di Giovanni Comisso
Riprendiamo alcuni documenti e alcune pagine dello scrittore Giovanni Comisso (1895-1969), relativi al 25 luglio e all’8 settembre 1943. All’annuncio delle dimissioni di Mussolini Comisso si trovava a Treviso. Nella prima metà di agosto fu richiamato alle armi e si trovava a Roma, in procinto di prendere servizio in ufficio di censura, quando giunse la notizia dell’armistizio.
1. 25 luglio 1943: «Muore Re Sole», ma l’estate dura così poco
Alla fine del luglio 1943, Comisso scrisse una lettera all’amico Renato Peretti (che nel dopoguerra sarebbe diventato un celebre falsario di quadri d’autore, specializzato in De Chirico), in cui raccontava il suo 25 luglio a Treviso (che è la città natale dello scrittore).
«Contrariamente al solito io e Languasco [Edoardo Languasco, il segretario del pittore Filippo De Pisis che era grande amico di Comisso], il pomeriggio del 25 luglio abbiamo dormito dalle due alle sei per aver bevuto alcuni bicchierini di vodca eccitati dalla lettura di Anime morte di Gogol, dove pasteggiando si beve così. E si seppe nulla di quello che accadeva sul cielo della Patria.
La notizia mi venne data dalla mia contadina al mattino, il gallo cantava, la strada era più che mai deserta. Si andò a Treviso e la prima cosa che vidi fu una coppia di coniugi sporchi e miserabili che vendevano bandierine di carta e le tenevano tutte intrecciate attorno al corpo come una ghirlanda di fiori. Poi davanti ad un’osteria famiglie intere che bevevano sedute a lunghe tavolate come in un giorno di sagra. Poi il volto radioso di mia madre e diceva: “come nel sessantasei quando sono entrati gli italiani a Treviso…”. Ò commentato l’avvenimento leggendo in Saint-Simon la morte del Re Sole e la gioia scaturita nelle provincie e nella capitale dissanguate, oppresse, schiacciate nella libertà e nella vita dopo settanta anni di regno, fitto di guerre e di soprusi. In attesa di una risoluzione, di un principio di chiarimento, se cioè avremo un’invasione tedesca o un’invasione inglese; se non avremo né l’una né l’altra; se avremo una sommossa comunista o un ferreo governo militare, non mi posso muovere da Zero, non per me, ma per mia madre che se le cose si fanno minacciose ò stabilito di portare da Treviso qui in campagna. Qui sto bene, abbiamo Languasco che cucina a meraviglia, visite piacevoli. Ma vorrei tornare a Chioggia a trovare la mia zingara. Bisogna pur goderci anche l’estate, che dura così poco».
2. 8 settembre 1943: «Viva Maria»
Comisso, che era stato al fronte per gran parte della Prima guerra mondiale (e subito dopo era stato nella Fiume occupata dai «legionari» di D’Annunzio), fu richiamato alle armi nella prima decina di agosto, mentre appunto si trovava in vacanza a Chioggia. Doveva entrare in servizio in un ufficio della censura, ma non ne ebbe il tempo, in ragione dell’8 settembre. Qualche giorno dopo l’annuncio dell’armistizio lasciò Roma e raggiunse Treviso, dove ritrovò la madre e organizzò il suo «sfollamento» familiare nella casa di campagna a Zero Branco. Queste vicende sono rievocate nel capitolo «1943» de Le mie stagioni (pubblicato per la prima volta nel 1951), che riprendiamo qui di seguito.
