di Giulio Vallese
Il nostro amico Giulio Vallese, dopo quella con i voucher, ci racconta un’altra sua recente esperienza di lavoro nel mondo della scuola. Un anno come insegnante di sostegno in un grande istituto pubblico della provincia di Padova, chiamato in servizio a settembre dalle graduatorie di “terza fascia”. Spaesamento e adattamento – tra i punti in graduatoria, gli studenti, i colleghi, l’edificio, le riunioni, la burocrazia, le abilitazioni comprate in Romania… – diventando un «funzionario dell’esclusione» immerso nella «retorica dell’inclusione» – come ci ha scritto presentandoci il suo testo.
M. fissa lo schermo del computer. Passa da un video all’altro, dall’hard rock a Tiziano Ferro in base ai suggerimenti dei cookies. Si sofferma su Pretty fly (for a white guy) degli Offspring solo per mandare in loop alcuni passaggi. Lo fa praticamente con tutti i pezzi, è una sorta di ecolalia che impone al mondo. Finito di tormentare la canzone, molla momentaneamente la presa dal mouse e afferra l’altra estremità del “filo”, così chiama una reggetta di plastica bianca che tiene sempre con sé, di quelle che si usano per l’imballaggio delle risme di carta. Con le dita comincia ad arricciarne le estremità, lo porta di fronte agli occhi e come ipnotizzato da quelle contorsioni, scalpita e parte con un lamento insistente. Siamo là, seduti uno affianco all’altro, soli, in un angolo buio di una biblioteca scolastica. All’improvviso, mi viene da piangere.
Il computer è bloccato, l’ho bloccato io, M. non sa la password. Se ne sta lì in piedi, gioca col filo, assorto nella sua lagna. «M., basta, metti via il filo, vieni qua», gli faccio io. Lui si ferma sorpreso e mi fissa come farebbe un miope. «Dài su, avanti», continuo io. Lui accenna un sorriso, molla il filo, si afferra il pisello da sopra la tuta e comincia a menarsi a mulinello. Lo richiamo un paio di volte, si ferma senza mollare la presa, si fa serio e mi dice «bagno… bagno». E via ai bagni, lo accompagno a masturbarsi. Lo aspetto fuori vicino alle macchinette, pronto a scattare al minimo movimento della porta; devo controllare che esca pulito, con i pantaloni su, ecc. Altri studenti vanno e vengono, mi guardano, capiscono e tirano dritto per i fatti loro. Nell’attesa, che può durare anche una ventina di minuti, mi attacco alle macchinette. All’inizio mi sono sfondato con le cose più onte: cappuccino con cacao, cioccolata calda, cappuccino extra zucchero, Duplo, Kitkat, Fiesta, ecc.
Una sera, disteso sotto il piumino prima di addormentarmi, penso: credo di non essere mai stato così triste. È la prima volta che realizzo una cosa del genere, anche se mi sembra di aver passato momenti peggiori. Il contatto costante con la sofferenza inesorabile è moralmente devastante. I primi mesi ripeto a me stesso: prima o poi ci si abitua, ci fai il callo (ma la vita è un callo?), non può durare così, ci dev’essere una sorta di difesa fisiologica che porta alla sopportazione del male. Verrà un giorno, ne sono certo, viene sempre, in cui quello che mi sembra oggi intollerabile diventerà normale. Alla fine ci sono rimasto un anno.
1. Finalmente la chiamata a scuola, non ci speravo più da quando mi ero messo in graduatoria due anni prima. Il conto in banca vicino allo zero, senza lavoro da mesi, l’ultimo era a voucher al doposcuola dei preti. Ero partito con un certo entusiasmo, la prospettiva mi appariva a volte anche esaltante: contratto statale, ferie, malattia, il miraggio della tredicesima, il miracolo della moltiplicazione dei mesi e degli stipendi.
Il primo giorno del mio anno scolastico mi presento alla portinaia come il nuovo insegnante di sostegno. «Buongiorno professore», e mi indica la via per la biblioteca dove troverò il responsabile del sostegno che mi darà tutte le istruzioni.
