di Alessandro Casellato
Riceviamo e pubblichiamo il testo della relazione che il nostro amico Alessandro Casellato ha tenuto il 15 ottobre 2018, a Venezia, in occasione della presentazione del libro di Claudio De Mohr e Ugo De Mohr, Odissea di un diplomatico. Con una nota che spiega l’origine del testo e richiama le “buone pratiche di storia orale”.
Nota. Il 15 ottobre 2018 ho presentato a Venezia, alla Scoletta dei Calegheri il libro Claudio De Mohr, Ugo De Mohr, Odissea di un diplomatico. … che diranno i miei figli…, Gangemi Editore, Roma, 2017 (576 p.). Si tratta di un grosso volume che contiene un doppio diario, di un padre e di un figlio, entrambi diplomatici. Il primo è una memoria scritta dall’addetto stampa e propaganda presso l’ambasciata della RSI a Sofia, deportato dai russi e tenuto in prigione a Mosca fino al 1950; vi si intreccia il racconto del figlio, rappresentante italiano presso la NATO e altrove, che fa un po’ il curatore del testo paterno, un po’ lo storico ricostruendo i contesti ed esprimendo giudizi.
Alla presentazione hanno partecipato tra gli altri, oltre a Ugo De Mohr, Antonio Varsori, storico delle relazioni internazionali all’Università di Padova, e Umberto Vattani, diplomatico e presidente della Venice International University, nonché organizzatore dell’incontro.
Non avrei pensato di pubblicare le poche cartelle che avevo scritto se non mi fosse giunta dall’autore una trascrizione del mio intervento, impaginata e spedita a un certo numero di destinatari, mutila della parte che considero più importante, alla fine del secondo paragrafo. C’è stato un difetto della registrazione. Succede. Ma sarebbe stato meglio tener presenti le “buone pratiche di storia orale”. Tant’è che l’effetto che ne è uscito mi ha messo in imbarazzo.
Ho pensato di proporvi il testo nella versione integrale – compreso un terzo paragrafo che allora non avevo avuto il tempo di leggere – ritenendo che siano temi cari a storiAmestre e la mia lettura in sintonia con altre cose che avete pubblicato nel corso degli anni.
1. Una storia di famiglia
Un figlio (Ugo) si prende carico della memoria del padre (Claudio), ne cura gli scritti, porta a termine il suo – del padre – desiderio di lasciare traccia della propria esistenza vissuta in frangenti storici estremi: la crisi del 1943 mentre era funzionario dell’ambasciata italiana a Sofia, la decisione di aderire alla Repubblica sociale italiana, l’arresto da parte delle truppe sovietiche nel 1944, la deportazione e la dura prigionia patita a Mosca fino al 1950.
La famiglia De Mohr ha ascendenze importanti nella storia d’Italia, dal Risorgimento in avanti: appartiene alla borghesia milanese di ispirazione democratica e radicale che, passando attraverso la Prima guerra mondiale e poi il “fiumanesimo”, approda al fascismo e ne condivide le sorti fino alla sua estrema propaggine della RSI. Questa storia di più generazioni è indagata attraverso un archivio familiare ricco e diversificato, composto non solo delle memorie di Claudio, ma anche di lettere, fotografie e persino filmini; chi la scrive ha consapevolezza di avere un pedigree culturale molto particolare e interessante, giustamente ricordato nella prima parte del libro.
La storia dei De Mohr, però, è anche lo spicchio di una vicenda molto più ampia, quella della gran parte delle famiglie italiane nella prima metà del Novecento. Quanti figli e nipoti ho incontrato in questi ultimi anni, dediti a imprese editoriali che vogliono restituire qualcosa a nonni o a genitori che non ci sono più! È un vero fenomeno dei nostri tempi, che chi frequenta gli Istituti per la storia della Resistenza può riconoscere come un fatto sociale degno di nota, perché rappresenta, oggi, per molti nostri concittadini, uno dei rari fili non ancora spezzati che consentono di mantenere un rapporto con il passato, con la storia, in un’epoca di presentismo immemore e rivendicato. Familismo storiografico? Sì, se siamo disposti a declinare il sostantivo – familismo – in chiave positiva e direi persino civica.
Questo libro è un documento prezioso per la storia dei sentimenti, cioè per comprendere la storia intima della famiglia, di una famiglia italiana così come erano le famiglie italiane prima della grande rivoluzione dei costumi seguita al Sessantotto. Ugo de Mohr è stato da questo punto di vista coraggioso e generoso, perché non ha censurato i propri sentimenti, sentimenti di rimpianto per un dialogo mai avviato per davvero con il proprio padre (e questo libro è un modo per allacciarlo, postumo): lo conosce per la prima volta (tranne una breve parentesi da bambino piccolo) quando ha dieci anni; però la convivenza dura poco, perché atteggiamenti, comportamenti paterni (“dannunziani”, dice Ugo, cioè un certo modo di essere uomini, cioè “maschi”, nell’Italia del pre-Sessantotto) e anche le conseguenze di quello che oggi sappiamo essere una sindrome specifica – post traumatica – rendono non più possibile la ricomposizione della famiglia sotto lo stesso tetto.