“Verso la fine di agosto fui di nuovo richiamato per prestare servizio a Roma nella censura postale. Era un servizio opprimente, mi feci forza a sopportarlo, appena mi rimaneva qualche ora libera andavo a prendere il sole sul terrazzo dei bagni galleggianti sul Tevere vicino agli angeli del ponte. Una sera mentre andavo a cena alla casa di un mio amico intesi grida in fondo a una strada, poi vicino, un ragazzo passò urlando: «Viva Maria». Altri dissero che la guerra era finita. Il mio amico sopraggiunto non sapeva cosa fosse avvenuto, da una finestra aperta si intese la radio annunciare che era stato firmato l’armistizio. Dicevano che gli alleati stavano per sbarcare vicino a Roma. Era l’8 di settembre. Mi sentivo liberato come da un’oppressione enorme, respiravo come quando andavo in montagna, sebbene la cena offerta dall’amico fosse sontuosa, non ne sentivo il sapore, uscimmo subito per godere della gioia del popolo, ma non trovammo che gente preoccupata e pensierosa. V’era difatti da pensare a quello che avrebbero fatto i tedeschi se gli alleati non fossero sbarcati e non avessero occupato rapidamente tutta l’Italia. Verso l’alba mi svegliò il cannone dalla parte del mare, credevo sicuramente fosse la flotta inglese, e lo sbarco imminente. Continuai a scrivere il mio romanzo e andare al Tevere. Nessuno sapeva quello che succedeva, i tedeschi erano scomparsi dalla città. Il giorno dopo ritornando dal Tevere, a metà del ponte vidi gente spaventata fuggire e gridare: «Arrivano i tedeschi». Volevo rifugiarmi in Castel Sant’Angelo come per un nuovo sacco di Roma, ma erano stati scambiati per tedeschi nostri soldati in divisa coloniale. La città era eccitata. Non uscivano giornali, la radio non funzionava, ma si era saputo che i tedeschi avevano circondato la città e volevano entrare, in diversi punti truppe nostre combattevano. Si sentiva il cannone e alcune granate caddero nel centro. Andai alla casa della mia amica Irene Brin, suo marito Gaspero che era ufficiale combatteva alle porte di Roma, vi trovai anche l’amica Orsola Nemi e mentre si parlava riprese il bombardamento di Roma, le granate scoppiavano sopra piazza di Spagna. Le feci scendere in rifugio, Irene Brin ritardava nel darsi la cipria e nel mettersi i suoi gioielli preferiti, e una granata scoppiò in cielo in direzione della finestra aperta. Poco dopo arrivò Gaspero e ci disse che nessuna resistenza era possibile mancando di mezzi corazzati, i tedeschi entravano in città. Ero ritornato al mio albergo, il proprietario che era svizzero vi aveva messo una bandierina del suo paese per garantirne l’incolumità. Le voci erano contrastanti, i tedeschi erano già a Piazza Venezia, vicino alla stazione si resisteva, un ragazzo da solo con bombe a mano non li lasciava avanzare. Passò un battaglione di granatieri che andava verso Piazza del Popolo. Era l’ultimo brandello del nostro esercito. quei granatieri che avevo visto scendere dopo le battaglie sul Carso, passavano scivolando sull’asfalto con le scarpe chiodate, alcuni ragazzi li aiutavano a portare le cassette di munizioni. Dalle finestre si gridava di ammazzare i tedeschi e si batteva le mani. Piovigginava e il cielo si era incupito come nei giorni di tutte le nostre sconfitte. Vedevo i volti di quei soldati guidati da pochi ufficiali come imminenti al pianto, e riconoscevo dai loro aspetti molti delle mia regione. Era quello stesso esercito visto nelle vittorie che passava col suo ultimo passo di marcia verso il nemico. e mi sentivo straziare. La notte passò tranquilla e all’alba non si sentì più il cannone. Nelle trattorie non si trovava più nulla da mangiare, i negozi vendevano in breve tutto quello che avevano esposto, la città era bloccata e niente arrivava dal di fuori. La folla aveva saccheggiato i depositi dei tedeschi. Poco dopo erano arrivati alcuni di loro a presidiare gli alberghi e gli altri edifici che erano loro riservati. Gli occhi cerulei sotto l’elmo d’acciaio, in tenuta da combattimento, con nastri di cartucce a tracolla, ritti accanto alle mitragliatrici puntate: guardavano impietriti la gente. I combattimenti erano finiti, era stata conclusa la resa e subito Roma riprendeva il suo solito aspetto: nel cortile di un palazzo un principe romano faceva fare il maneggio al suo cavallo e nei caffè principali erano riapparsi gli eleganti a parlare d’altro che di assedio. Ma nei quartieri popolari l’odio contro i tedeschi si manifestava violento parlando sulle porte e i ragazzini nei loro giuochi si offendevano dicendosi: «Ah, tedescaccio». Verso sera incominciò per il corso Umberto la sfilata delle colonne