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“Perché organizzare questo incontro”. Sull’incontro del 2 giugno 2018

23/08/2018

di Piero Brunello

Il 2 giugno 2018 si è tenuta, presso l’Ateneo degli Imperfetti di Marghera, una giornata di studi dal titolo Una volta il futuro era migliore? Lavoro, storia, conflitti, organizzata da storiAmestre e Laboratorio Libertario di Marghera, in collaborazione con la Società italiana di storia del lavoro (SISLav). Proponiamo ora il discorso con cui Piero Brunello ha aperto la giornata. L’associazione intende organizzare altri incontri per riflettere sul tema del lavoro e della storia del lavoro: i primi sono previsti per l’autunno 2018.

1. Il 31 ottobre 2017, Luca Baldissara scrisse un’email a storiAmestre proponendo “una sorta di gemellaggio” con la SISLav, del cui direttivo fa tuttora parte, organizzando per esempio insieme una festa sul modello di quelle che storiAmestre promuove da qualche anno. Per chi le non conoscesse, le feste di sAm prevedono uno spazio con brevi interventi di storiografia (non più di 15 minuti ciascuno) su temi molto diversi tra di loro, ma tutti ispirati alla leggerezza di cui parla Italo Calvino nelle Lezioni americane; poi seguono altre attività e momenti conviviali (aperitivo, chiacchiere, filmati, musica, cena e lotteria). Abbiamo risposto con favore e abbiamo deciso come primo passo di riprendere una vecchia idea discussa con Elis Fraccaro del Laboratorio libertario, oltre che socio di storiAmestre, quella cioè di un convegno sul tema del lavoro che poi non era andato in porto; la SISLav ha accettato di collaborare al progetto con la presenza di una discussant. Ed è così che oggi ci ritroviamo nella bella sede dell’Ateneo degli Imperfetti di Marghera.

Tre associazioni, tre aspettative: senza contare che all’interno di ciascuna associazione le persone che ne fanno parte hanno a loro volta diversi modi di vedere. Su alcune cose però siamo d’accordo: conoscerci, favorire uno scambio tra generazioni, decostruire il senso comune veicolato dalle ideologie dominanti e da categorie storiografiche consolidate, individuare e discutere un minimo di parole utili ad avviare un’analisi. Domande condivise, le risposte non è detto: questo lo spirito di sAm e, conoscendoci, anche delle altre due associazioni.

L’incarico di proporre un testo da cui partire è spettato a me. Ci tengo quindi a dire subito di aver presentato il progetto in un’assemblea di storiAmestre, di aver abbozzato il tema con Stefano Petrungaro e con Giulia Brunello, delle cui ricerche sulla storia del lavoro avevo parlato in assemblea, e di aver messo a fuoco gli interrogativi di fondo in alcuni incontri con Elis Fraccaro e con Francesco Codello del Laboratorio Libertario. Ho poi discusso minuziosamente e nei dettagli le diverse versioni del testo finale proposto alle due associazioni con Filippo Benfante e Christian De Vito. Ricordo questi nomi per ringraziarli anche in questa sede. Ringrazio infine i relatori: Stefano Boni e Christian de Vito presenti questa mattina, Andrea Lanza e Francesco S. Massimo presenti al pomeriggio. Ringrazio Virginia Amorosi della SISLav ed Elena Iorio di storiAmestre che hanno accettato di fare da discussant. Troverete brevi note biografiche nella locandina, aggiungo solo che Andrea e Christian collaborano al sito di storiAmestre; Christian poi ha pubblicato uno dei primi Quaderni dell’associazione, più di dieci anni fa.

