presente ai funzionari della Questura che la donna versa in pietose condizioni economiche e che per lei sarebbe stato più facile trovare una sistemazione a Milano.
In realtà il lavoro è l’ultimo pensiero della Lazzarini. Il suo proposito è regolare i conti con il “padrino”.
Nel tardo pomeriggio di martedì 8 novembre si apposta in via San Pietro all’Orto, all’angolo con corso Littorio, sapendo che il principe abitualmente passa di là quell’ora.
Qualche giorno dopo i giornali scriveranno che era stata notata anche nelle sere precedenti appostata nei pressi della pasticceria Sant’Ambrogio.
Quando lo vede sopraggiungere, gli si avvicina, ma il principe la schiva allontanandosi in fretta. Allora Maria estrae dalla borsetta una rivoltella automatica ed esplode cinque colpi. Colpito da due proiettili al torace, Trivulzio stramazza al suolo. Subito dopo la donna butta via l’arma, ma viene tratta in arresto da un carabiniere a cui rivolge queste parole: «Mi porti in questura, sono 15 anni che soffro». Mentre passa davanti al principe ferito, esprime il suo disappunto per non averlo ucciso.
Interrogata da un giudice istruttore e da un vicecommissario dichiara in modo confuso di essere stata nel passato, per diversi anni, l’amante del principe dal quale fino a un anno prima era stata finanziariamente aiutata. Aggiunge che si è voluta vendicare per essere stata respinta e per la sospensione degli aiuti economici nonostante avesse in tutti i modi cercato di riottenerli. Dopo l’interrogatorio viene trasferita in carcere.
Nel frattempo, caricato sopra un’auto pubblica, il principe viene portato alla Guardia medica di via Agnello, dove giunge cadavere.
Il giorno dopo il «Corriere della Sera» non dà notizia del fatto, che compare invece nelle cronache di altri giornali: ad esempio sul quotidiano padovano «Il Veneto».
Il silenzio del «Corriere» rivela l’imbarazzo in cui si viene a trovare il giornale milanese nel momento in cui deve dare notizia di un fatto di nera che coinvolge il bel mondo di Milano: meglio sorvolare sulla tresca di cui è partecipe uno dei più bei nomi della nobiltà italiana. Bisogna attendere il 10 novembre perché la notizia esca nella quarta pagina del quotidiano con il titolo Il principe Luigi Alberico Trivulzio / ucciso proditoriamente / da una donna in corso Littorio.
È un articolo in cui è evidente l’autocensura giornalistica. Nessun cenno alla relazione intima: è solo la bibliotecaria che il principe ha respinto e che si esprime in modo confuso. Dunque, le sue accuse non sono attendibili.
Perciò meno se ne parla, meglio è. E infatti nei giorni e nelle settimane seguenti la notizia non è più ripresa: non è tempo di gossip. Il regime fascista all’apice del consenso non ama la cronaca nera. Il processo ovviamente avrebbe amplificato quanto di scandaloso e di pruriginoso era insito nella vicenda che aveva coinvolto i due. Ma c’era una strada per evitarlo e conveniva imboccarla subito.
Niente processo
A imboccarla è la magistratura milanese, e lo fa prima ancora che sia trascorso un mese dall’omicidio. Il 5 dicembre 1938 il Consigliere istruttore del Tribunale di Milano incaricava i professori Arrigo Frigerio e Antonio Gazzaniga di procedere a perizia sulla Lazzarini, imputata di omicidio, al fine di accertare se al momento in cui commise il fatto fosse, «per infermità, in tale stato di mente da escludere la capacità di intendere e di volere». Inoltre veniva richiesto se la Lazzarini fosse persona socialmente pericolosa. […]
La relazione dei due periti si apre con l’anamnesi familiare. E già da questa si può intuire quale sarebbe stata la conclusione a cui sarebbero pervenuti.
Tutti e tre i figli del nonno paterno di Maria, si legge nella relazione, «pur non avendo dato segni di pazzia tale da dover essere ricoverati in manicomio, furono affetti da malinconia semplice ed erano degli anormali». Anche tutti gli appartenenti alla famiglia della nonna materna, sostengono i periti, erano stati considerati «affetti da squilibrio mentale per bizzarrie e manifestazioni psichiche anormali».
Le pezze di appoggio utilizzate sono testimonianze che in più di un caso lasciano sconcertati. Ad esempio quella di un medico di Este, che a proposito di Ugo Lazzarini, padre di Maria, dichiara: «Egli era un uomo strano e squilibrato nelle sue manifestazioni di vita, perché, mentre militava nel partito socialista… si ritirò improvvisamente da ogni lotta divenendo misantropo, solitario, per cui se ne andava a camminare solo in campagna». Anche un agricoltore di Este conferma che «se ne andava in campagna e ritornava in paese sporco e infangato».