tedesche che avevano assediato la città e che dovevano andare verso Napoli. Passavano carri armati e autocarri e motociclisti, che mi facevano ricordare le carovane dei circhi equestri o dei serragli tedeschi quando scendevano nella mia città al tempo della mia infanzia. Nel fragore non sentivano i fischi del popolo che li guardava pallido d’odio. Il nostro reparto si era sciolto, al distretto nel cortile vi era un carro armato tedesco e gli ufficiali facevano le valigie, non vi era più un nostro comando militare, tutti volevano andarsene a casa per non essere presi dai tedeschi. Decisi di ritornare a Treviso, dove non sapevo cosa fosse avvenuto, i treni avevano ripreso a funzionare e vestito in borghese ripartii. Alla stazione erano innumerevoli i treni arrivati da ogni parte, pieni di soldati che gettata la divisa, mezzo vestiti da borghese e quasi in mutande se ne ritornavano a casa. Trovai la mia città terrorizzata, un giovane aveva ucciso un tedesco, erano stati presi ostaggi, tutte le armi dovevano essere consegnate, per le strade circolavano carri armati tedeschi con giovanissimi soldati fieri e allegri di averi rapidamente piegato al loro dominio. Mia madre che disperava di me mi abbracciò piangendo di gioia. Si diceva che i tedeschi ci avrebbero presi tutti e trasferiti in Germania. Già passavano le tradotte coi nostri soldati prigionieri, dopo un po’ di incertezza pensosa, decisi di trasferirmi in campagna insieme a mia madre e le feci chiudere la casa anche prevedendo la minaccia dei bombardamenti aerei. Per i miei campi era un continuo passare di soldati sperduti che per vie traverse se ne andavano ai loro paesi. La guerra sarebbe stata ancora lunga, mi occupai ad attrezzare la casa in modo che mia madre avesse potuto sopportare l’inverno e nella tranquillità della campagna continuai a scrivere il mio romanzo. Una sera di ottobre andato a Treviso sentii tutta la tristezza del tempo che ci toccava vivere: in altri anni, vi erano le fiere e la città esuberava felice, quella sera invece vicino ai bastioni vi era un solo circo equestre, entrai, il pubblico era quasi interamente formato di soldati tedeschi e i pagliacci dicevano le loro spiritosaggini in tedesco sicché rideva solo quel pubblico estraneo e noi si stava muti. E rideva fragorosamente come del nostro avvilimento”.
Nota. La lettera di Comisso a Peretti si legge in Nico Naldini, Vita di Giovanni Comisso, l’ancora del Mediterraneo, Napoli 2002, nel capitolo «Capriccio e illusione» a p. 210 (prima edizione Einaudi, Torino 1985, pp. 194-195).
Il brano tratto da Le mie stagioni è ripreso da Giovanni Comisso, Opere, a cura di Rolando Damiani e Nico Naldini, Mondadori, Milano 2002, pp. 1359-1363.
Di seguito, altri due documenti relativi all’8 settembre di Comisso: gli appunti che lo scrittore prese a caldo in un quaderno e che in seguito, con tutta evidenza, riprese per la stesura del capitolo de Le mie stagioni (sono pubblicati da Naldini, Vita di Giovanni Comisso cit., sempre nel capitolo «Capriccio e illusione» alle pp. 211-212; nella prima ed. alle pp. 196-197); una lettera che Comisso scrisse nel marzo 1944 all’amica Olga Resnevič Signorelli (1883-1973), una scrittrice e traduttrice russa che si era stabilita nei primi anni del Novecento a Roma, dove si era laureata in medicina (smetterà di esercitare dopo la prima guerra mondiale) e vi aveva sposato il medico Angelo Signorelli (lettera pubblicata in Giovanni Comisso, Vita nel tempo. Lettere 1905-1968, a cura di Nico Naldini, Longanesi, Milano 1989, pp. 215-216).
1. «Viva l’otto settembre, viva Maria». Per le strade di Roma
«8 settembre. Questa sera a S. Maria Maggiore alle 8 ebbi la notizia dell’armistizio. Vidi uno correre, intesi giù in fondo alla strada delle grida, alcuni soldati dissero: “Adesso faremo la guerra colla Germania”. Poi ragazzi gridarono “Viva l’otto settembre, viva Maria”, perché è un giorno dedicato a Maria. Chiedo a un uomo cosa è avvenuto e mi risponde: “È stata fatta l’amnistia”, forse uno scampato da prigione non pensava che a questo. Nella mattina avevo inteso il bombardamento di Frascati. Ero nello sciocco ufficio della censura dove stavano facendoci gli esami che furono interrotti dall’allarme. Il rifugio era vicino ad un collegio, i ragazzi leticavano ad un giuoco nel cortile ma i tonfi sordi delle bombe lontane li fece tacere. Nel rifugio una signora anziana con occhiali venne a sedersi sulle pietre contro l’umida parete, il volto autoritario faceva forza di mantenersi fermo, l’angoscia la prendeva dietro gli occhiali sul volto pallido, pensavo a mia madre e chinai la testa nel pianto».