Il padre ritornato non può più stare sotto lo stesso tetto anche perché c’è una figura femminile – la madre di Ugo – che a sua volta ha vissuto una grande prova e una trasformazione negli anni della guerra: madre sola con figli da mantenere, ha saputo cavarsela, si è rivelata l’anello forte della famiglia, non ha mai smesso di cercare notizie del marito inghiottito dalla prigionia in Unione sovietica, ha incalzato lo stato affinché non lo dimenticasse: ha fatto cioè quello di cui tante altre donne italiane – di tutti i ceti sociali – sono state protagoniste, negli anni della Seconda guerra mondiale. Sarà lei a mettere fuori di casa il marito, dopo averlo cercato per anni e poi averlo accolto dopo la lunga prigionia.
Credo che si possano dire molte cose del Sessantotto, e anche fare molte critiche a quella stagione, ma sono convinto che una delle cose buone che ci ha lasciato sia stato aver liberato i padri – i maschi – dal ruolo a cui la cultura precedente li aveva imprigionati: per me è stato commuovente leggere le righe in cui Ugo fa i conti con questo padre, un uomo anziano con un tumulto interiore di esperienze affetti ed emozioni, ma incapace di allacciare un dialogo con il proprio figlio ventenne, nell’ultima occasione che i due ebbero di stare vicini. Questo scacco è alla radice del libro, che anche strutturalmente – per come è stato composto editorialmente – è un dialogo, dialogo su carta, differito di sessant’anni, a compensazione di un dialogo vero che non ci fu.
2. Una testimonianza
Le memorie di Claudio de Mohr sono anche una fonte per la storia dei fatti di cui trattano, della grande storia di cui l’autore è stato testimone diretto. Ho trovato particolarmente efficaci le pagine in cui racconta dei giorni del passaggio di potere a Sofia nel settembre 1944, cioè nei giorni della “rivoluzione”, con la città attraversata da un’aria di eccitazione e di attesa per qualcosa che stava arrivando, e il senso di nervosismo che invece pervadeva chi – come l’autore – sentiva avvicinarsi una tragedia e non aveva vie di fuga.
Che cos’è una città alla vigilia di una rivoluzione? Voci che si accavallano, folle in attesa fuori dei palazzi del potere che alimentano e propagano notizie contraddittorie. E spostandosi alla periferia, assembramenti di comizianti eccitati, autocarri stipati di uomini e di donne che urlano e cantano come se rientrassero da un baccanale. E i simboli del nuovo potere esibiti pubblicamente: drappi rossi, pugni chiusi alzati, falci e martelli appena dipinte sui muri e ancora gocciolanti di pittura, di minio o di bitume. E poi donne scatenate, squadre di contadini e operai, minatori e disoccupati che giravano le strade, “folle tumultuanti che facevano ressa attorno ai partigiani rossi che, dalle boscaglie, dalle strade e dai sentieri della Macedonia calavano giù a branchi, e arrivavano sempre più numerosi, sempre più invasati da bellicoso furore, sempre più acclamati dalla folla in delirio” (p. 193).
Non c’è simpatia, naturalmente, nello sguardo e nella prosa dell’autore, che assiste allo spettacolo della folla rivoluzionaria dall’esterno, sentendosi in pericolo, percependosi come possibile bersaglio del parossismo rivoluzionario.
Altre pagine anche letterariamente pregevoli e certo di notevole valore testimoniale sono quelle dedicate alla detenzione, all’esperienza nelle carceri sovietiche, pagine che ricordano quelle dei romanzi più cupi di Kafka, di Koestler e di Orwell, e che rientrano nel canone della letteratura di denuncia dei crimini dello stalinismo.
La cosa peggiore è non sapere dove si è, di che cosa si è accusati, e che cosa accadrà; la sensazione di essere in balia di un potere oscuro e imperscrutabile, burocratico e impersonale più ancora che violento e accanito. Impossibile leggere e scrivere in carcere, e persino tenere il conto dei giorni che passano. Sentirsi sepolto vivo e abbandonato, senza possibilità di comunicare non solo col resto del mondo, ma anche con i propri compagni di sventura reclusi in altre celle. Leggendo queste pagine vengono in mente casi recenti a noi tutti noti di persone che sono finite nei gironi infernali della detenzione al di fuori di uno stato di diritto: i desaparecidos argentini, e poi i nostri fratelli, ancora pochi anni fa, Stefano Cucchi e Giulio Regeni. Anche loro sepolti, ma non risuscitati, e la cui morte non riesce ancora del tutto a scalfire la ragion di stato che prevale sulle ragioni degli individui.