In realtà Ugo Lazzarini godeva di grande considerazione in città. Era sicuramente uno fra i più stimati docenti del ginnasio, e non è un caso che uno dei suoi migliori allievi, Clemente Faccioli, destinato a una brillante carriera professionale, gli abbia dedicato la raccolta giovanile di poesie Ciacole, edita a Este nel 1913.
La rappresentazione dei Lazzarini come una famiglia anormale è smentita anche dalla brillante carriera del fratello Renato, prima come ordinario di filosofia teoretica nell’Università di Cagliari e di Bari, poi di storia della filosofia medievale nell’Università di Bologna. L’altezza del suo lavoro filosofico è comprovata anche dai rapporti con il sacerdote modernista Ernesto Buonaiuti.
Nell’anamnesi personale i periti insistono sull’irregolarità della funzione mestruale, sulle sofferenze seguite all’aborto del 1919, sulle turbe gastriche, sullo sfortunato intervento chirurgico del maggio 1925. Operazione da cui sarebbe derivato «un complesso di fenomeni che indussero l’ammalata a ricorrere a non meno di due dozzine di medici e, per l’accentuarsi di disturbi nervosi e psichici, a farsi ricoverare, come si è già detto, in casa di cura», prima a Schöneck (1927) in Svizzera, poi a Fonte San Martino in Alto Adige (1931-32). Vengono poi analizzati i precedenti psicopatologici personali della Lazzarini desunti da varie testimonianze e dagli scritti della stessa. Tra le testimonianze dei fratelli la più ampia è quella di Renato, che parla di un temperamento facile all’esaltazione e alla depressione. […]
Si valutano anche alcune testimonianze di estensi che, in verità, ammettono di avere una conoscenza solo approssimativa della Lazzarini. Una signora dichiara di averla vista una volta mentre stava nuda al sole nel frutteto della villa, sia pure riparata dalle piante. Un altro aggiunge che era stata vista nuda due volte anche dai suoi bambini. […]
La conclusione a cui pervengono i due periti è che nella Lazzarini esiste «un nucleo delirante che impera sulla sua struttura psichica e che le toglie la capacità di intendere e di volere». Aggiungono che è socialmente pericolosa, perché «ha dato prova di essere in balia dei propri impulsi morbosi, giungendo fino agli atti più gravi. Il suo contegno si è dimostrato con ciò in pieno contrasto colle elementari norme della convivenza civile».
Della Lazzarini si segnalava inoltre una valutazione eccessiva del proprio io. «Ha la convinzione di possedere qualità intellettuali e morali superiori alla morale corrente, tanto da considerarsi una specie di superdonna. Si riteneva così attraente dal punto di vista fisico da suscitare l’ammirazione e il desiderio di tutti. Si riteneva capace di generare figli, perfetti, colti, intelligenti, pensatori, eroi (sono le sue espressioni letterali)».
Sulla base della relazione di Frigerio e Gazzaniga il giudice istruttore presso il Tribunale Civile e Penale di Milano in data 17 aprile 1939 pronunciava la seguente sentenza:
Dichiara non doversi procedere contro Lazzarini Maria Antonietta trattandosi di persona non imputabile nel momento in cui ha commesso i fatti per essere affetta da totale infermità di mente in modo da escludere la capacità d’intendere e di volere. Ordina il ricovero della Lazzarini Maria Antonietta in un manicomio giudiziario per un periodo di tempo non inferiore agli anni dieci.
La decisione di non celebrare il processo per l’omicidio dell’8 novembre permette alla famiglia Trivulzio di tirare un sospiro di sollievo. Grande sarebbe stato l’imbarazzo per la vedova Maddalena Cavazzi della Somaglia, che ricopriva un ruolo di notevole visibilità nelle organizzazioni del regime ed era nota anche per aver pubblicato nel 1936 un’opera che illustrava l’ideologia fascista. Ovviamente, oltre alla cerchia familiare anche il mondo aristocratico non gradiva che sulle pagine dei giornali filtrassero notizie, anche se edulcorate, sulla sua vita privata e su quella del principe.
Perciò, prima si archivia il fatto, meglio è. Per tutti. Tranne che per la Lazzarini. […]
L’unica persona a protestare per questa decisione fu Maria, e la sua “protesta” durò fino ai giorni che precedettero la sua morte.