O. è il responsabile, che registra e istruisce i nuovi acquisti. Si agita tra mille fogli appoggiandosi dove capita. Parla veloce in un italiano maccheronico che all’inizio stento a capire. Intuisco che dobbiamo pazientare, che in mattinata risolveremo ogni cosa, che è tutto in evoluzione perché arriveranno altri colleghi, che la scuola ormai è iniziata da un pezzo e che, insomma, è un caos. Adesso, a ciascuno bisogna dare una cattedra, ovvero assegnare i ragazzi che dovremmo “sostenere” durante l’anno. Si procede in ordine di graduatoria e io sono ultimo. Vabbè, almeno avrò modo di osservare le operazioni e trovarmi preparato quando toccherà a me. In breve capisco che si tratta di discutere e mercanteggiare. Quando è il mio turno mi metto anch’io in modalità mercato. Comincia O. che spinge sull’acceleratore, mi vuole vendere due autistici: «Ecco, tu sei perfetto, sei quello che cercavamo, un maschietto, ti prenderai M. e G.». Tento una difesa blanda: «Perché? Perché io? Forse servirebbe qualcuno con più esperienza». Mi spiega che per M. c’è bisogno di un ragazzo perché con le ragazze è un po’… particolare e io sono l’unico maschio dell’infornata. «È violento?», provo io. «Beh, forse l’anno scorso, ma niente di particolare». «Forse ci sono altre cattedre, posso scegliere, no?». Mi presenta altri casi: questi hanno i genitori esigenti; questi sono «curricolari» (cioè seguono con adeguati aggiustamenti la programmazione scolastica della classe) e quindi hanno professori esigenti… Insomma, meglio i due autistici, sembra dire, ti faccio un favore, ma vedi tu, devi decidere tu. Accetto per quieto vivere, per non inimicarmi fin da subito il capo: è un mondo tutto nuovo, ho paura che se vado contro la sua volontà potrebbe non aiutarmi o peggio ostacolarmi. E poi in fondo, sono anche un po’ curioso di lavorare con due autistici, dietro c’è del fascino, quello fatto di tutti i cliché: l’autistico genio incompreso, il diverso per eccellenza, colui che rifiuta e si isola dal mondo, il mistero, i vaccini, la psicanalisi, ecc.
Superata questa fase, seguono settimane di caos, con continui va e vieni di colleghi che creano disagi a noi e ai disabili, i quali o rimangono senza l’insegnante di sostegno oppure lo cambiano nel giro di pochi giorni. Il problema è che abbiamo un contratto a termine “fino all’avente diritto” ovvero senza una scadenza precisa: si interrompe immediatamente all’arrivo, appunto, di chi ha diritto a quel determinato posto. Questo succede perché all’inizio dell’anno le segreterie scolastiche sono costrette ad attingere dalle graduatorie dell’anno precedente che non sarebbero più valide, in attesa che arrivino da Roma quelle aggiornate, le uniche ufficiali, che definiscono chiaramente l’ordine di chi ha diritto. La differenza tra le due è minima, ma si ingrandisce perché c’è chi non accetta il contratto “fino all’avente diritto” dal momento che intanto sta prendendo la disoccupazione estiva e non gli conviene interromperla per poi magari essere scalzato da un altro e ricominciare tutto da capo in un’altra scuola. Così avviene che una volta pronte le graduatorie aggiornate, l’avente diritto – che spesso ha solo un mezzo punto più di te, magari ottenuto comprando qualche master online – risponde alla chiamata, arriva e ti porta via il posto. Si narra di scene di professori costretti ad abbandonare la classe nel pieno della lezione di fronte all’ingresso trionfale dell’avente diritto. Ho assistito anch’io a queste scomparse e apparizioni di colleghi, così, da un giorno all’altro, senza preavviso, senza possibilità nemmeno di salutare.
Solo dopo un paio di mesi dall’inizio dell’anno scolastico, la situazione si stabilizza. A pieno regime siamo 18 insegnanti di sostegno, 5 OSS (Operatrici Socio-Sanitarie, tutte donne) e 27 disabili. È un bel numero in un istituto che si trova in un paese a una ventina di chilometri da Padova, che drena studenti da almeno una decina di paesi più piccoli dei dintorni arrivando a circa 700 ragazzi, suddivisi in tre indirizzi, Tecnico, Professionale e Liceo scientifico delle scienze applicate (quello nuovo, senza lingue morte e con il linguaggio informatico). Tra noi, solo 6 sono specializzati nel sostegno, assunti a tempo indeterminato. Gli altri, come me, sono supplenti annuali pescati dalla “terza fascia” di varie classi di concorso: una buona parte siamo laureati in materie umanistiche, molti i filosofi, ma ci sono anche informatici, matematici, geologi e altri che non ho mai capito in cosa fossero specializzati. Molti sono alla prima esperienza a scuola, quasi tutti alla prima nel sostegno.
