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“Una coperta da campo è per me il 25 luglio”. Ricordi del 1943

04/08/2018

di Vittorio Sereni

Passato da una decina di giorni il 75° anniversario del 25 luglio 1943, mentre si avvicina quello dell’8 settembre, riprendiamo alcuni brani di una prosa di Vittorio Sereni (1913-1983), dedicati a ricordi dell’anno ’43. Sereni, ufficiale di complemento, fu fatto prigioniero dagli americani in Sicilia la notte tra il 23 e il 24 luglio. Il suo 25 luglio è un boato che esplode nello stadio di Trapani, improvvisato campo di concentramento, e una coperta sul cadavere di un soldato italiano ucciso da una sentinella americana. Nei giorni seguenti, i pochi che discutono la caduta di Mussolini ragionano secondo i codici dell’onore militare – fedeli a chi, traditori di chi? – “il quale fa sì che le guerre continuino”. Da questo punto di vista, per questi ufficiali l’8 settembre sarebbe stato una ripetizione del 25 luglio.

L’anno ’43 comincia nel mio ricordo con un sorriso indefinibile colto sulle facce della gente di Atene – conta poco che fosse ancora il ’42, un mattino dell’ottobre ’42, all’indomani dell’offensiva di Montgomery a El Alamein – e si chiude su un paio di mutando sventolate da un prigioniero tedesco davanti a noi prigionieri italiani in una cava alla periferia di Orano, Algeria. Ma prima di questo epilogo passa attraverso i vagoni di una tradotta che da Atene risale a Mestre al ritmo saltellante di Rosamunda, intristisce e si rattrista nel cine-teatro di Empoli per una sciantosa il cui amore no, l’amore suo non può disperdersi nel vento con le rose, sbigottisce e d’indigna su un comunicato a ora tarda secondo cui quei due pazzi si sono incontrati al Brennero per decidere di continuare la lotta in Europa e in Africa, quando della Tunisia restava all’Asse lo spazio di un fazzoletto, agonizza di paura tra le remore di un imbarco sempre rimandato e sempre minacciato, prima per aereo da Castelvetrano, poi per mare dalle macerie di Trapani, si rianima e tira un sospiro di sollievo all’annunzio della caduta di Tunisi, sfila inquadrato tra le bandiere bianche della gente di Paceco (Trapani) e le armi di una pattuglia di airborn americani, si sdraia con altro ben più profondo, magari solo fisiologico e ormai bestiale respiro di sollievo nello stadio di Trapani trasformato in campo di concentramento provvisorio… Di queste cose ho già scritto varie volte in versi e in prosa: sono arrivato al ridicolo affliggendo col raccontarle amici e familiari. mi ci sono accanito dentro di me per anni, quasi si trattasse di un enigma di cui non venivo a capo, che la memoria riproponeva continuamente e che ammetteva soluzioni disparate e molteplici; quasi si trattasse un nodo dentro di me, sciolto il quale soltanto avrei potuto avere occhi per altro, orecchi per altro. […]

Una coperta da campo è per me il 25 luglio. Eravamo prigionieri da non molte ore, chiusi dentro lo stadio di Trapani. Noi ufficiali in una casermetta adiacente il campo sportivo; i soldati, diecimila circa, attendati alla meglio nel campo vero e proprio. La notizia, penetrata chissà per quali vie, era esplosa in un boato di quella moltitudine pigiata, un’esplosione quale mai doveva essersi udita, per passate prodezze domenicali, tra le vecchie tribune e gradinate. Al boato tenne dietro uno sparo. Una sentinella americana, innervosita, forse impaurita, aveva lasciato partire un colpo dal mitra. Qualcosa su cui era stata gettata una coperta ci passò davanti, trasportata a braccia, attorniata di visi torvi. Guardavamo zitti, senza renderci ben conto. Uno del seguito ci disse: – È morto anche per colpa vostra. Mettetevi sull’attenti, almeno, signori ufficiali.

Sono caduto prigioniero in Sicilia, a Paceco (Trapani), ad opera di un reparto aviotrasportato dell’esercito americano. erano le ore 13.30 circa del 24 luglio 1943 […]. Da due anni o quasi il mio reparto cercava di raggiungere l’Africa del Nord senza riuscirvi. […] Quella del luglio ’43 fu la volta buona, da prigionieri. Sbarcammo a Biserta il giorno di Ferragosto, tra lo scherno e peggio dei francesi là stanziati, gollisti o meno: dei colonial-fascisti di laggiù, diremmo oggi (ma vale anche per allora). […]

Non c’è bisogno di arrivare all’8 settembre ’43 per scoprire che uno dei sentimenti più diffusi tra noi, ufficiali dell’esercito italiano, era una specie di senso di colpa verso l’alleato dal quale stavamo staccandoci. Saltavano i fascetti dai baveri degli ufficiali della Milizia caduti prigionieri con noi e venivano sostituiti con le stellette dell’esercito, mentre gli ufficiali superiori in servizio permanente effettivo, cui gli americani avevano lasciato una larva d’autorità in quanto responsabili ai loro occhi della moltitudine di sbandati che eravamo, si affannavano a scovare nel campo gli antibadogliani, i fascisti insomma, secondo loro. Sicché il meccanismo semplicistico, l’unico disponibile del resto, della fedeltà al re che vuol dire fedeltà alla patria garantita dall’onore militare il quale fa sì che le guerre continuino, fece presto a dividere il campo in due parti: quelli che non discutevano il 25 luglio e quelli che lo discuteva ma già sottovoce.