«9 settembre ore 6 1/2 si sente il cannone dalla parte del mare. Vedremo cosa porterà questa giornata».
«10 settembre. Oggi i tedeschi e i fascisti assediano Roma, nel pomeriggio le granate sono cadute vicino al mio albergo. Piazza di Spagna, via della Vite, via della Frattina. Sono passati i granatieri, vanno a Piazza del Popolo a difendere Roma. È il nostro esercito, è il nostro popolo che passa, l’ò visto a Gorizia, a Caporetto, sul Grappa, sul Montello, a Vittorio Veneto, a Fiume, eccolo nel suo ultimo passo di marcia contro il nemico. Lagrime agli occhi. La giornata è grigia piovigginosa come alla battaglia di Caporetto».
«13 settembre. La giornata di ieri fu felice. L’assedio non fu più minaccioso. Si è concluso un accordo. Sono stato a vedere le case bombardate. P. Spagna, via della Vite, per poco non si colpiva il palazzo di Borromini. Poi ò fatto la fila per prendermi da mangiare. Ò comperato le aringhe dei cercatori d’oro. A Palazzo Torlonia ci sono i tedeschi di guardia con mitragliatrici. Sono venuti per ritirare le robe dal loro albergo che era di fronte. Non si può passare. Uno è stupendo sembra Sigfrido, à un riflesso di rosea madreperla nel volto accaldato sotto l’elmo, cinto a tracolla da nastri di proiettili, celeste l’occhio, e leggermente sorride nella sua saldezza. Ritorno quando non ci sono più. Nel cortile il principe Torlonia fa fare la trottata a maneggio al suo cavallino. Ieri vi cadevano le schegge».
(Brani di un “quaderno” inedito, pubblicato in Naldini, Vita di Giovanni Comisso cit., pp. 211-212.)
2. «Cosa era Roma ai primi di settembre». Una lettera del marzo 1944
«Cara Signora Olga,
sono felice di avere sue notizie, sebbene compresa tra queste, quella della sua malattia. Ma le malattie per noi non sono che una più profonda conoscenza dei limiti della nostra vita e di nuovi aspetti della nostra anima. Io pure se mi ammalo, sento come una gioia sconosciuta prima nell’avvertire questa anima che ci è dentro e che quando si sta bene crudelmente vogliamo poco ascoltare.
Sono in campagna, a Zero, con mia madre, e vi ò passato tutto l’inverno, ora seguo il sorgere della primavera. La mia glicine non esiste più. Sono fiorite le violette invece. Scrivo per il «Corriere» novelle che mostrano il mio nuovo stile.
Sono diventato un sentimentale, e vorrei arrivare a un romanzo veramente romantico. Anzi credo di averlo già scritto, ma non è finito, dovrò lavorarci ancora molto. se vuole una copia di quel mio scritto telefoni al 390196 a Patricia Krauss, che fu la governante di Nico (via Flaminia 336), che glielo farà avere più prestamente. Non ò più notizie di Orsola [Nemi]; penso come la vostra vita sia in angustie, ricordando cosa era Roma ai primi di settembre. Io fui richiamato a Roma in quel tempo per 15 giorni, quei giorni tragici, e non ci fu possibile vederci, telefonai alcune volte, ero tormentato da un servizio noioso e poi avvennero quelle giornate esasperanti, fui con Orsola e Irene Brin durante i bombardamenti e l’assedio. Ma ora deve essere ancor peggio, e chissà quando questa mia le arriverà. Pippo [Filippo De Pisis] è a Venezia e lo vedo spesso, presto avrà la sua casa, egli è come al solito in frenetico lavoro tra i suoi quadri, la sua cucina, i suoi thé, le visite e il suo sublime egoismo. Non so nulla di Beppe. Quando ci rivedremo? Questa è la nostra speranza e il nostro augurio. Mi pensi che la penso sempre.
Mi creda il suo devotissimo
Giovanni Comisso»
(Giovanni Comisso, Vita nel tempo. Lettere 1905-1968, a cura di Nico Naldini, Longanesi, Milano 1989, pp. 215-216; la lettera, da Zero Branco, è datata 12 marzo 1944.)