2. Uno dei motti di sAm dice: andare a vedere. Ma vedere che cosa? La prima risposta potrebbe essere: le cose che abbiamo sotto gli occhi e che non vediamo, sapendo che per parlare di realtà vicine a noi abbiamo bisogno di guardare altrove, nello spazio e nel tempo, per individuare nessi che sfuggono se non si cambia l’abituale punto di osservazione, per vedere per esempio forme di lavoro che non entrano all’immagine tradizionale che ne abbiamo. Mi ha colpito che uno dei primi sociologi, se non il primo, a parlare, alla fine del Novecento, di flessibilità come elemento che contraddistingue la nostra epoca, cioè Richard Sennet, abbia scritto “che gli operai della prima rivoluzione industriale avrebbero considerato un lusso molte delle occupazioni precarie di oggi”. È vero, rispose Luciano Gallino, “ma in un certo senso equivale a dire che un innocente condannato ai nostri giorni a dieci anni a causa di errore giudiziario non dovrebbe lamentarsi, perché due secoli fa sarebbe stato impiccato subito”1. Nel merito si può discutere (e agli storici piace discutere di comparazioni come queste), ma quello che colpisce è il fatto che le condizioni di lavoro nel XXI secolo nei Paesi più sviluppati del pianeta sono paragonate a – cioè sono tornate a essere – quelle che erano prima che si affermassero le garanzie, le sicurezze e i diritti sociali che quelli della mia generazione hanno conosciuto.

Non a caso ho parlato della mia generazione. Quella successiva non so quanto possa capire un’epoca in cui il lavoro attribuiva al lavoratore (diversa la situazione della lavoratrice, che doveva fare i conti con i ruoli di figlia, di moglie e di madre) una identità sociale, gli apriva le porte della sfera pubblica e gli assegnava la cittadinanza con i diritti e i doveri che essa comporta. Dimenticavo: un lavoro salariato fisso, tendenzialmente per una vita. Oggi viceversa, se non per le fasce altamente professionalizzate o per alcuni lavori artigianali, il lavoro non è più il tratto distintivo dell’identità personale; e come potrebbe essere se, come abbiamo scritto nel lancio del convegno, il valore stesso del lavoro, e con esso il senso di dignità che ne può nascere, viene quotidianamente svilito da politiche e ideologie che fanno del mercato (per riprendere un’espressione di Karl Polanyi che ne ha studiato la genealogia) la divinità che governa il destino degli esseri umani?

Non so dire se oggi i miei figli siano in grado di capirlo fino in fondo, ma quando abbiamo trovato un lavoro mia moglie e io, il futuro ci sembrava davvero migliore. Arrivati a Mestre avevamo l’acqua e il bagno in casa, che dove abitavamo prima non c’erano: giusto per ricordare solo i primi due annunci del benessere in arrivo. Certo, dovevamo sottostare a qualche condizione. Per guardare con fiducia al futuro (fare figli, per cominciare) dovevamo per esempio distogliere lo sguardo dal mondo diviso in blocchi e dall’incubo della catastrofe nucleare a cui, a nome della nostra generazione, Bob Dylan ha saputo così bene dare voce; inoltre dovevamo accettare uno scambio: da una parte sicurezza di un reddito, assistenza in caso di malattia e pensione, dall’altra asservimento a un lavoro subordinato giornaliero a vita, spesso nocivo, che molte e molti di noi nelle nostre famiglie e nel nostro ambiente – abitavamo in un quartiere operaio a Mestre – dovevano accettare per un destino di classe o esigenze di famiglia, per il fatto di essere donna, per i criteri di selezione scolastica oltre che per casi della vita. In compenso c’erano prospettive di mobilità ascendente, la paura di ammalarsi veniva tenuta a bada dalle garanzie di protezione sociale, e poi c’era la forza interiore e collettiva che la solidarietà e la prospettiva di un futuro migliore danno alle lotte per cambiare le cose.

Parlo del mondo di ieri solo per riflettere sulla difficoltà che hanno di comunicare tra di loro generazioni con esperienze di lavoro e soprattutto prospettive di futuro così incompatibili. Oggi, in un contesto sociale che trasforma la mancanza di lavoro in colpa individuale, molti che si barcamenano tra lavori in nero o con contratti privi di tutele stentano a raccontare la propria esperienza; e chi gode (in misura più o meno grande) di diritti può sentirsi a disagio per il fatto di poter contare su quello che è diventato un privilegio, anche per un oscuro senso di colpa – parlo per me – di aver beneficiato (con responsabilità diversa e comunque individuale, si capisce) di una società corporativa e di un sistema politico consociativo e clientelare.

Qualche amico mi ha fatto notare che non è vero che oggi non ci siano racconti di esperienze di lavoro, e mi ha portato esempi di libri e di film. È vero, ma vorrà dire qualcosa il fatto che chi parla preferisca ricorrere alla fiction o all’anonimato? certamente la verità di una generazione va trovata nella fiction (nei romanzi e nei film), e questo vale anche oggi, tuttavia il ricorso all’invenzione e all’anonimato fa pensare più alla cultura plebea delle società preindustriali o ai cospiratori delle fasi nascenti del movimento operaio che non alla forza di una denuncia e di una presa di coscienza collettiva.