In nome di cosa, questi ultimi? Diciamolo chiaro: in nome dell’onore militare, della parola data e di altri impegni e giuramenti di fedeltà. Certo, ci sarà stato anche chi taceva su tutto e vedeva pur qualcosa al di là di certe fasulle alternative di incompatibilità tra parola data da una parte e fedeltà al monarca dall’altra (vespai in cui va a cacciarsi l’onore militare!), ma non ne fanno cenno le cronache di quel formicolante campo di prigionia: che era per l’esattezza il 127 di Chanzy, Algeria, non molto lontano da Sidi-Bel-Abbès, località cara alla Legione Straniera.

Nota. Vittorio Sereni, L’anno quarantatre, in Id., Poesie e prose, a cura di Giulia Raboni, con uno scritto di Pier Vincenzo Mengaldo, Mondadori, Milano 2013, pp. 630-637, le cit. pp. 630-633.

1. Il ricordo, datato in calce “1963”, prosegue con gli eventi legati all’armistizio: Sereni e i suoi commilitoni sono già imbarcati su una nave che deve trasferirli negli Stati Uniti quando arriva la notizia. “Non ricordo se ci lessero il testo di Badoglio o se si limitarono a darci l’annunzio. Un maggiore del nostro Stato Maggiore ci esortò a non fare commenti in un senso o nell’altro («si tratta di un armistizio e i nemici restano nemici») e a tenere un contegno dignitoso e corretto. Bisognava lasciare quella nave, che già si riaccostava alle banchine, tornare a terra dopo aver fatto fagotto. La città di Orano, le case grigie del porto nel giorno anche più grigio erano davanti a noi” (p. 635). A questo punto, solo i tedeschi continuano a essere imbarcati per il trasferimento nei campi degli Stati Uniti: “Su autocarri, nel pomeriggio avanzato, sotto una pioggerella prima tiepida, poi sempre più fitta e fastidiosa. Venivano da Chanzy, da Saint Denis, da Sainte-Barbe, dai vari campi dell’Africa di cui avevamo notizia e di cui avremmo fatto esperienza: cantando sotto lo sguardo ironico dell’americano issato sull’abitacolo di ciascun camion, smettendo di cantare, i maledetti, non appena ci ravvisavano per rivolgerci sberleffi, urlacci di scherno, ma soprattutto gesti di minaccia e di percossa agitando le mani, tendendo i pugni, sventolando i palmi, puntando gli indici, facendo le corna. Andavano a prendere il posto che era stato nostro sulle navi abbandonate al mattino. Uno si sporse dalla fiancata mentre l’autocarro rallentava nei pressi del recinto, mostrò qualcosa di bianco, lo sventolò, lo appallottolò, lo sciorinò di nuovo, fece un gesto che non ripeto. Erano mutande. Femminili. Italiane. Da buoni italiani cominciammo a capire” (p. 636).

2. Sereni – che, come abbiamo letto, aveva “già scritto varie volte in versi e in prosa” di questi avvenimenti – continuò a riscrivere i suoi ricordi negli anni successivi. Nel 1972 uscì Le sabbie dell’Algeria sulla rivista “Storia Illustrata” (a. XVI, n. 178, settembre 1972, pp. 102-107, poi ripubblicato come appendice in Id., Senza l’onore delle armi, con una Nota di Dante Isella, All’insegna del pesce d’oro, Milano 1986, pp. 67-75, da cui si cita). La materia è più ampia di quella del 1963, con notizie relative alle condizioni della lunga prigionia (Sereni sarebbe stato rimpatriato solo nel luglio 1945); anche dove parla dell’estate del 1943 (talvolta riprendendo alla lettera il testo del 1963), i ricordi sono esposti con uno stile più cronachistico e informativo.

Ne Le sabbie dell’Algeria Sereni rievoca le circostanze della cattura, in giornate di “caldo terribile”: “In quanto a noi, arresi o rastrellati nella zona di Trapani, tagliata fuori da giorni dal vivo della lotta e caduta senza seria resistenza ad onta dell’ordine di difesa a oltranza, eravamo circa 5.000. […] Ma più in generale si può dire che prigionieri lo eravamo già moralmente, ben prima che fossero in vista le punte avanzate della 82a divisione aviotrasportata americana, la cui azione nei nostri confronti fu poco più che un’operazione di polizia. Materialmente ciò avvenne nelle ore tra il 23 e il 24 luglio 1943 […]. […] In quanto a noi, fermi da tempo ad aspettare gli eventi (e chissà, a strologare e sperare che si verificassero altrove; forse nel Peloponneso forse in Sardegna), avremmo altro da ricordare: dallo squagliamento delle autorità allo sventolio di bandiere bianche levate alle nostre spalle per iniziativa della popolazione ormai incontrollabile e decisamente a noi avversa, dall’inserimento di voci isolane invitanti alla resa nel orso di una comunicazione telefonica tra l’uno e l’altro comando, al disfacimento spontaneo e infrenabile di interi reparti e batterie contraeree; e su tutto la sensazione invincibile di stare in un paese due volte nemico, presi in una enorme trappola rispetto alla quale l’imminente stato di prigionia rappresentava l’unico scampo possibile” (pp. 67-68).