Il libro riporta la breve lettera di Manlio Brosio, ambasciatore a Mosca, al redivivo Claudio de Mohr, liberato dalle prigioni sovietiche grazie anche al suo tenace interessamento. Mi sono segnato le parole che più mi hanno colpito e che credo dovrebbero stare incise sulle scrivanie di tutti gli uomini di stato, di tutti gli ambasciatori e i tutori dell’ordine: “ho fatto quel che dovevo, ma con slancio di uomo che cerca di intendere i dolori altrui”. Fare il proprio dovere, ma con la compassione per il dolore degli altri. Mi rendo conto che sono parole che potrebbero stare anche sulla mia scrivania, perché descrivono bene il mestiere di storico: fare il nostro dovere, analizzare i documenti e dire la verità, o quanto meno cercare la verità, ma sempre con la compassione per il dolore degli altri e per le vite impigliate nella tragedia della storia, a cui è giusto accostarsi insieme con spirito di verità e con umana pietas.
3. Un’opera storiografica?
Non è un’opera di storia, dice l’illustre prefatore del volume, professor Francesco Perfetti, a lungo docente di Storia contemporanea alla LUISS di Roma.
Però il lavoro che ha fatto Ugo de Mohr è quello che fanno gli storici: un’edizione critica di una fonte, e poi ricerche negli archivi, citando decine di documenti relativi alla vicenda specifica di suo padre e altri ancora. Voglio considerarlo un libro di storia, e non solo un’operazione di memoria: per questo rilevo i punti deboli del testo di Ugo de Mohr, e quelli in cui sono in dissenso con l’autore.
Un punto debole è quello di confrontarsi, più che con la storiografia, soprattutto con le sue ricadute giornalistiche: tanti riferimenti a Paolo Mieli, Mirella Serri, P.G. Battista e Arrigo Petacco, ma nessuno – per dire – a Claudio Pavone, Enzo Collotti o Davide Rodogno, cioè gli autori storiografici di riferimento per le tematiche trattate. Questo finisce per influire sul tono delle argomentazioni e sulla efficacia euristica del testo, che in diversi passaggi si allontana dalla prosa delicata e convincente con la quale l’autore Ugo analizza il percorso politico-culturale ed esistenziale del padre, e assume invece un tono livoroso, privo di chiaroscuri, quando analizza le biografie inevitabilmente complesse degli altri, coetanei del padre, passati attraverso il fascismo, la guerra e il dopoguerra; così ricalca il modo con cui spesso si scrive di storia contemporanea sui quotidiani, più che l’atteggiamento di chi ha soprattutto l’interesse di comprendere e di restituire la fatica di vivere – e non solo gli opportunismi e le viltà – degli uomini dentro le contorsioni e le svolte della storia.
Mi pare fragile anche il fatto che, nel ricostruire questa odissea avviata da una sconfitta militare e politica e condotta attraverso gli ampi spazi dell’Europa orientale nel periodo della Seconda guerra mondiale, non si tenga conto di due eventi macroscopici, senza i quali è difficile contestualizzare le singole vicende, e le scelte, e quindi trarne dei giudizi.
Il primo è la Shoah, cioè il tentativo di sterminio sistematico degli ebrei d’Europa che ebbe luogo in buona parte nei territori attraversati da Claudio de Mohr proprio negli anni in cui egli era funzionario presso la legazione italiana a Sofia: della Shoah non c’è traccia nelle memorie di Claudio, e neppure nella ricostruzione di Ugo nel momento in cui cerca di soppesare il ruolo svolto dalla Repubblica sociale italiana, che pure a quel tentativo di sterminio sistematico diede il proprio contributo.
Un altro elemento di contesto non irrilevante, che mi pare indispensabile per comprendere le vicende occorse a suo padre, cioè la lunga detenzione a Mosca, è l’entità delle distruzioni portate in Unione sovietica dalle truppe dell’Asse: tedeschi e italiani, nazisti e fascisti furono protagonisti – per quanto con gradi differenti di efficacia – di una guerra volta al totale annientamento del nemico, che produsse 20 milioni di morti sovietici, tra militari e civili, e di un progetto di dominio che avrebbe dovuto portare le popolazioni slave a una condizione schiavile. Credo che all’origine dell’odissea subita da Claudio de Mohr e dagli altri dieci componenti della rappresentanza diplomatica della Repubblica sociale italiana caduti nelle mani dei russi ci possa essere anche questo precedente, che scaricò sulle loro spalle gli effetti di una colpa che era molto, molto più grande, e che mi pare doveroso non dimenticare, nel momento in cui si passa da una storia individuale a una storia collettiva, dalla memoria alla storiografia.