2. Occupiamo i locali della biblioteca, trasformata in una sorta di reparto Cottolengo dell’istituto. Si tratta chiaramente di una trasformazione abusiva, senza alcuna autorizzazione scritta perché secondo la prospettiva inclusiva non è previsto alcun “reparto disabili” in una scuola. Non so spiegare il perché di questa occupazione, certo è che non siamo lì per i libri. L’unico scaffale a cui attingiamo caso mai è quello dei libri speciali che contiene titoli sparsi della casa editrice specializzata Erickson, fumetti e libri illustrati tra i quali spicca la serie degli Gnomi, quella coi dorsi colorati. Pare che si tratti, piuttosto, di una questione di circostanze che hanno portato tutti i ragazzi con il sostegno sotto un unico edificio e che in mancanza di luoghi adeguati sia stato scelto quello, notoriamente abbandonato, della biblioteca scolastica.
Non so da quando, ma da quando ne ho memoria, le biblioteche, soprattutto quelle di quartiere, svolgono anche questa funzione di ricovero per sbandati. Niente di strano quindi, solo l’esempio più estremo, che la biblioteca di una scuola sia stata colonizzata dai marginali, dai disabili e dai loro insegnanti. Perché è chiaro, nella marginalità ci siamo anche noi, insegnanti di sostegno, docenti di serie b, senza cattedra, ridotti a mansioni da baby-sitter (o, vista l’età di alcuni, da badanti), imbarazzati anche solo a entrare in aula insegnanti: personale ausiliario e depotenziato che sta tra il supplente e il bidello, voce afona dei consigli di classe.
Varcata la soglia, sulla destra, c’è R., avamposto idrocefalo, che ti guarda stupito, curioso, interrogativo, in attesa di un cenno per scambiare un saluto. Se ne sta piazzato lì ai computer, seduto davanti allo schermo. Mouse alla mano esplora in lungo e in largo con Google Street View le strade del suo paese e dei dintorni. Guai a disturbarlo con qualche ingenua domanda del tipo, cosa stai visitando? che ti risponde in malo modo con un «Vai a lavorare». In realtà R. è simpatico e cerca spesso l’attenzione e la compagnia di noi colleghi con frasi del tipo «sei forte T.». Solo non vuole essere disturbato nel suo lavoro. E come dargli torto, quando affianco a lui c’è O., il suo insegnante, che compila documenti di vario genere e anche lui in questa attività non vuole essere disturbato?
Poco più in là, nel tavolo dietro, tra gli scaffali di letteratura italiana c’è H., scazzatissimo, specializzato al sostegno per insufficienza di cattedre e disamore per le aule scolastiche. Una volta mentre mi accompagnava in macchina mi ha confessato che in fondo preferiva il sostegno all’«insegnare a gente a cui non frega un cazzo». Conoscendo certi contesti scolastici, mi era parso difficile dargli torto. Affianco a H., c’è U. che è down ed è un bravo ragazzo. U. è molto abile nello sport e anche se timido riscuote molto successo tra le ragazze disabili.
Dietro l’angolo, nella saletta multimediale, c’è J. nella sua carrozzina mobile. Si contorce, ciondola la testa, muove scompostamente gli occhi: è il suo modo di salutare. J. è molto grave, è quasi maggiorenne ma ha il corpo di un bambino, le membra deboli e fragili con grossi problemi di respirazione. Non è autonomo in niente, muove raramente e con grandissima difficoltà anche la cloche della carrozzina; non parla, non ha mai parlato, comunica a volte con degli urletti oppure lasciando cadere la testa verso la spalla a indicare un «sì». Sta di fronte a un computer, ascolta una di quelle filastrocche per bambini con gli animali che cantano, di quelle che si trovano su Youtube. Dietro di lui, W. con le braccia tese sulle manopole della carrozzina, lo indirizza verso lo schermo e attende sconsolato la fine dell’ora.
Un giorno, W. mi fa notare che J., nonostante la sua condizione di totale inattività, è in realtà una risorsa, una specie di imprenditore che dà lavoro a decine di persone, lui compreso. Sono in tanti a mangiare attorno al suo capezzale mobile. Primo il tecnico della carrozzina, poi il posturologo, lo psicologo, il neopsichiatra, un paio di OSS, un paio di insegnanti di sostegno. E poi c’è l’indotto da non trascurare. Mentre mi racconta questa teoria, mi immagino la scena di J. durante una riunione di tutti gli esperti. Lui che si contorce nella carrozzina e gli altri in cerchio tutti attorno che esprimono pareri. Ho immaginato a un certo punto che J., stanco di questi discorsi se ne uscisse dalla sua miseria e dicesse «Dai, fioi basta, andate in pace, prendetevi semplicemente cura di me».
