di Andrea Lanza
Pubblichiamo il testo della relazione che Andrea Lanza ha presentato alla giornata di studi Una volta il futuro era migliore? Lavoro, storia, conflitti, che si è tenuta il 2 giugno 2018. Ne approfittiamo per segnalare che a fine settembre comincerà un ciclo di tre incontri dedicati a questi temi, che si terranno presso la sede di storiAmestre (si comincerà il 26 settembre con una relazione di Stefano Petrungaro; nei prossimi giorni maggiori informazioni).
Nel mio intervento di oggi vorrei mettere sul tavolo alcune questioni da discutere, che sono poi parte importante delle questioni che alimentano, in modo implicito o esplicito, le mie ricerche storiche. La prima – che anticipo ora per poi tornarci alla fine – è quella di un anacronismo; la seconda è quella del senso politico da dare all’espressione lotta di classe, e sottolineo politico perché in quel termine c’è la dimensione che ci interessa oggi: il sentimento del futuro, la proiezione nel futuro, la capacità che c’è stata nel passato di trarre da un’immaginazione del futuro la forza per agire nel presente.
Cerco di rifuggire il più possibile gli anacronismi, sottolineando o enfatizzando rotture e discontinuità; allo stesso tempo, credo che lo storico debba sempre fare i conti con l’anacronismo: quello che nel passato ci interessa, ci interessa perché ci dice qualcosa ora. Se si vuole utilizzare un’espressione, che mi piace molto, tipica di storiAmestre, “andare a vedere”, ci si interrogherà su cosa si voglia vedere e su cosa si possa vedere nel passato. Nel mio caso, credo che vi sia una sorta di analogia che anima, forse anche più di quanto io stesso voglia, le mie ricerche ottocentesche, un’analogia anacronistica, un parallelo (sebbene non simmetrico) fra gli anni Quaranta dell’Ottocento e gli anni Settanta nel Novecento. Questo parallelo in qualche modo segna le cose che voglio andare a vedere e le cose che ho potuto vedere, ovvero le domande con cui ho interrogato le fonti per andare a vedere ciò che è stato.
1. L’avvenimento specifico che sono andato a vedere e di cui voglio parlarvi oggi è uno sciopero ottocentesco, lo sciopero dei carpentieri di Parigi e dintorni nell’estate del 1845. Quello dei carpentieri è un mestiere marginale nell’immaginario che si è sviluppato a posteriori sulla formazione della classe operaia e anche nelle ricerche sulla trasformazione delle relazioni di produzione; del resto, e lo sapete, l’immaginario così come la storiografia del Novecento sono segnati dal cosiddetto modello inglese, che poi è il modello di una certa Inghilterra, quella delle grandi manifatture, e dal successivo successo (immaginario e storiografico) della produzione in serie e di massa, via via sempre più scientificamente e burocraticamente organizzata, che rinforza a posteriori l’idea del modello inglese ottocentesco. Sono quelli i modelli di organizzazione del lavoro in cui si concretizza la nozione astratta (e al vero estremamente problematica) di capitalismo nel marxismo così come negli economisti liberali. Nelle grandi fabbriche stava la classe operaia e là si cercava la sua formazione, con non poche forzature.
Nel 1845, però, lo sciopero dei carpentieri non è lo sciopero di un mestiere atipico; al contrario, i carpentieri sono un mestiere centrale per il modo che gli operai avevano di allora di pensarsi come un insieme, definito al contempo da condizioni simili, da valori morali condivisi, da speranze comuni e dalla necessità quasi di rispondere all’appello della storia per realizzare un nuovo mondo. I carpentieri sono parte integrante di quell’insieme, di quella classe.
Se vogliamo isolare la dimensione economica, l’edilizia era (e resta ancora oggi) un settore strategico. È vero in generale, per la quantità di investimenti, numero di lavoratori, ma anche perché all’edilizia erano (e sono) legati un volume impressionante di prestiti, debiti, interessi, ipoteche, garanzie, ecc. su scale molto diverse (e talvolta l’edilizia è il punto d’incrocio fra queste scale diverse). Questo è ancor più vero – se questo è possibile, visto che la recente grande crisi economico-finanziaria globale è stata innescata proprio dal credito immobiliare –, dicevo è ancor più vero nella Parigi dell’epoca, non solo per la forte crescita urbana, ma anche per una dinamica socio-economica che ha giocato un ruolo fondamentale nella trasformazione della società francese, nella ridefinizione e distribuzione delle proprietà, come nell’emergere di nuove istituzioni e strumenti finanziari. Mi riferisco alla dinamica socio-economica legata ai beni nazionalizzati e privatizzati durante la Rivoluzione.