Nel memoriale scritto in manicomio afferma che la scelta di non processarla era finalizzata a sommergere nel disonore e nell’oblio tutto il suo passato e a nascondere «l’infame verità»:
Escludendo il processo si è voluto (o tentato) di annullare, e sprofondare inesorabilmente e per sempre nel baratro, nell’abisso, nel disonore, nell’obbrobrio e nell’oblio del tempo tutto il mio passato insanguinato: dico disonore e obbrobrio conoscendo io, ohimè, come conosco, mondo, uomini, cose e persone e le smisurate viltà, cupidigia, presunzione, il facile mendacio per nascondere l’infame verità, l’ipocrisia che vi regnano pressoché sovrani.
Poiché il fatto delittuoso ha avuto una sua logica, conclude Maria, anche il processo è logico:
Ora per chi voglia considerare seriamente il mio caso con l’animo scevro da ogni preconcetto e perciò sereno e imparziale e lo voglia esaminare assieme al tragico fatto bene addentro nella sua assoluta essenziale verità (per quanto sommamente complicata in tutte le sue fasi e multipli aspetti) non può negare che nel cruento epilogo abbia avuto una logica: grave e tremenda sì ma sempre logica. E perciò dico umano, morale, logico e giusto un processo.
Evidentemente Maria Lazzarini non prova mai un vero pentimento per il fatto cruento di cui è responsabile. Basti leggere alcuni passi delle memorie in cui i colpi di pistola, «sprigionati da un essere umano derelitto e schiantato» (perifrasi che sta a indicare lei stessa), diventano «scintilla di fuoco e di fiamma» voluta per dare calore e vita piuttosto che per irrigidire e pietrificare:
Quel fatto di massima gravità fu come scarica infuocata furente e incontenibile… Scintilla di fuoco e di fiamma. Ma che avrebbe certamente più voluto purificare ed erigere che sopprimere e profanare, più far luce che tenebre, più dar calore e vita che irrigidire, più scuotere e smuovere che pietrificare.
Nota. Tratto da Francesco Selmin, La donna che uccise il principe. Maria Antonietta Lazzarini e Luigi Alberico Trivulzio: la storia, le lettere, Cierre edizioni, Sommacampagna 2018, pp. 39-47.
Maria Antonietta Lazzarini (Este 1898-Este 1985), era figlia di Ugo (1852-1920), insegnante al Ginnasio di Este, che aveva militato prima nel campo democratico radicale, poi in quello del socialismo riformista; nel 1888 fu destituito dalla carica di direttore del Ginnasio comunale per aver sostenuto la legittimità della scuola mista, cioè della presenza di maschi e femmine nella stessa classe.
Dopo l’assassinio del principe Luigi Alberico Trivulzio a Milano, avvenuto l’8 novembre 1938, Maria Antonietta fu dichiarata “affetta da totale infermità di mente” e internata nel manicomio giudiziario di Aversa, dove rimase dal 1939 alla fine del 1951, per essere poi trasferita nel manicomio di Padova.
A metà degli anni Cinquanta tornò a Este, dove visse in solitudine fino alla morte, che la colse all’Ospedale di Este nel 1985. Malgrado avesse chiesto un funerale civile, e che la sua salma fosse avvolta in un drappo rosso (un lenzuolo che lei stessa aveva colorato e che si trovava sulla ringhiera della scala di casa), ebbe un funerale religioso; qualcuno riuscì comunque a introdurre “di soppiatto il drappo rosso nella bara prima della sua chiusura”.
Per ricostruire questa vicenda Selmin si è basato sull’archivio personale che Maria Antonietta Lazzarini gli aveva lasciato prima di morire. Nell’appendice del libro sono riportate le memorie scritte da Maria Antonietta nei manicomi di Aversa e di Padova, e una scelta dal suo epistolario, con lettere del principe Luigi Trivulzio, di Lalla Romano, di Umberto Terracini (in una lettera del 1958 le scrive: “Sono lieto di sapere che nel grande schieramento dei militanti per il socialismo si annoveri anche Lei”).
Concludendo la presentazione del suo libro, Selmin scrive: “Forse raccontando questa storia ho appagato, almeno in parte, il desiderio che Maria Antonietta manifestò invano fino alla fine della sua vita: avere quel processo che le fu negato, perché solo così avrebbe potuto esporre le sue ragioni e difendere se stessa”.
Nel 1979 Maria Antonietta Lazzarini ha istituito una fondazione che nel 1989 è stata riconosciuta dalla Regione Veneto. Dall’anno scolastico 1990-91 mette in palio alcune borse di studio denominate “I Premi Lazzarini-Este”; la cerimonia della premiazione, giunta alla ventottesima edizione, si tiene oggi, 6 dicembre 2018, a Este ed è accompagnata dalla presentazione del libro di Francesco Selmin.