W. continua: J. è una risorsa anche per quelle scuole – come la nostra? – che hanno bisogno di far numero per andare avanti e che si prestano a quel servizio: ce ne sono che hanno ormai una nomea nell’accogliere disabili e altre invece, specie quelle più rinomate per gli studi e i risultati, dove di disabili neanche l’ombra. Per questo, da noi, a un certo punto dell’anno si era pensato anche di bocciarlo. Ho scoperto che è una cosa che si fa spesso con i disabili gravi (per massimo due anni) per prolungare i benefici derivanti dalla sua presenza e, si dice anche, per evitare a lui e alla famiglia incognite e ulteriori disagi. Perché, in effetti, fuori dalla scuola è un’incognita, ci sono i CEOD (Centro Educativo Occupazionale Diurno) nei quali però è difficile entrare perché sono stracarichi, e sennò si sta twentyfourseven a casa o chissà in quale altra struttura, dipende tutto dalle disponibilità della famiglia.
Più in fondo, di fronte all’altro computer, F. batte le mani divertito. Ascolta Occidentali’s Karma di Gabbani con A., una ragazza timidissima, con un grave ritardo mentale, che si emoziona in continuazione. Appena mi vede, A. abbassa lo sguardo, fissa una gamba del tavolo e pare commuoversi piena di un’inspiegabile vergogna. Per non metterla ulteriormente in imbarazzo, faccio finta di niente, abbasso lo sguardo anch’io e mi volto verso l’uscita. Uscendo la sento ridere goffamente e canticchiare il ritornello, già sollevata da quell’improvvisa disperazione. «Brava A.», fa F., con la voce carica di un entusiasmo affettato. Tra i colleghi c’è chi come lui la butta sempre in caciara, non per spirito leggero, ma per metodica dissimulazione. F. è l’esemplare perfetto dell’imboscato: non ha velleità o le ha perse, chissà, forse in anni di umiliazioni e licenziamenti. Quella servile gli deve sembrare ormai l’unica realtà del lavoro possibile, nella quale ritagliarsi un angolino da difendere con le unghie. Perciò, alla caciara, seguono il magheggio diffuso e la lamentela costante, sempre a difesa di quei privilegi che scambia volentieri per diritti. Un giorno rientrando dal bar dove è andato per accompagnare A. nel progetto “Fare la spesa” sbuffa dicendo «Che fatica». «Ma dai F., sei andato al bar!», gli dico. «Eh ma fa un caldo fuori e poi è lontano» ribatte lui esausto. Saranno 500 metri, ma non ho il coraggio di contraddirlo.
Poco oltre, al tavolo dell’emeroteca, S. cerca di far leggere a G. un libretto di astronomia per ragazzi svantaggiati. G., autistico ciarliero, prende ogni parola come un trampolino per partire in vaneggi infiniti, dove mescola personaggi di Dragon Ball, mitologia, dinosauri e supereroi, un flusso di coscienza in falsetto che come una nube lo isola dal mondo. A volte ho l’impressione che G. sia convinto che tutti facciano come lui, che il suo istrionismo sia solo l’estrema applicazione di una pratica sociale diffusa per la quale nessuno comunica realmente con gli altri ma tutti si mettono in scena per ricevere l’applauso. «G. come va?», domando io ingenuamente e lui ribatte, come sempre, da filosofo provetto, «e chi può saperlo?».
Insieme a G. c’è anche B. che è tra i casi meno gravi tanto che all’inizio dell’anno, dando la priorità ai più gravi, è stata a lungo senza sostegno. Quando finalmente dopo mesi è arrivata un’insegnante anche per lei, bisognava scegliere se considerarla «curricolare» (ovvero, come ho detto sopra, in grado di seguire, con adeguati aggiustamenti, la programmazione scolastica della classe) o «differenziata» (i differenziati seguono invece una programmazione alternativa definita dall’insegnante di sostegno e al termine dei cinque anni non ottengono il diploma). Si è optato per la seconda perciò, una volta differenziata, si è ritrovata catapultata sempre più spesso in biblioteca in compagnia di G. e degli altri disabili. Pare che inizialmente fosse piuttosto sorpresa della cosa e se ne sia uscita con una domanda imbarazzante: «ma io cosa ci faccio qui con questi?». Poi col tempo si è abituata e ora viene in biblioteca spontaneamente, si autoesclude dalla sua classe, forse per via del suo carattere docile, forse perché stanca dei brutti voti, o perché attratta dalle lusinghe dell’esclusione amorevole.