Lo sciopero dei carpentieri è significativo da subito. Innanzitutto per la sua ampiezza: sono coinvolti sei/sette mila operai nella città e nei dintorni di Parigi, dai primi di giugno fino all’autunno (ovvero la conclusione della stagione in cui l’edilizia lavora); è oggetto, a un certo punto, dell’intervento repressivo di magistratura e polizia con conseguente processo, celebrato a sciopero ancora in corso. Infine, lo sciopero in generale e il processo in particolare sono oggetto di un dibattito pubblico diffuso. Si tratta di un avvenimento fortemente mediatizzato (e mediatizzato, c’è da dire, anche per volontà stessa degli attori, e degli operai in particolare).
2. Non c’è purtroppo il tempo per raccontare lo sviluppo dello sciopero nei particolari, cercherò di sintetizzarne i principali tratti. Lo sciopero vero e proprio inizia ai primi di giugno a seguito del fallimento delle prime trattative in maggio, quando gli operai erano tornati alla carica per rinnovare il tarif. Il tarif è un accordo tra i rappresentanti degli operai e quelli degli imprenditori sulle condizioni di lavoro (paga oraria, durata delle giornate, possibilità o meno del subappalto delle committenze, ecc.); è un accordo che normalmente dura dieci anni, a quanto pare scritto, anche se in realtà poi la copia scritta non sembra fondamentale (al punto che quella dell’accordo precedente, pattuito dodici anni prima, nel 1845 è già andata persa). Ciò che fa fede è la sua applicazione e la reiterazione continua della sua applicazione.
Nel 1845, l’accordo precedente era già scaduto da un paio di anni e in effetti gli operai ne avevano già chiesto il rinnovo. Nella primavera di quell’anno, però, gli operai lo rivendicano con maggiore decisione e avanzano le proprie richieste: aumento della paga oraria, con base remunerativa uguale per tutti gli operai abili (cioè formati e in grado di lavorare; base perché si lascia aperta la possibilità ai più bravi di contrattare una paga maggiore), con giornata di dieci ore e sistema di straordinario crescente per le ore successive; divieto di subappalto: il gioco delle committenze riassegnate produce inevitabilmente l’abbassamento dei salari e delle condizioni di lavoro oltre che l’introduzione del lavoro a cottimo.
Gli imprenditori rispondono un no senza margini di negoziazione, per cui lo sciopero viene lanciato.
Ci sono alcuni termini da chiarire: innanzitutto cosa vuol dire “fare sciopero”. Faire grève vuol dire non lavorare o, più precisamente, essere nella condizione di non lavoro, per la brutta stagione, una crisi o per scelta volontaria, come in questo caso. Gli operai sono ingaggiati a giornata o a lavoro; nessuno è obbligato a cercare offerte di lavoro né ad accettarle; lo sciopero, quindi, non costituisce reato. È reato la “coalizione”. E cosa sia una coalizione, secondo il codice, non è chiaro: la coordinazione e/o l’imposizione dell’interruzione del lavoro (degli operai o dei datori di lavoro, sebbene nel primo caso in maniera leggermente più restrittiva).
Altri termini da chiarire: operai e imprenditori, o maîtres.
