di Francesca Trivellato
Su gentile concessione dell’autrice e della redazione della rivista Contesti, riprendiamo la recensione che Francesca Trivellato ha scritto sul libro di Gigi Corazzol, Piani particolareggiati. Venezia 1580-Mel 1659 (DBS-Pilotto, Rasai-Feltre 2016).
Affidato, senz’altro per scelta dell’autore, Gigi Corazzol, a una casa editrice minore ma ben radicata nel territorio (il Bellunese) che del libro è protagonista, Piani particolareggiati. Venezia 1580-Mel 1659 potrebbe sfuggire anche ad alcuni fra i lettori di una rivista come Contesti, mentre lo troveranno di grande stimolo e interesse1. Quanti già conoscono i lavori di Corazzol vi riconosceranno certi tratti caratteristici. Ricompaiono alcuni temi e perfino qualche protagonista del precedente Cineografo di banditi su sfondo di monti, che, come da sottotitolo, Feltre 1634-1642, si collocava in tempi e luoghi non lontani; lo stile rimane volutamente spiazzante rispetto alla prosa accademica tradizionale2. Ma amici e seguaci troveranno in Piani particolareggiati anche molto di nuovo. Il soggetto si fa più serio. I toni più cupi. La sperimentazione stilistica si spinge oltre. Il biografico irrompe a forza. Le riflessioni metodologiche, per lo più allusive, o almeno espresse in forma ironica e obliqua, toccano i nervi più sensibili del dibattito odierno.
L’oggetto d’indagine è più facile da riassumere, del resto. Si concentra su un piccolo gruppo di mercanti di legname nati a Venezia intorno al 1580 e all’origine di una nuova catena migratoria che li portò a stabilirsi definitivamente nel paese di Mel, ai piedi delle Dolomiti bellunesi. Fernand Braudel descrisse le montagne del bacino mediterraneo come “riserve di proletari”, luoghi poveri e sovrappopolati dai quali, specie in tempi di crescita demografica ed economica come il lungo Cinquecento, in molti fuggivano verso le pianure e i centri urbani in cerca di sorti migliori3. Qui ci troviamo di fronte al fenomeno inverso: un’élite imprenditoriale che si sposta dalla capitale alla periferia dello stato regionale, dalla laguna alla pedemontana. Il tema centrale non è l’unico motivo per cui Piani particolareggiati possa dirsi diametralmente opposto al Mediterraneo di Braudel (che per altro sono io a citare, non Corazzol, parchissimo di riferimenti espliciti a storici noti a tutti e più incline a menzionare studiosi specialisti o esperti locali, e qua e là qualche romanziere). Lo separa dallo storico francese un’avversione tanto alla grandiloquenza quanto alla sintesi, alla tendenza cioè a sussumere il particolare all’affresco panoramico. Eppure, le domande sulle società pre-industriali che Corazzol si pone sono quelle che fu la storiografia associata alle Annales a trasformare in cruccio degli storici di antico regime.
Due in particolare funzionano da torrenti carsici nella narrazione, scomparendo e rispuntando di capitolo in capitolo: la questione della persistenza e del mutamento nelle tecniche e nelle forme di organizzazione del lavoro e dell’impresa e la questione dei codici che governavano l’articolazione sociale interna a comunità che, da lontano, potrebbero essere viste come rigidamente stratificate e omogenee.
Il legname, non serve dirlo, era risorsa vitale prima della diffusione dei combustibili fossili. Tutto, dal domicilio domestico alle manifatture e all’apparato militare, dipendeva dal legname. Situato lungo le rive del Piave a circa 360 metri di altitudine, Mel occupava una posizione geografica strategica nei flussi di trasporto dei tronchi e della legna da ardere dai monti alla pianura. Ma anche col favore della geografia, le risorse boschifere erano difficili da sfruttare: richiedevano sapere, capitali, forza lavoro e una grande capacità di gestire quanto c’era di più e di meno prevedibile, dai rivali tirolesi al contrabbando e agli agenti atmosferici. Piani particolareggiati ci restituisce una comunità prealpina che nel corso di poco più di una generazione cambiò non radicalmente, ma di certo in misura significativa. Clima e ambiente regolavano i ritmi di vita e di lavoro secondo una stagionalità che pure non era mai identica a se stessa. Se un inverno con troppa neve imponeva grosse difficoltà a chi doveva muovere enormi tronchi d’albero, l’assenza di neve creava altri ostacoli. Ma questo non è un mondo intrappolato nella lunga durata braudeliana. A saper guardare, come sa Corazzol, si trova il cambiamento ovunque. Mel era tutt’altro che isolata: in tempi di carestia ci si sfamava con frumento polacco (53); già a fine Cinquecento si cominciò a piantare granturco americano, con tutti gli adattamenti tecnologici che ciò richiese (54); parte della lana che le donne filavano era di provenienza spagnola e andava a produrre panni di qualità elevata destinati a una clientela diversa dalla precedente (63).