3. Ho detto “mancanza di lavoro” e non “disoccupazione”, come istintivamente mi veniva di dire. Ecco un altro punto in cui le generazioni possono comunicare solo a patto di un fraintendimento, cioè di fingere di intendersi senza però capirsi. Quelli della mia età conoscono la disoccupazione: quello che invece conoscono le generazioni più giovani – oggi mi chiamano per un lavoro, domani non so – è una cosa molto diversa. Al pari del lavoro fisso e garantito infatti, anche la disoccupazione è una categoria inventata tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento in una parte piccola del mondo, per indicare una manodopera momentaneamente priva di impiego a causa di una congiuntura economica sfavorevole, e quindi bisognosa di assistenza a patto di dimostrarsi disponibile a essere impiegata. Alle spalle di tutto ciò c’erano forme di mutuo aiuto, esperienze associative, scioperi, mobilitazioni, lotte sindacali e politiche; e poi c’era una politica degli Stati volta ad assicurare una forza lavoro docile e garantire un ordine sociale fondato sulla netta divisione tra lavoratori da una parte e marginali dall’altra. Oggi qualcuno parla di “non-lavoro”2, che fa più parte del lavoro che non della sua temporanea mancanza, mentre la distinzione tra lavoro e marginalità assume nuove configurazioni.

4. Abbiamo pensato che forse solo il senso di un futuro condiviso possa far rinascere l’esigenza e il piacere di uno scambio. In che modo? Ponendo domande nuove alla storia, e mettendo insieme un vocabolarietto di parole con cui comunicare. Per questo cerchiamo nel passato le possibilità e le prospettive che non si sono realizzate, o che lo sono state solo in parte, facendo nostre le parole dello storico statunitense Howard Zinn che, riprendendo a sua volta una lunga tradizione di cui storiAmestre ama far parte, ha scritto: “Se ricordiamo i tempi e i luoghi – ce ne sono tanti – in cui donne e uomini hanno dato grande prova di sé, troveremo l’energia per agire, per spingere questo mondo impazzito in un’altra direzione”3.

Alla luce di queste osservazioni credo si possano capire i criteri di scelta delle relazioni e dei temi trattati in questa giornata di studi. Stefano Boni guarderà al lavoro in rapporto all’autonomia, alla disuguaglianza e al potere. Christian De Vito guarderà alla dimensione contrattuale del lavoro tenendo presente il carattere servile, spesso forzato, che lo ha contraddistinto per secoli. Andrea Lanza rifletterà sull’importanza dei sentimenti di appartenenza, delle forme di socialità quotidiana e dell’immagine di futuro nel nascente movimento operaio in Francia, all’epoca cioè di continue reinvenzioni della lotta di classe. Francesco Massimo ci condurrà nei luoghi della logistica, che come sappiamo è uno degli snodi della nuova organizzazione del lavoro, guardando all’Italia del nordest con un occhio comparativo ad altre realtà.

Non mi resta che ringraziare chi ha reso possibile questa iniziativa, non da ultimo chi ha preparato con cura e con gusto gli spazi dentro e fuori l’Ateneo degli Imperfetti e la pausa pranzo, tra l’altro ricordandoci in questo modo un’osservazione da tener presente se si guarda al lavoro e alla razionalità economica: quanto siano importanti nella costruzione e nel mantenimento della società le reti di relazione e gli scambi dettati dalla gratuità e dal piacere. Auguro una buona giornata di studi – in giardino, col bel tempo.

  1. Luciano Gallino, Il lavoro non è una merce. Contro la flessibilità, Laterza, Roma-Bari 2009 [prima ed. 2007], p. 167 n. [↩]
  2. Ne ha scritto anche Stefano Petrungaro sul sito di storiAmestre: Quando le scienze sociali parlano di “non lavoro”. [↩]
  3. Howard Zinn, You Can’t Be Neutral on a Moving Train, cit. in Colleen Kelly, Introduzione, in Howard Zinn, Non in nostro nome. Gli Stati Uniti e la guerra, Il Saggiatore, Milano 2003, p. 10. [↩]

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