Chi sono gli operai e come sono rappresentati? Gli operai carpentieri (come ho già detto sei/sette mila nell’area parigina) lavorano in cantieri di grandezze molto variabili: da una miriade di piccoli con un paio di operai o poco più, ad alcuni cantieri con un centinaio di lavoratori. Sono inquadrati nelle società di compagnonaggio, grazie alle quali i giovani futuri carpentieri, attraverso un lungo giro di Francia, si formano. Queste società accolgono gli operai, offrono loro alloggi e luoghi di socialità (osterie e mescite di vino), impongono loro regole di comportamento, scandiscono le loro vite con riti, oltre a svolgere un ruolo fondamentale nella distribuzione del lavoro e (come vedremo per lo sciopero dei carpentieri del 1845) nelle negoziazioni del tarif. Uso il plurale, perché vi sono diverse società di compagnonaggio, concorrenti o, meglio, rivali: rivalità evidentemente per interessi materiali, ma anche rivalità, per così dire, identitarie. Riconoscibili a prima vista da segni distintivi portati sempre su di sé, membri di società avverse non raramente si scontrano, anche in maniera cruenta, talvolta a sangue, quando non a morte. A Parigi, le società dei carpentieri sono due e hanno raggiunto un accordo dividendosi le aree di pertinenza in città (una riva della Senna ciascuna). A queste due società formali se ne aggiungono almeno un altro paio informali che riuniscono da una parte gli operai che per ragioni diverse non vogliono più aderire alle prime due, dall’altra gli operai sposati che, proprio per il matrimonio, non possono più essere membri delle società ufficiali.
Compagnone carpentiere impegnato nel giro di Francia per la sua formazione, anni 1840; illustrazione di Jules Noël.
Da “L’Illustration. Journal universel”, 144, 29 novembre 1845, p. 205.
Lo sciopero è deciso in accordo dalle società ufficiali e da quelle informali. Perciò, quando dico gli operai, intendo gli operai attraverso le loro rappresentanze. Ciò detto, devo anche dire che non ho mai trovato nessuna fonte, testimonianza o altro, sui processi decisionali, su chi e come decideva.
Dall’altra parte vi sono i maîtres. Termine non facile da tradurre, perché indica sia il capomastro che il padrone; sono coloro che possiedono l’officina, trattano con il committente i lavori e hanno alle loro dipendenze degli operai (come dicevo, talvolta pochissimi, talvolta molti). La maggioranza sembra essere composta da ex-operai poiché la porosità fra le due condizioni, quella di operaio e quella di maître, è notevole. Il loro organo di rappresentanza è la Camera degli imprenditori della carpenteria del dipartimento della Senna (ovvero di Parigi e dintorni); organo ufficiale, che svolge alcune funzioni di controllo e garanzia, ma di fatto anche di socialità, oltre che di negoziazione con la controparte. Nel 1845, questa Camera è diretta da un grande imprenditore e di fatto durante lo sciopero rappresenterà solo una parte dei maîtres.
3. Abbiamo quindi gli operai, fortemente inquadrati dalle loro organizzazioni; i maîtres con la propria rappresentanza; e poi abbiamo le autorità pubbliche e il resto della città.
Due parole sulle autorità: il prefetto di polizia di Parigi, in linea con i suoi predecessori, in una prima fase si limita a monitorare la situazione. Teme tre cose: la disoccupazione forzata degli altri operai dell’edilizia; la diffusione di scioperi in altri mestieri; la strumentalizzazione politica (il prefetto Delessert, bisogna dirlo, appare ossessionato dalle società segrete e ne segnala, per anni ogni settimana, le attività di riorganizzazione; è un’ossessione, tra l’altro, interessata, nella misura in cui giustifica in generale la sua funzione e nello specifico il suo investimento in una fitta rete di informatori). Il prefetto vigila affinché lo sciopero non si trasformi in un conflitto politico; in altri termini, riconosce uno spazio di autonomia alle dinamiche sociali, alla conflittualità sociale. La sua posizione rispecchia le ambiguità del diritto dell’epoca.
Per mostrare meglio il tipo di condotta del prefetto mi limito a evocare un episodio di poco successivo al nostro sciopero. I tipografi parigini avevano lavorato per alcuni anni al proprio tarif, un accordo più complesso di quello dei carpentieri nella misura in cui implicava addirittura una commissione per dirimere i conteziosi particolari, una sorta di tribunale dei probiviri autogestita fra maîtres e operai. I tipografi, giustamente, erano particolarmente orgogliosi di questo tarif, e in effetti il loro accordo viene evocato spesso dalla stampa operaia come esempio da seguire; per questo ne festeggiano gli anniversari negli anni successivi, nella maniera consueta all’epoca: con dei grandi banchetti. Rispettosi della legge, chiedono il permesso al prefetto; le trattative portano infine a un permesso concesso a una condizione che viene accettata dagli operai in quanto ridicolmente ipocrita: il tarif (la ragione per cui si celebra il banchetto) non deve essere nominato. In realtà sappiamo che poi, ovviamente, tutti i brindisi saranno dedicati al tarif. Ma l’episodio ci mostra quanto le autorità siano in difficoltà nel relazionarsi con questo genere d’accordi.