Mel tra fine Cinque e inizi Seicento è dunque un mondo che cambia. E cambia soprattutto in risposta a una domanda di legname in crescita. Gli affari diventano più redditizi. Non tutti però ne traggono lo stesso beneficio. Anzi, le gerarchie economiche si inaspriscono. Una prima accumulazione del capitale? Quanto meno si deve parlare di concentrazione della ricchezza e di espropriazione semi-coatta delle terre boschifere. Prima dell’insediamento dei mercanti arrivati da Venezia, le comunità della zona gestivano ampie aree a bosco in proprietà comune. Il rialzo dei prezzi offrì loro l’opportunità di soddisfare la crescente pressione fiscale imposta dallo stato regionale vendendo quelle aree e usando il ricavato per soddisfare i propri debiti. Così, larghe zone un tempo sfruttate saltuariamente e in comune si trasformarono in proprietà privata – non di chiunque, ma dei mercanti giunti da poco da Venezia.
Anche così irrigiditesi, le gerarchie economiche erano lontane dall’esaurire le gradazioni sociali percepibili all’epoca. Corazzol lo ripete in tutti i modi. Zuanne Maccarini è il protagonista (non ingombrante) del libro. Sapeva fare bene il suo mestiere. A Mel introdusse novità gestionali e allargò le aree boschifere sottoposte a sfruttamento sistematico. A Mel mise radici. Vi morì ricco ma mal integrato – un po’ perché, appunto, più ricco degli altri e un po’ perché lo vedevano ancora come uno venuto da fuori. Come descrivere il tessuto sociale della comunità nella quale Maccarini si trasferì e dove nacquero i suoi figli? E come spiegare gli atteggiamenti dei suoi nuovi vicini di casa verso la famiglia? Non basta distinguere tra chi è del luogo e chi no, perché anche nelle valli montane di antico regime a spostarsi da un paese all’altro, per brevi o lunghi periodi, erano in molti. Non basta studiare i cicli di vita, i fronti parentali, le faide. Tutto conta. Non basta dire che c’erano feudatari, notabili, mercanti, lavoratori saltuari e nullatenenti. La grande maggioranza della popolazione non aveva una professione in senso moderno: a loro dire, erano tutti occupati a trafegare, eppure erano occupazioni vissute «sulla base di una precisa gerarchia» (58). Le differenze erano piccole ma non impercettibili. Tocca a noi identificarle e spiegarle sulla base di pochi, pochissimi cenni fatti nei documenti.
E qui è dove la maestria di Corazzol raggiunge virtuosismi impossibili da sintetizzare: la stratificazione sociale la si coglie meglio di tutto nella sociabilità extra-lavorativa, una sociabilità fatta di giochi, feste, amicizie, amori, osterie, musica, vino, feste, ma anche di aggressioni, incluse archibugiate tra uomini e violenze sessuali sulle donne – molte archibugiate e molte violenze sessuali, le prime meno indiscriminate delle seconde, si direbbe. C’era chi arrivava a un ballo a cavallo (segno di pretesa superiorità sociale?), chi non riusciva a separare la propria cattiva reputazione da quella della famiglia in cui era nato, chi sceglieva una vita picaresca e randagia. Maccarini si guadagnò rispetto rintracciando chi aveva rubato una cavalla ed era fuggito a Udine: sono tre ore e mezzo oggi in automobile, una distanza non da poco a dorso d’animale. Quella di Mel è «una società fluida» (101), più di quanto non lo fossero i centri urbani più densamente popolati e più rigidamente stratificati.