Quindi il “campo sportivo” di Trapani, il sodato ucciso dalla sentinella, la reazione della truppa italiana, ostile agli ufficiali, che, dal canto loro, discutono “sul senso del 25 luglio – chi si pronunciava senza esitazione per la fedeltà a Badoglio e alla monarchia e chi parlava di tradimento e disonore, mentre gli ufficiali della milizia provvedevano, a ogni buon conto, a far saltare i fascetti dall’uniforme e a sostituirli con le stellette dell’esercito – trovavano sostanzialmente la truppa, tanto più realisticamente ferma a un dato di fatto: che cioè, Badoglio o non Badoglio, la guerra continuava” (p. 68).

Sereni ricorda poi come il suo reparto, che almeno dal 1942 doveva essere dislocato in Africa del Nord, era invece arrivato in Sicilia, per toccare le coste dell’Algeria in prigionia, intorno al Ferragosto 1943: “Strano destino quello del mio ex-reparto. Eravamo gente del settentrione, emiliani nella grande maggioranza, che da almeno due anni cercava di raggiungere l’Africa del Nord e non ci riusciva. Ci saremmo arrivati, chissà come, proprio in extremis e a patto di passare indenni il Canale di Sicilia, se un grosso bombardamento non avesse sconvolto l’aeroporto di Castelvetrano, nell’aprile del 1943, alla vigilia del nostro imbarco per la Tunisia. Fummo dunque destinati alla difesa delle coste, e il nostro battaglione, attrezzato e armato per il Nord Africa, passava per una specie di reparto modello a confronto delle scalcinatissime e demoralizzate divisioni costiere.

Per ironia della sorte, in Africa ci arrivavamo ora, su mezzi da sbarco americani partiti da Palermo nei giorni di Ferragosto” (p. 69).

Quindi la mancata traversata dell’Oceano come conseguenza dell’armistizio, che cambiò lo status dei prigionieri italiani: “L’avvenimento centrale della nostra cattività ha un rapporto stretto con l’8 settembre e con l’armistizio. Ci fu presentata una carta firmando la quale ci impegnavamo ad assumere, pur restando prigionieri, la figura dei collaboratori. Saremmo insomma diventati prigionieri-collaboratori, qualcosa come dei prigionieri sulla parola. Ciò implicava la nostra disponibilità a eventuali richieste americane per lavori e servizi nei porti, aeroporti, strade dell’Africa del Nord e altrove.

Può parere oggi incredibile che la firma di quella carta creasse esitazioni circa la legittimità di collaborare on gli ex-nemici, che accendesse discussioni tra noi, tuttora fermi ai termini del 25 luglio (Mussolini e l’Asse da una parte; il re e Badoglio dall’altra), mentre già arrivavano voci, più che notizie, di una sedicente repubblica sociale che andava costituendosi in una parte d’Italia. Comunque la grande maggioranza firmò. Quei pochi che non firmarono furono subito isolati e tutto fa ritenere che fossero spediti in campi speciali negli Stati Uniti” (p. 72).

Le ultime pagine dell’articolo pubblicato per la prima volta su Storia Illustrata sono dedicate alla lunga prigionia, con notizie sommarie sulla vita materiale e sulle condizioni psicologiche degli internati, soprattutto quelli che, come Sereni, non si erano dati da fare per essere assegnati ai lavori e ai servizi esterni: le discussioni, la noia, le notizie frammentarie dall’Italia, comprese quelle sulla Resistenza (“la nostra cattiva coscienza, ci tormentava il pensiero che altri, in un tempo diverso e in diverse condizioni, stesse facendo quanto non avevamo saputo o avuto il coraggio di fare noi”, p. 73).

Il testo si chiude alla vigilia del rimpatrio, nell’estate del 1945: “Eravamo sul piede di partenza con lo sguardo rivolto a un futuro che non sapevamo guardare, se non con gli occhi dei prigionieri, che sono gli occhi del passato. La guerra fredda già cominciava e noi non lo sapevamo” (p. 75).

(f.b.)

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Archiviato in:La città invisibile, Letture, Vittorio Sereni Contrassegnato con: 25 luglio, anniversari, ricordi

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Commenti

  1. Poci dice

    06/08/2018 alle 16:06

    Mi è piaciuto. grazie. ciao

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