Il prefetto, quindi, inizialmente osserva, monitora quel che accade tra i carpentieri. Dopo un paio di settimane, il governo decide di cercare di tagliare le gambe allo sciopero mettendo a disposizione quattrocento soldati (non formati) che vanno sostituiscono gli scioperanti nei cantieri considerati urgenti, senza però un reale impatto.
Intanto, il resto della città sembra stupirsi dell’ordine e della calma con cui le migliaia di operai carpentieri sta scioperando. La stampa socialista dimostra simpatia e difende le rivendicazioni degli scioperanti sebbene, anche i giornali operai, non nascondano critiche e scetticismo sulla forma sciopero (critiche su cui non posso qui soffermarmi). Da fonti indirette, sembra che diverse società operaie sottoscrivano a favore degli operai carpentieri. Dall’altra parte, si alzano voci nella stampa governativa che riprendono le argomentazioni della Camera degli imprenditori, contro l’idea stessa di un tarif, di un accordo collettivo, a favore invece del libero mercato (dove mercato ha il significato concreto di contrattazione e/o quello astratto economico, luogo virtuale di equilibrio fra domanda e offerta).
4. Torniamo agli operai carpentieri: a circa un mese dall’inizio dello sciopero, si assiste a una sensibile evoluzione. Dietro all’apparente iniziale contrapposizione assoluta, si fanno sempre più evidenti le divisioni nel campo patronale, anche o soprattutto grazie alla grande organizzazione messa in campo dalle due principali società di compagnonaggio. Vi è infatti una precisa coordinazione delle adesioni al tarif. I maîtres che aderiscono possono riaprire i propri cantieri e i loro operai ricevono dei biglietti stampati di permesso di lavoro. Gli altri operai possono approfittare di buoni credito per certi negozi e probabilmente anche di contanti, raccolti attraverso una tassazione degli operai rientrati a lavorare nei cantieri autorizzati.
Processione di compagnons carpentieri vestiti a festa che mostra un capolavoro, anni 1840; illustrazione di Jules Noël
Da “L’Illustration. Journal universel”, 144, 29 novembre 1845, p. 204
Dopo un mese di sciopero, una metà degli oltre trecento mastri-imprenditori hanno sottoscritto il nuovo tarif. In questa situazione, la magistratura reclama l’intervento della polizia; il prefetto sembra improvvisamente rendersi conto che la struttura organizzativa è quella delle società di compagnonaggio. Partono i mandati d’arresto, sono eseguiti una ventina di arresti e si procede al sequestro dei registri, della cassa ecc. Gli imputati vengono processati un mese dopo, nella seconda metà di agosto, a sciopero ancora in corso. Lo sciopero in effetti non ha una vera fine, i cantieri dei maîtres che non aderiscono restano chiusi tutta la stagione.
Di fatto l’anno successivo (lo si deduce da fonti che riguardano conteziosi fra operai e maîtres), il tarif di riferimento è ormai quello rivendicato dagli operai, ma in realtà, lo sciopero accelera la decadenza del mestiere in generale, a favore di soluzioni architettoniche che privilegiano l’uso dei metalli.
Restiamo all’agosto 1845: il processo è certamente il momento anche di maggior visibilità dello sciopero. A difendere gli operai ci sono avvocati importanti, alcuni noti per le simpatie repubblicane e socialiste, ma anche uno, quello più importante, che fa parte degli ambienti del cattolicesimo conservatore. Intorno al processo e allo sciopero si anima un dibattito in cui si ritrovano le maggiori posizioni e – mi sembra – emerge un elemento fondamentale del conflitto, che poi è effettivamente il cuore del conflitto, quella che chiamo la dimensione politica della lotta di classe.
Per chiarire il mio discorso voglio insistere su alcuni punti: quando si vanno a vedere da vicino le lotte che iniziano a chiamarsi proprio in quel momento lotte di classe, si scorgono diversi elementi che cerco di sintetizzare.