Come sappiamo tutto questo? Corazzol è ossessionato (credo di poter usare questo verbo, in senso positivo e con empatia) da questa domanda e ne fa il filo conduttore del suo dialogo con i lettori. Racconta di sé più di quanto si costumi tra gli storici di mestiere. Veniamo da subito a conoscenza di che cosa l’abbia portato a trasferirsi non lontano da dove Maccarini aveva messo radici più di tre secoli prima, dei suoi attacchi di panico, del suo terrore della morte. Ognuno sceglierà come interpretare i dettagli più intimi. Non nascondo un certo pudore, legato al fatto che Corazzol fu uno dei miei docenti universitari. In ogni caso, questi dettagli, che poi dettagli non sono, fungono da puntelli nel dialogo che Corazzol vuole intrattenere con i propri lettori. Ci aiutano a capire dove nasca l’insistenza sull’ineffabilità delle forme di appartenenza e di alienazione. Ci aiutano a seguire Corazzol, in senso fisico oltre che intellettuale, lungo le piste che lo portano a cercare risposte in archivio e non solo in archivio, come si vedrà. In chiusura, poi, Corazzol ci offre un autoritratto per conto terzi: lo dicono «devoto alla razionalità limitata, all’eterogeneità dei fini e alla misericordia» (365). Piani particolareggiati fa quadrare il triangolo.
«Ringrazio il lettore che non vorrà spazientirsi per la maniera poco sistematica (saranno piccole storie) con cui ho scelto di dare qualche notizia sulla produzione tessile della contea di Zumelle» (60). Che cosa si ritrova tra le mani lo storico a parte le molte «piccole storie» in cui incappa scartabellando vecchi documenti? Che cosa ce ne facciamo di un evento di vita, di un contratto per la segatura e la vendita di tronchi descritti in un lessico divenuto incomprensibile, di una denuncia per furto o quant’altro? Per non parlare dei casi di omonimia che confondono anche i genealogisti più dediti. Corazzol ci rende partecipi della tentazione di disegnare una mappa 1:1 di borgesiana memoria, sapendo bene che si tratta di un tranello: ne risulterebbe una mappa troppo perfetta per essere leggibile. Ma allora, quale informazione tralasciare e quale corredare di tutte le minuzie disponibili? Quale termine trascrivere in originale perché insostituibile (insostituibile?) e quale parafrasare fin da subito? Quale indizio conta e quale no?
Ricette prescrittive o anche solo pareri generali sono l’ultima cosa che possiamo aspettarci da Corazzol, che preferisce renderci partecipi del suo modo di procedere – un modo che mi viene da chiamare quello di un etnografo d’archivio. Gli etnografi studiano i vivi, gli storici i morti. Ma qui i due ruoli si sovrappongono. Etnografo per diversi motivi: per il desiderio caparbio, già menzionato, di decifrare rituali sociali oggi incomprensibili; per la propensione a render conto ai lettori dei passaggi mentali e del percorso di ricerca attraverso cui si è arrivati a sapere quel che si sa e a scrivere quel che scrive; e infine per due aspetti su cui tornerò, cioè l’immergersi nei luoghi nella loro costituzione fisica e la pratica di parlare con quanti in quei luoghi vivono oggi. D’archivio perché tutto comincia e finisce con le carte degli archivi – locali, veneziani, austriaci. Le fonti documentarie sono quelle classiche della storia sociale: registri notarili, testamenti, estimi, qualche atto di battesimo, matrimonio e sepoltura, pochi archivi aziendali, folti fondi giudiziari, processi criminali soprattutto, più che civili.
Come in una certa tradizione della microstoria (pur mai menzionata), alla biografia familiare dei Maccarini si affiancano non solo frammenti di vita di coloro con cui questi vennero in contatto, ma anche un gran numero di dati di prima mano che illustrano, per quanto possibile, la dimensione del fenomeno studiato, ovvero le fluttuazioni del mercato del legname. La giustapposizione di quello che per semplicità potremmo dire qualitativo e quantitativo, come altre scelte metodologiche, passa per lo più senza commenti. Se non che a un tratto Corazzol ci spiega molto: «Da giovanotto, quando ho cominciato a frequentare gli archivi ero tra i parecchi che avevano un chiodo fisso innegoziabile: se vuoi fare sul serio la prima cosa è mettere le mani su fonti quantitative. […] Quando mi sono imbarcato nella ricerca di cui state scorrendo i risultati, quei tempi erano passati da un pezzo. Il disincanto aveva fatto il suo dovere, ma non a gualivo». (In Veneto si dice “un alto e un basso fa un gualivo”, ovvero, meglio cercare la via di mezzo, dunque: il disincanto non aveva avuto un effetto omogeneo, indiscriminato.) E infatti, continua Corazzol: «Sotto la cenere, appena fumiganti, ci sono braci cui basterebbe un refolo da niente per rimenar la cima» (244)4. Tabelle e grafici ci disegnano un trend ascendente nel mercato del legname fino al 1630 e successivamente un misto di crisi e riprese. Senza questi dati non è possibile comprendere le strategie d’impresa di Maccarini e anche buona parte delle alleanze familiari ch’egli tessé, pur nell’infinita varietà che prendono le pieghe della vita.