All’altro capo del tavolo, P. aiuta B., disabile curricolare, con i compiti per casa; gli fa ripetizioni di un po’ tutte le materie e lo incoraggia nei momenti più difficili.
Dietro di loro c’è l’aula BES (Bisogni Educativi Speciali). Dentro c’è un computer con la stampante, un grande tavolo con sedie e sgabelli, e lungo la parete alcuni scaffali vetrati con vecchi manuali scolastici e materiale vario per l’educazione speciale, ovvero prodotti di cancelleria e qualche gioco smart per bambini. In piedi, alla ricerca di un’idea, c’è S., una delle OSS, la veterana. Lei conosce molti dei disabili fin dall’infanzia, li ha visti crescere. S. non è contenta di come funzionano le cose da noi e dice spesso, specie quando l’aula BES si riempie per varie ragioni di disabili abbandonati alla sua mercé, che quello «non può diventare un refugium peccatorum».
Lei come le altre OSS stanno principalmente nell’aula BES, dove svolgono le varie attività con i ragazzi più svantaggiati. Sono quelle che si danno più da fare, lavorano di più e sono pagate di meno, alcune con contratti a termine e paga decurtata in caso di assenza del ragazzo che assistono. Fanno di tutto, lavoretti di ogni genere, decorazioni, disegni, collage, tutte cose che poi mostrano con piacere a noi e alle famiglie dicendo: «Guarda cosa ha fatto M.», «Vedi che bravo J.». In realtà fanno quasi tutto loro mentre i ragazzi assistono ai movimenti delle loro mani esperte in decorazioni e découpage (farà parte della loro formazione?). Oltre ai vari biglietti di auguri per la festa della mamma, il compleanno del papà, il Natale e la Pasqua, fanno anche i lavori assistenziali più gravosi che noi insegnanti non siamo tenuti a fare.
Sopra l’aula BES c’è il soppalco che percorre tutto il perimetro della biblioteca raddoppiandone la metratura. Lì sopra, sui lunghi tavoli di formica nera, c’è chi disegna, chi si sforza nella lettura ad alta voce, chi s’imbosca. C’è P., appassionato di film gialli in bianco e nero e di genealogie famigliari che se ti ferma ti racconta schiumando morte e miracoli di parenti e conoscenti con enfatica suspense. C’è I., un ragazzone di due metri dallo sguardo languido e il labbrone cadente che ciondola con le spalle curve e le braccia a penzoloni, sempre gentile e iperossequioso. Se si è fortunati, ci si può imbattere anche in T. che poiché non sa star ferma gira per la biblioteca, pronta a mandarti affanculo per poi sparire nel labirinto degli scaffali.
Fuori della biblioteca, in una stanzetta poco più in là, sta L., escluso tra gli esclusi. Ha la sindrome della X fragile e sta da solo perché è molesto. Ogni tanto lo si sente urlare. So che ha un fratello con la stessa sindrome; a casa, uno vive sopra, l’altro sotto, sennò si menano.
In un’altra stanza, in fondo all’istituto, K. viene un paio di volte alla settimana a fare “comunicazione facilitata” con M. Con una mano, K. regge il gomito di M. il quale comincia a muovere nervosamente l’indice sui tasti del portatile componendo un testo confuso, sgrammaticato ma comprensibile. A veder la scena pare un miracolo: M., autistico mutacico, acquista improvvisamente la parola, si esprime in giudizi, frustrazioni, e desideri, mentre lei, rabdomante della parola, con la sola imposizione delle mani, scioglie l’enigma e lo libera dalla sua fortezza vuota. Dopo mesi ho scoperto che nelle linee guida dell’Istituto Superiore di Sanità per Il trattamento dei disturbi dello spettro autistico nei bambini e negli adolescenti la comunicazione facilitata è in realtà una pratica vivamente sconsigliata perché pare che i testi siano prodotti dal “facilitatore”1.