Innanzitutto si osservano delle istituzioni (formali e informali); si ha quasi la tentazione di chiamarle istituzioni tradizionali ma sarebbe erroneo perché sono perfettamente coerenti con il contesto culturale e giuridico che segue la Rivoluzione: l’istituzione del tarif (e le procedure formali e informali di negoziazione e di applicazione), le società di compagnonaggio, la camera dei mastri/imprenditori. In altri termini, si osserva l’articolazione fra il diritto liberale e le pratiche di fatto di negoziazioni collettive, fortemente normate nel mondo dei mestieri dell’epoca.
La posta in gioco, il motivo del contendere di queste lotte sono proprio queste istituzioni. È questa la dimensione politica della lotta di classe. Ho cercato di sintetizzarla in un’espressione forse un po’ ostica ed esoterica: l’articolazione fra quadro politico-giuridico e spazio sociale (o società civile, società). Cerco di dirlo in altri termini: al di là delle rivendicazioni concrete, il conflitto è fra modi totalmente differenti, anche incompatibili di rispondere alle domande che s’impongono dopo la Rivoluzione, cioè dopo che la Rivoluzione ha portato un colpo fatale al vecchio modo di organizzare la società, fondato sull’esplicita gerarchizzazione del corpo sociale. Il nuovo diritto proclama la libertà d’industria e l’abolizione delle corporazioni, delle strutture che godevano del privilegio di una certa produzione, nonché della responsabilità di garantire la qualità dei prodotti e la soluzione dei contenziosi interni a quella specifica produzione. Nella nuova società, a chi vanno l’onere e l’onore di quelle funzioni? La risposta non può essere univoca, né definitiva.
Concentrandosi sui contenziosi interni, sulla conflittualità del lavoro, la domanda è: chi può legittimamente decidere delle condizioni di lavoro? Si tratta di questioni d’interesse generale, o collettivo, o di semplici rapporti contrattuali fra privati?
Se osserviamo lo sciopero dei carpentieri attraverso queste domande, vedremo emergere posizioni divergenti: gli operai non richiedono solo un aumento salariale, chiedono innanzitutto di considerare il salario come una questione che non può essere lasciata alla negoziazione fra privati. Difendono la necessità di un “giusto salario”, e più in generale di una deliberazione collettiva sulle condizioni di lavoro. La stampa operaia spesso insiste anche sulla necessità di pensare a successive ratificazioni da parte dei rappresentanti della nazione, alla loro successiva traduzione in leggi. Emerge cioè esplicitamente la prospettiva di una repubblica sociale o, in altri termini, di un progetto politico socialista.
Al di là di quella che probabilmente resta una minoranza politicamente impegnata, mi sembra che emerga una contrapposizione più generale, diffusa, fondamentale nel conflitto. Una contrapposizione che non è solo sociale, ma da subito intrinsecamente politica nella misura in cui si fonda su maniere contrapposte di definire il limite fra libertà individuale e quadro giuridico. In gioco vi è la difesa dei soggetti potenzialmente deboli, ma anche la difesa di valori considerati fondamentali per la società: il giusto salario, per esempio.
Nelle posizioni degli operai come in quelle degli imprenditori, che si spaccano non solo per opportunismo ma proprio su questo punto, si esprimono modi opposti di pensare non solo la società e la giustizia, ma di pensare il futuro. Non a caso gli uni accusano gli altri di rappresentare il passato, forme arcaiche di corporativismo (accusa di parte degli imprenditori contro gli operai) o forme prerivoluzionarie di egoismo (accusa operaia contro gli imprenditori che non vogliono un accordo collettivo). Si assiste infatti a una divergenza in seno ai maîtres, fra una parte che vuole far evolvere le relazioni con gli operai nel quadro di una negoziazione collettiva, in cui le condizioni di assunzione sono decise dagli organi che il mestiere stesso (conflittualmente) si dà, e una parte che le vuole far evolvere verso un’individualizzazione delle contrattazioni.
