di Miriam Allegretto
La nostra amica Miriam Allegretto è tornata a scriverci dopo alcuni anni per raccontarci alcune sue recenti esperienze nel mondo del lavoro.
1. Il mystery client o mystery shopper è un cliente in incognito assunto da organizzazioni pubbliche o private, attraverso agenzie specializzate nel settore, per testare la qualità del servizio erogato dai propri uffici, punti vendita, ristoranti, hotel… Si tratta di una verifica sulla qualità del servizio che la legislazione fa rientrare nel potere di controllo attribuito al datore di lavoro.
La prima volta che ne sentii parlare fu nel dicembre 2013. In quel periodo mi trovavo in un comune della provincia di Milano, insieme a quelli che sarebbero stati i miei futuri colleghi, per svolgere due settimane di formazione. Da gennaio, infatti, saremmo stati assunti nella sede di un franchising di ristorazione di imminente apertura in provincia di Venezia.
A Milano lavoravamo in un locale appartenente alla stessa catena, accanto ai dipendenti impiegati lì da tempo, in modo da ricevere un’infarinatura delle mansioni che avremmo poi dovuto svolgere nella filiale cui eravamo destinati.
Nell’arco di quelle due settimane assegnarono a ognuno di noi un giorno di riposo. A me e a un’altra ragazza capitò di essere libere nella stessa giornata e decidemmo di trascorrerla insieme raggiungendo il duomo di Milano e passeggiando nei dintorni. Tutto era addobbato a festa per il periodo natalizio e ci sentivamo come se fossimo atterrate su di un’altra dimensione.
Nei giorni precedenti, infatti, eravamo sul posto di lavoro a fare pratica dalla mattina alla sera, anche più di 12 ore, in un clima di tensione, velocità e caos. Il tempo che rimaneva serviva per andare e tornare dal bed and breakfast in cui alloggiavamo, non proprio dietro l’angolo, un pranzo veloce, una doccia e dormire.
Solo quel pomeriggio iniziammo a parlare tra noi, e questa ragazza, più giovane di me, poco più di vent’anni, mi raccontò le sue varie esperienze lavorative. Una in particolare mi incuriosì: la mystery shopper.
Per spiegarmi meglio di cosa si trattasse, mi raccontò che una volta le avevano chiesto di andare in un negozio di una firma di alta moda a Venezia a fare un acquisto. Sarebbe poi dovuta tornare a fare il reso, in modo da verificare come si comportava con lei il personale e darne una valutazione attraverso dei questionari. Non era un lavoro di cui potevi vivere, ma uno dei tanti lavori occasionali da mettere insieme: poche decine di euro a incarico.
Una volta terminato il periodo a Milano tornai a casa con quella pulce nell’orecchio e, curiosa di vedere di cosa si trattasse, decisi di iscrivermi all’agenzia di cui mi aveva parlato, senza ricevere alcuna risposta.
2. Maggio 2018: dopo 4 anni e mezzo ricevo un’email da parte di un dipendente di quell’agenzia per chiedermi se fossi ancora interessata. Mi colse di sorpresa, non avevo più pensato a quell’episodio e nel frattempo avevo cambiato luogo di lavoro e tanto altro. Comunque la curiosità non mi aveva abbandonato.
Non potrò scrivere della mia esperienza perché ho firmato una clausola di riservatezza in cui mi impegno a non diffondere dati o materiale né durante né dopo l’incarico. Credo che non potrei nemmeno scrivere di averlo accettato, come invece sto facendo.
Non è un compito che ripeterò, mi ha messo a disagio nonostante i giudizi positivi espressi. È stato comunque abbastanza interessante leggere i questionari. Emerge in modo chiaro quale tipo di presenza, comportamento, domande rivolte al cliente si pretendano dai dipendenti per concludere la vendita, come si debba presentare il locale, ecc.
Leggendo alcune domande, mi tornò subito in mente il periodo in cui lavorai nel call center di una grande agenzia assicurativa: devi assumere un certo atteggiamento, fare certe domande, proporre la vendita abbinata. Essere proattivi, si diceva.
In rete ho trovato un articolo in cui viene intervistato un mystery client che spiega bene in cosa consista il lavoro: «Il nostro compito […] è fare o simulare acquisti nei negozi per valutare, in base alle richieste, la pulizia dei locali, il comportamento del personale e il rispetto degli standard di cura della clientela imposti dai dirigenti delle catene. Dobbiamo verificare cortesia, modo di presentarsi, capacità di interagire con i clienti. Mi è capitato di controllare di tutto: le frasi di accoglienza da parte dello staff, le divise indossate, la musica in sottofondo, l’allestimento delle vetrine, la presenza di determinati fiori sui tavoli dei ristoranti […] Se dicessi il mio cognome e dove abito, mi scoprirebbero. Nessuno deve capire che sono lì per fare un controllo […]. Bisogna mettersi davvero nei panni di un cliente e mettere in difficoltà i venditori. Dire prima di un acquisto “guardi, ci ripenso” e vedere che reazione hanno, quanto conoscono il prodotto, che tecniche usano per convincermi a comprare».