3. Durante la ricreazione usciamo dalla biblioteca. Come i detriti del delta di un fiume ci disponiamo a raggiera tutt’intorno all’entrata. Negli isolotti così creati s’incagliano i ragazzi meno gravi che ritrovano lì un porto sicuro, lontano dagli sguardi indiscreti degli altri studenti. È come se un incantesimo ci avvolgesse dandoci il dono dell’invisibilità. Mentre M., dopo aver divorato in un paio di bocconi la merendina, prende a saltellare avanti e indietro con lo sguardo fisso sulle contorsioni del suo amato filo, studenti e colleghi guardano e passano indifferenti.
C’è chi non si unisce al gruppo, come G., che al suono della campanella scatta, ritorna rapido verso la sua classe, prende dalla cartella la crostatina, e si piazza nell’angolo tra la rampa e un lampione a leccare con la punta della lingua i rombi di cioccolata. Terminata l’operazione, rimane lì illuminato dal neon scarico del lampione, con lo sguardo corrucciato rivolto al linoleum blu del pavimento mentre ondeggia alzando i piedi e agitando le mani. Tutt’intorno, gli altri studenti vanno e vengono. Ho tentato più di una volta, senza successo, di distoglierlo da quella penosa situazione. Un giorno, prendendo spunto dal lampione sotto il quale si rifugia, ho cercato di ragionare insieme a lui sull’edificio scolastico che mi pareva lo mettesse a disagio. «Prima della scuola c’era un prato, credo» dico io. «O un antico cimitero indiano» fa lui. «Hai visto questi lampioni? Sembra che abbiano voluto ricreare all’interno un paesaggio esterno, un po’ come si fa nei centri commerciali». E lui: «chissà come hanno fatto a portare i lampioni qui dentro? Sembra di stare in strada ma per fortuna non lo è. Quelli veri sono più alti». Abbiamo anche misurato l’edificio a passi: 153 di lunghezza, 63 di larghezza. G. commenta con allusioni carcerarie: «Le dimensioni di una muraglia cinese. Può assomigliare ad Alcatraz. Mi ricorda il labirinto del Minotauro».
4. Se non siamo in biblioteca, siamo impegnati nei laboratori. «Laboratori…Hai detto la parola giusta» mi fa A., «anche da noi, è tutto un laboratorio». A. è un amico, lavora per una cooperativa che si occupa di disabili psichici adulti. È dura anche là. Mi conferma che organizzare laboratori è tra le attività fondamentali del loro lavoro. Per magia, la parola laboratorio trasforma ogni attività, anche la più banale, in una figata. Tra tutti i laboratori quello artistico è quello fondamentale, noi ne abbiamo ben due nei quali si fanno lavoretti vari in base alle stagioni e alle ricorrenze. Per esempio, nei mesi precedenti il Natale si fa una serie di oggetti che poi vengono venduti al mercatino per autofinanziamento del dipartimento di sostegno. La cosa singolare è che raramente sono i disabili a fare i lavori, più che altro danno una mano, senza troppo entusiasmo, a far passare il tempo a noi insegnanti, OSS e volontari. Oltre ai laboratori artistici abbiamo quello di musica, quello di motoria, il cineforum, e, una tantum, c’è stato anche il laboratorio pet therapy che penso sia servito più ai cani per farsi accarezzare e ai loro padroni per portare a casa il risultato.
A quanto sembra, sebbene fare laboratori suoni benissimo, la costituzione di laboratori con soli disabili è contraria alle disposizioni del ministero in tema d’integrazione scolastica in quanto pratica segregante2. In ogni caso, piacciono più a noi che ai ragazzi che li vivono come un’imposizione. Niente di strano, siamo a scuola, non si viene a fare ciò che si vuole ma ciò che vogliono i professori; e forse sta proprio nel subire un’imposizione dall’alto, nel rispetto di orari e gerarchie che i laboratori trovano il loro senso inclusivo: il grado zero della scuola, che finalmente è uguale per tutti.
Un giorno, accompagno G. al laboratorio d’arte. Non gli piace (poche cose gli piacciono a dire il vero). Tiene il broncio e cammina con la sua strana andatura ancheggiante. Per distrarlo, sincronizzo il passo con il suo, ma non serve. In realtà saprei anche come fare, l’ho fatto mille volte, mi basterebbe citare a sproposito qualche personaggio di Dragon Ball per veder spuntare il suo sorriso beffardo. Ma siccome non ho voglia di sorbirmi l’ennesima lezioncina sui poteri e le fusioni dei vari personaggi, arriviamo in silenzio al laboratorio. Saluto i presenti e cerco un paio di sgabelli liberi mentre G. è rimasto sull’uscio e gira nervosamente su se stesso agitando le mani lungo il corpo. Lo vado a recuperare e mi segue sempre imbronciato. C’è da disegnare una foglia «dài G., è per l’autunno, sai che cadono le foglie», lui annuisce scocciato e incrocia le braccia «non mi piacciono le foglie». Dopo un po’ mi arrendo, «va bene, allora disegna pure ciò che ti pare». Dopo un po’ di esitazione comincia a tracciare i contorni di una sorta di Goku Super-Sayan in fusione con non so chi.