È facile mostrare nella stampa dell’epoca le posizioni che si contrappongono, in prospettive divergenti, da quelle esplicitamente conservatrici (preservazione della gerarchia dalla scossa rivoluzionaria che è al contempo individualizzante e statalista), alle posizioni liberali più o meno conservatrici o più o meno innovatrici, alle posizioni che iniziano a definirsi socialiste. Ma al di là di queste posizioni esplicitate, credo che diverse concezioni della società emergano implicitamente nel conflitto dei carpentieri. Emergono nei modelli di socialità normale ed eccezionale (quella di cui si fa l’esperienza nello sciopero, nell’assenza di lavoro e nello sviluppo di un’organizzazione quotidiana di solidarietà; o, per esempio, nelle relazioni con le diverse componenti della controparte), socialità per così dire esperita, ma anche socialità immaginata, desiderata, prospettata per il futuro. Ed è su questo punto che vorrei insistere: la comprensione di quelle lotte nella Parigi del 1845 non può prescindere dal sentimento diffuso di essere in un processo storico aperto o consacrato dalla Rivoluzione, quella del 1789 e quella del 1793, di essere cioè nella direzione della storia, con un futuro davanti, un futuro non di individualizzazione, ma di nuovo egualitario governo dei diritti individuali.
Ed è questo senso della storia, senso inteso come direzione e inteso come significato, direzione e significato della storia che alimenterà le lotte del secolo e mezzo successivo, lotte che presenteranno sempre anche la dimensione politica su cui insistevo prima: il conflitto sulla definizione del limite fra questioni d’interesse generale e libertà individuali, a iniziare dal campo del lavoro e delle sue condizioni. L’emancipazione del lavoro e dal lavoro era il futuro, il destino dell’umanità. La lotta di classe era in sé lo scontro fra prospettive di società contrapposte, scontro fra futuri diversi.
Le classi dominate avevano dalla loro parte la forza di un futuro perfino più coerente con i principi su cui la società si diceva fondata di quanto lo fosse il futuro voluto dalle classi dominanti. Senza riuscire a rovesciare la realtà, le classi operaie europee avevano la forza di avere il futuro dalla propria parte.
5. Torniamo per finire al parallelo fra gli anni Quaranta dell’Ottocento e gli anni Settanta del Novecento cui ho accennato all’inizio. Vi sono certamente diversi elementi che invitano a cercare le analogie e a mettere in parallelo i due decenni, del resto non è affatto per caso se, per esempio, è proprio dopo l’esperienza degli anni Settanta e le trasformazioni che li hanno accompagnati che una parte degli storici economici ha imposta con forza la necessità di ripensare radicalmente la storia dell’industrializzazione liberandosi del teleologismo fordista, o che una parte degli storici del socialismo ha lavorato per riportare alla luce le elaborazioni teoriche e le pratiche operaie di quegli anni.
Qui, voglio insistere su un altro elemento: i due decenni (da intendersi chiaramente in senso non preciso) sono paralleli nella misura in cui costituiscono due momenti fondamentali nel connubio inscindibile fra identità di classe e sentimento del futuro. Le sconfitte operaie della fine degli anni Settanta e degli anni Ottanta, sono state infatti anche, e forse soprattutto, decretate dalla capacità di una nuova generazione della destra liberale, quella neoliberista, di rovesciare l’immaginario del futuro. Il cuore della vittoria della Thatcher è proprio nella capacità di imporre un altro futuro, definendo gli altri, i vecchi minatori, con i loro stantii sindacati e il loro sporco carbone, dei conservatori, delle vestige del passato. Thatcher, Reagan, ma anche Craxi, Mitterrand… e giù fino a oggi. Sindacati, sinistra, socialismo: siamo presi in una rappresentazione del futuro in cui, ancor prima di immaginare altri mondi possibili, altri modi di articolare le libertà individuali e le decisioni collettive o generali sulle condizioni di lavoro, abbiamo l’enorme difficoltà di non rappresentarci come nella condizione di essere contro la direzione della storia. L’immaginario che ci domina è quello della resistenza, resistenza verso un futuro incombente di individualizzazione delle relazioni di lavoro.
Fra anni Quaranta dell’Ottocento e anni Settanta del Novecento vi è allora un parallelo, sebbene le direzioni siano forse opposte: i due decenni sono in qualche modo l’inizio e la fine di un periodo in cui il conflitto sociale si è alimentato di un sogno di trionfo totale, insieme lontano, vago, ma anche estremamente prossimo, quasi imminente, quello dell’avvento di una rivoluzione sociale.
Manifesto del partito conservatore inglese nel 1978, alla vigilia della vittora della Thatcher.
Fonte: https://www.campaignlive.co.uk/article/history-advertising-no-90-labour-isnt-working-poster/1281255