Corazzol etnografo d’archivio fa parlare i morti e parla con loro. Lo fa in senso letterale ricorrendo a due stratagemmi retorici. Il primo era praticato in antichità e nel Rinascimento ma ai tempi in cui Maccarini si era trasferito a Mel era già stato messo in discussione dai guardiani del decoro dell’ars historica. Mi riferisco all’uso del discorso diretto, tanto più quando i discorsi riportati sono plausibili ma non necessariamente autentici5. Un esempio fra molti: «Cecon: – Che distu, zoto, beco fotù? Che ho fatto marcà con la femena. Te poderàe anco castigar a dir così!» (64). L’intero capitolo 7 (Storie intorno al camino) è costruito con questa tecnica mista alla parafrasi del documento originario. La destrezza lessicale e sintattica è da vertigini. Il secondo stratagemma è stato fino a non molto tempo fa causa di scomunica da parte della corporazione degli storici: si tratta del dialogo fittizio tra l’autore e i suoi personaggi6. Notevole è quello tra Corazzol e il figlio di Maccarini attraverso cui rivisitiamo l’intera vicenda (363-365).
Corazzol parla anche con i vivi – amici, colleghi, conoscenti, nonché passanti incrociati sulle strade del paese e dei dintorni. Ci avverte, però: «non sono mica della razza degli antropologi del presente sempre pronti a rugare, lignetto in resta, le criticità di un mondo fattosi semiliquido» (181, corsivo nell’originale). La precisazione mi pare contribuisca a non nascondere un goccio di rimpianto per la solida compattezza dei tempi passati (pur con tutte quelle archibugiate e quegli stupri?). Ma quel velo di nostalgia non va a intralciare la precisione scientifica (per usare un termine controverso); anzi, le due cose per Corazzol vanno a braccetto: il primo anima la seconda, specie quando il dubbio sull’utilità della ricerca storica si insinua, inevitabilmente, e ci rende pigri. Per comprendere come e dove Maccarini abbia innovato occorre acquisire una conoscenza precisissima delle tecnologie pre-industriali, occorre ricostruire l’orografia e l’idrografia nelle quali si mosse, e questo a dispetto dei cambiamenti intervenuti.
A tale scopo occorre recarsi sui luoghi («ho la mania dei sopralluoghi», p. 179). Seguiamo allora Corazzol quando arriva a Ruaz: «oggi sono cinque case, ma non un luogo desolato» (249). Sopra Ruaz «splendono le crode e il purissimo azzurro che fanno lustri di turismo i paesi vicini». Nell’accomiatarsi lo ammette: «Ruaz mi commuove, vi dirò, fino alle viscere» (250). È una rara ammissione di un trasporto che altrove filtra in modo sottomesso, seppure inequivocabile, ma lo scopo della missione non è per questo meno rigoroso: comprendere come avvenissero gli sposamenti di legname o perché una segheria era installata proprio in quello snodo della valle. In un’altra occasione, l’incontro casuale con una donna di una certa età, datato 16 febbraio 2013, è all’origine di un dialogo, più o meno rielaborato non lo sappiamo, anch’esso intriso di informazioni e di emozioni. La donna, cresciuta in Francia, si era trasferita non lontano da Mel per far piacere alla madre, rimasta vedova, ma non aveva mai sentito il paese come suo. Così Corazzol? Così Maccarini?