Di fronte a noi, M., si accanisce su un foglio con un pennarello uscendo dai bordi di una foglia stilizzata; finito, si alza di scatto, va verso l’angolo della stanza, tira fuori il filo dalla tasca e comincia le solite contorsioni solitarie. Poco dopo arriva F. con A., saluta tutti allungando le vocali come si fa coi bambini. Sorridente attraversa la stanza, vede M. nell’angolo alle prese col suo filo e in modo cameratesco gli fa «Ciao M., dammi il 5» e M., sempre rivolto verso l’angolo, libera una mano per rispondere automatico al gesto.
Dopo un po’, annoiato, mi alzo a vedere cosa fanno gli altri. Vedo R., che mi si guarda intorno insofferente mentre due OSS lo esortano a disegnare. Mi avvicino: «R. come va?», gli chiedo, e lui mi fa, sconfortato: «me vien un’ansia a mi a far ste robe».
5. Tra un laboratorio e l’altro, organizziamo riunioni che il più delle volte consistono in mangiate pantagrueliche, credo per sfogare la frustrazione. Ognuno porta qualcosa e dopo aver sbrigato le dovute pratiche burocratiche, ci si sfida nelle specialità gastronomiche regionali. Si imparano tante cose. Per esempio, ho scoperto che la mozzarella di bufala va tenuta in acqua tiepida prima di essere servita a tavola, che il pane «cafone» è l’unico vero pane degno di questo nome, che la mia crostata di ricotta e cioccolato può competere con le migliori specialità meridionali.
In queste occasioni si parla anche dei vari trucchi del mestiere, di come ottenere un punteggio maggiore in graduatorie grazie alle certificazioni informatiche, ai certificati linguistici, ai master online; ma anche di cose più complesse, per esempio come ottenere l’abilitazione all’estero, in particolare in Romania. Grazie all’entrata della Romania nell’UE e al diverso sistema di ottenimento dell’abilitazione (pare basti la laurea) diversi insegnanti rumeni insegnano in Italia. C’è gente che – si dice – previo pagamento di circa diecimila euro ti organizza tutto il pacchetto, iscrizione all’università, viaggi, tesi ecc., per ottenere in breve l’abilitazione che poi dovrà essere riconosciuta dal MIUR. Quest’ultimo, è il passaggio più dedicato ma pare che la cosa funzioni e se funziona ti introduce direttamente nei ranghi degli insegnanti di ruolo. Poi non ti muove più nessuno, l’investimento si ammortizza nel giro di qualche anno, ti sei comprato il posto fisso da statale.
Oltre a fare riunioni compiliamo tutta la documentazione necessaria: il registro elettronico, i moduli, le autorizzazioni, i verbali, le relazioni. Tra i documenti fondamentali c’è il PEI, il Piano Educativo Individualizzato, deadline che non si può saltare, preoccupazione assillante del responsabile del dipartimento. Il PEI è la pietra angolare della burocrazia inclusiva che sorregge tutto l’edificio. Il suo acronimo cubitale ci professionalizza, ci dà spessore, definisce i confini tra chi sa e chi non sa; definisce la programmazione annuale, gli interventi riabilitativi, il profilo socio-economico, il profilo socio-affettivo, le finalità, gli obiettivi formativi e didattici, la metodologia e gli strumenti, i progetti, le verifiche e le valutazioni.
All’inizio dell’anno, il responsabile del dipartimento ci pressa, perché il PEI deve essere pronto il prima possibile per evitare intoppi in previsione dell’incontro con il responsabile dell’équipe medica e i genitori. Tuttavia, come lui stesso ci spiega, tranquilli, il PEI è sì fondamentale ma è carta, è un feticcio, si sta un attimo a farlo: si prende dalla documentazione del ragazzo quello dell’anno precedente, si cambiano due tre cose, si aggiustano le date e via, fatto il PEI. Tanto non lo legge nessuno, l’importante è scriverlo, non leggerlo. In effetti, il PEI, come il resto della documentazione che produciamo, non descrive la realtà, ma un mondo ideale, edulcorato, che serve all’istituzione e a noi per avere le carte in regola.