Alla fine dello stesso articolo si leggono poi le parole di un dipendente di un’agenzia del settore che in merito a questa professione racconta: «esiste almeno da metà dei ’90. Negli ultimi anni però c’è stata una forte accelerazione grazie all’arrivo in Italia di grandi catene distributive straniere e allo sviluppo di punti vendita di proprietà da parte di grossi brand del made in Italy. Ci chiedono soprattutto di far controllare le performance del loro personale. Solo raramente ci capita di fare indagini sulla concorrenza: per quel compito, spesso le imprese utilizzano altre figure».
Nel periodo trascorso tra la chiacchierata a Milano e l’email ricevuta pochi mesi fa, mi imbattei un’altra volta in questa professione: proprio nel locale in cui lavorai, quello di cui ho scritto all’inizio. Anche lì, ricevemmo la visita, in più di un’occasione, di alcuni mystery client.
I dirigenti del franchising inviavano poi al responsabile della filiale i risultati ottenuti dall’indagine e, nel corso delle riunioni, lui li leggeva a noi dipendenti. Cercava di capire cosa non avesse funzionato, perché e di chi fosse la responsabilità. Anche se i dati riportati nei questionari sono anonimi e non dovrebbero essere utilizzati per ricondurre a questo o a quel dipendente, attraverso la data della visita del cliente in incognito era possibile risalire facilmente a chi fosse di turno in quel momento.
3. Per un attimo voglio tornare nel dietro le quinte. Ecco, più o meno, cosa avrebbe potuto raccontare un “mystery worker” in contemporanea a quelle visite del “mystery client”.
Il punto vendita è situato all’interno di un centro commerciale. Nel retro l’illuminazione è al neon, ed è presente un lucernario sempre chiuso, ricavato su un soffitto molto alto da cui la luce naturale non riesce a filtrare.
Le attrezzature sono usurate per il carico di lavoro intenso e costante cui vengono sottoposte e sono in continua manutenzione. Si insinua spesso il dubbio, non tanto dal responsabile della sede, quanto dai dirigenti, che i vari malfunzionamenti dipendano dalla poca cura del personale. Se qualcosa non funziona, in attesa che venga riparato o sostituito, ci si arrangia come si può.
Il personale a contatto con il pubblico ha una divisa fornita dal datore di lavoro, mentre quello impiegato nel retro deve procurarsi da sé gli indumenti. Persino le scarpe antinfortunistica, che l’operatore è obbligato a indossare, non vengono fornite, anche con vari pretesti: per esempio il responsabile dice di non trovare mai in vendita il numero che serve. Alla fine il dipendente, a cui dicono che se ci saranno dei controlli sarà un problema – il dubbio: dovrà pagare una multa di tasca sua? –, le acquista da sé.
I contratti di lavoro sono precari per quasi tutti e di varie tipologie (a chiamata, voucher, MOG, ovvero “Monte Ore Garantito”… appena viene individuato il tipo di contratto meno dispendioso lo si adotta), alcuni lavorano per conto di un’agenzia del lavoro, altri sono assunti direttamente dall’azienda. Non c’è personale specializzato. Il ricambio è frequente, solo in pochi rimangono più a lungo di un anno.
I turni di lavoro per alcuni arrivano a superare in maniera regolare le 40 ore settimanali, per altri invece sono solo di poche ore: vengono chiamati all’occorrenza e “staccati” non appena possibile.
Gli orari di lavoro, consegnati la domenica sera per la settimana successiva, sono soggetti a cambi repentini, spesso comunicati all’ultimo minuto tramite una telefonata. Quando l’affluenza dei clienti è particolarmente intensa ad alcuni dipendenti viene richiesto di prolungare l’orario di permanenza senza nessun preavviso.
Questa è solo una piccola parte dell’esperienza che ho vissuto; ne conservo vari ricordi ma purtroppo non ne ho tenuto un diario. Guardarsi dall’esterno non è semplice, e per quanto mi riguarda spesso mi sono lasciata travolgere dai lavori che ho svolto. La recente esperienza come “mistery client” mi ha dato un’ulteriore spinta a rovesciare lo sguardo, risalendo nei ricordi.
E se pensarsi come un “mystery worker” – fare un resoconto delle condizioni di lavoro, valutare il datore di lavoro, riflettere sui rapporti con i colleghi – fosse d’aiuto a conservare un po’ di consapevolezza e di spirito, prima che la routine e il cinismo prendano il sopravvento? Anche, un modo per impedire che si formi quel “callo” di cui di recente, su questo sito, ha parlato Giulio Vallese nel suo resoconto dal mondo della scuola, un ambiente di lavoro che mi è del tutto sconosciuto e – si direbbe – molto diverso da quelli che ho frequentato.
Intanto, iniziare a pensare alle esperienze vissute come se fossi stata una inviata nel mondo del lavoro mi fa sentire un po’ meglio.