Resta ancora da chiedersi: quanta familiarità con la topografia del territorio e con il lessico del luogo è necessario possedere o acquisire per scrivere di una comunità montana di età moderna? E quanta per apprezzare un libro di questo genere? Il pomeriggio della domenica 19 agosto 1635 risultò “fatale”. Un giovane non ne uscì vivo e uno dei figli di Zuanne Maccarini venne ritenuto complice dell’omicidio. Tutto cominciò con un gesto galante ma, stando alle norme dei rapporti fra i sessi dell’epoca, inopportuno. La gelosia fece il resto. Dove si svolsero gli eventi? Il gruppetto di maschi era partito dalla piazza di Mel per un’attività ludica tipica dell’epoca, il ballo. «Ma dove? Quel pomeriggio si ballava sia a Zottier che a Marcador». Zottier e Marcador: «Sono consapevole che i nomi non vi dicono niente. Sono, erano e saranno paesi piccoli» (169). Sono certamente passata per Mel e dintorni un paio di volte, una trentina d’anni fa, e i paesaggi non mi sono sconosciuti, per il solo fatto che sono cresciuta in quella regione. Ma se mi catapultassero sulle rive del Piave, non saprei dire dove mi trovo. Quanto ci metterei a orientarmi? Quanto importa? In tempi di vite e storiografie trans-locali, non ogni storico sociale può trasformarsi in etnografo. Piani particolareggiati ci fa percepire che cosa perdiamo quando l’acculturazione al mondo descritto rimane parziale, ma non risolve il problema: come scrivere di luoghi di cui non si ha dimestichezza? Fino a che punto è riproducibile l’esperienza di Corazzol, pressoché unica, di storico al tempo stesso accademico e locale?
Per altri versi, Piani particolareggiati parla anche a chi, una volta localizzato Mel tramite googlemaps, debba saltare qualche pagina intrisa di dialetto. Corazzol, lo si sarà capito, ama le allusioni. Quella che si insinua continuamente è ai dibattiti che negli ultimi decenni del secolo scorso hanno infuocato le scienze umane e sociali: esiste una verità storica? Come si può accedervi e come la si può ricostruire? Piani particolareggiati piacerà soprattutto a chi, come la sottoscritta, ama vedere come uno storico di straordinaria intelligenza sceglie di mettere le mani in pasta piuttosto che darci lezioni di ermeneutica. Un’immaginazione lasciata correre più di quanto i canoni tradizionali prevedano vi convive con una straordinaria accuratezza documentaria. Il risultato è volutamente paradossale, la ragion d’essere di questo libro. Dove altri tratteggerebbero analogie e differenze tra storia, letteratura e biografia, Corazzol sembra dirci che mischiando il tutto si arriva a una descrizione più precisa del passato, e che la precisione descrittiva è un dovere deontologico a prescindere dal risultato complessivo. L’affresco dipinto dallo storico conterrà sempre zone d’ombra, ma il lettore ha diritto di sapere perché quelle ombre rimangono tali e come quei pieni siano stati riempiti. Tanto meglio se a guidare il lettore è un testo in cui il gusto del gioco affianca la passione filologica per gli archivi.
Nota. Edizione originale: Francesca Trivellato, Dialogando con i morti e con i vivi: una storia sociale del mondo pre-industriale, “Contesti”, 6 (2016), pp. 183-190. Ringraziamo Luciano Allegra e la redazione di Contesti per averci consentito di ripubblicarla; per questa occasione sono stati corretti alcuni refusi.
- Libreria Pilotto Editrice, Feltre 2016. [↩]
- Unicopli, Milano 1997. [↩]
- Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, Einaudi, Torino 1976, vol. 1, p. 15. [↩]
- Per uno dei frutti del «chiodo fisso» giovanile, si veda Gigi Corazzol, Livelli stipulati a Venezia nel 1591. Studio storico, Giardini, Pisa 1986. Per inciso si noti che alcuni anni fa uscì uno studio sulla gestione dei boschi della Repubblica di Venezia in antico regime tutto incentrato sui boschi demaniali. Eppure due tabelle in quel volume dimostrano (senza che l’autore lo sottolinei) come a metà Seicento l’Arsenale di Venezia fosse rifornito per la metà da boschi e mercanti di legname privati. Lo dico sia per segnalare un lavoro che solo in apparenza verte sugli stessi temi, sia per citare un esempio di quanto rivelino le tabelle: Karl Appuhn, A Forest on the Sea: Environmental Expertise in Renaissance Venice, Johns Hopkins University Press, Baltimore 2009, pp. 171, 257. [↩]
- Anthony Grafton, What Was History? The Art of History in Early Modern Europe, Cambridge University Press, Cambridge 2007, pp. 34-49. [↩]
- A redimerlo, almeno in parte, fu Natalie Zemon Davis nel prologo a Donne ai margini. Tre vite del XVII secolo, Laterza, Roma 2001 (ed. orig. 1997). [↩]