Ho la sensazione di un lavoro insensato, di un girare a vuoto tra biblioteca, bagni e laboratori, di un’assurda compilazione di documenti. Un lavoro che consiste principalmente nel far finta di fare il proprio lavoro, nel tenere in piedi una grande ipocrisia con parole opere e omissioni. Siamo parolai dell’inclusione e funzionari dell’esclusione. Che poi se fosse realmente possibile applicare le belle parole del PEI, di quale integrazione, di quale inserimento, di quale inclusione, stiamo parlando? Di quella nel labirinto del Minotauro, come diceva G.?
O. mi fa, in uno dei numerosi momenti di esasperazione: «Vedi cosa siamo ridotti a fare», e sventola un paio di relazioni debitamente compilate: «Secondo te, se io avevo la possibilità di fare altro, me ne stavo qua ad andare avanti e indietro, su e giù come un coglione?».
Un giorno, entro in biblioteca, trovo R. sempre lì al suo posto su Google Street View. Lo saluto, mi saluta e mentre passo mi segue con lo sguardo, la bocca aperta, pensieroso. A un certo punto mi fa «Giulio hai fatto il PEI?» e se la ride di gusto. «No, non ancora» rispondo sovrappensiero; ma poi mi fermo e mi rendo conto del sarcasmo, accenno un sorriso e gli chiedo «e tu, hai fatto il PEI?». Lui mi guarda, con l’occhio languido, la bocca spalancata, improvvisamente risucchiato in un abisso senza parole.
Francesco dice
Stupendi! Questa la verità perchè questa la realtà. Non solo la vostra, ma la REALTÀ.
Giulio Vallese dice
Grazie G. per la testimonianza che mi conforta perché quando ne parlo con i colleghi mi sembra di essere in assoluta minoranza. Il problema è che troppo spesso se ne parla in termini astratti e superficiali.
G. dice
Ciao Giulio, io ho fatto l’insegnante di sostegno alla scuola primaria con la laurea in psicologia. Sono d’accordo con te, tutti bravi a parlare di inclusione ma nei fatti è un disastro, anche noi costretti a scappare nell’aula sostegno perché nella classe non si poteva stare. Pugni, schiaffi, calci, sputi. I traguardi più grandi (imparare a leggere le lettere di una parola ad una ad una) li abbiamo fatti nella tranquillita’ della nostra auletta senza sguardi di colleghi irritati e senza urla e sputi. Inclusione cosa vuol dire? Essere per forza nella stessa stanza? Di che parliamo, avere un bambino o ragazzo disabile in aula non è cosa da poco. Mi ammazzavo a preparare materiale per lui, per spronarlo, per fargli imparare i numeri da 0 a 20 e le lettere. Ce l’ho fatta, ce l’abbiamo fatta, io e lui; ma non grazie alla finta inclusione e non grazie ai miei colleghi “di serie A”.
Giulio Vallese dice
Qual è la cosa giusta da fare? Farli entrare in classe serve a garantire i loro diritti e la loro dignità? Magari…la mia esperienza mi dice il contrario: stare in classe non significa essere inclusi, si può benissimo essere esclusi all'interno della classe. E poi cosa dovrebbero fare in classe 5 ore al giorno quei ragazzi che ho conosciuto in quella scuola di Padova? Qui nessuno scherza, la disabilità grave è un problema serio e gestirla così come viene fatto oggi non è illusorio ma ipocrita. Ripeto, parlo sulla base della mia esperienza. E quello di cui abbiamo bisogno è uno scambio di esperienze (meglio se diverse), non di altro.
Luna dice
Stiamo scherzando? E' vero, la scuola fa schifo, non ho obiezioni a riguardo e l'osannata inclusione è spesso solo un'illusione. Ma uscendo per un attimo dai ruoli e pensando che, come insegnanti di sostegno, siamo chiamati a tutelare la dignità di questi ragazzi e a garantire i loro diritti, è così difficile fare la cosa giusta? Farli uscire dalle biblioteche -classi speciali- per farli entrare in aula con i compagni di classe? Alla fine siamo pagati per farlo… non è volontariato.
carlo freguglia dice
Dice il saggio: – Tutto già scritto. Che barba che noia.
– Saggio. Scolta. Leggi qua. Che barba che noia? Ma corri, saggio, va là. Leggi che impari.