di Gigi Corazzol
Nella notte tra il 6 e il 7 aprile, è morto Ferruccio Vendramini. A lui, che negli anni scorsi spesso rispondeva ai nostri auguri nei giorni della Liberazione e del Primo maggio, dedichiamo il nostro buon 25 aprile 2018. Lo ricordiamo riprendendo – con alcune modifiche d’autore – un articolo di Gigi Corazzol già apparso nel numero 113 di “Protagonisti”, la rivista dell’Istituto storico bellunese della resistenza e dell’età contemporanea.
Ferruccio sta sempre studiando qualcosa. Di recente mi è capitato di incontrarlo nei depositi dell’archivio comunale di Belluno, a Marisiga; oppure nella sala di lettura dell’Archivio di Stato. Se invece a casa mia, di norma perché era sceso a Feltre per un’intervista destinata ad arricchire un profilo biografico.
Se gli telefoni sai che dovrai aspettare. Istanti per carità, giusto il tempo che arrivi all’apparecchio. No cordless a portata di mano. Quelle volte che sono passato a trovarlo gli scartafacci li ho visti spalancati quando sul tavolo del salotto, ora su uno, minuscolo, in fianco al letto. Insomma, a casa, Vendramini ha studiato e scritto secondo richiedessero le esigenze familiari. Anche in questi anni ultimi, in cui non ha più avuto a sua disposizione un ufficio, ha continuato a far così; nessun privé conforme alla scenotecnica vigente. Ottimo.
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L’elenco dei lavori che ha pubblicato dal 2008 a oggi è così cospicuo da lasciare a bocca aperta anche chi sappia, e lo sanno tutti quanti lo conoscano, che Ferruccio sta sempre studiando qualcosa. Sempre.1
Se poi si entri nel merito si vedrà che si tratta di tutt’altro che di una pioggerellina di recensioni, rassegne, noterelle. Il grosso è costituito da otto libri. Parliamone.
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Al primo posto abbiamo la storia di alcune comunità del territorio bellunese, Longarone in primis, affrontata secondo una prospettiva che parte dal Cinquecento. L’approccio è globale. Oltre alle istituzioni comunitarie vi si trattano la cultura, l’organizzazione ecclesiastica e le pratiche religiose. Il baricentro è l’economia. Per secoli Longarone fu uno dei principali snodi montani della filiera del legname, centro di raccolta, trasformazione e smistamento della produzione cadorina e delle vallate dell’alto pordenonese. La tragedia del Vajont non è né sullo sfondo né in filigrana. Alimenta ogni riga.
Occuparsi di Longarone lo ha fatto confrontare con gli studi più recenti sull’economia e le istituzioni dei villaggi di montagna. Un impegno che ha avuto tra i suoi effetti collaterali quello di risvegliare il suo antico interesse per le comunità rurali, da cui gli studi sulle regole di Bolzano Bellunese e Visome e sulla pieve di Limana.
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L’altro grande tema delle ricerche di quest’ultimo decennio è stato la scuola bellunese tra Otto e Novecento, quella elementare in particolar modo. Anche questo è un interesse che viene di lontano, nutrito com’è da una lunga pratica di insegnamento ispirata da una convinta adesione ai principi pedagogici del movimento di cooperazione educativa. Una volta lasciate le elementari per l’ISBREC (Istituto storico bellunese della Resistenza e dell’età contemporanea) il rinnovamento della didattica della storia sarebbe stata una dei principali obbiettivi della sua gestione.
Oltre a vari quadri d’insieme, Vendramini ci ha fornito una galleria di ritratti di eminenti uomini e donne di scuola. A quello di Angelo Volpe hanno fatto seguito quelli di don Antonio Sperti, di Francesco Gazzetti, di Pierina Boranga e di Antonio Pastorello. A questo elenco aggiungerei i nomi di persone che non furono insegnanti in senso stretto pur insegnando molto. Ed ecco l’avvocato Carlo Zasso, e la sua instancabile attività per il miglioramento della frutticoltura, e Rodolfo Protti, una figura chiave per quanto riguarda l’arricchimento delle raccolte artistiche comunali nella prima metà del Novecento. Vendramini, grazie vuoi alle mutazioni dello spirito pubblico, vuoi a una conoscenza sempre più circostanziata della società cittadina, è attento a riconoscere e a valorizzare gli apporti recati da ognuno, quelle che siano state le appartenenze politiche.
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Vendramini non ha lasciato da parte la storia del movimento operaio e della Resistenza. Un impegno, il suo, anche in questo caso ben consapevole dei mutamenti prodottisi nello spirito pubblico, ma non per questo disposto a revisionismi spensierati. Ne è ottimo testimonio la severa recensione a un libro di Sandro Fontana.2 Merita sottolineare come anche quando il dissenso sia netto Vendramini si astenga da modalità declamatorie, preferendo proporre qualche nuova testimonianza. Così nell’articolo dedicato alla distruzione nazista di Barcis, in Val Cellina.3
A proposito di testimoni. Sulla copertina del numero 98 (2010) di “Protagonisti” c’è la foto di un diciottenne seduto a cavallo di una balaustra. Quel giovane, nato a Lozzo nel 1926, imbraccia una chitarra. Si chiamava Terenzio Baldovin. I risvolti pubblici della sua vita si restringono a poco più di sei mesi. Alla fine di novembre del 1944 Baldovin, avendo saputo di essere tra i sospettati per l’attentato del 21 settembre ai presidi militari delle dighe di Auronzo e del Comelico, si presentò spontaneamente al comando tedesco. Imprigionato, morì di lì a tre mesi in un campo di concentramento nei pressi di Flossenbürg (Baviera nordorientale). Tutto questo si legge in Tre donne cadorine prima e dopo l’Alpenvorland: ricordo di Terenzio Baldovin.4 Per la storia di Terenzio, Ferruccio ha dato la parola a Lorenzina Baldovin. Nata qualche mese dopo la morte del padre, Lorenzina si strugge da anni (ma in realtà sono decenni) affinché il comune di Lozzo acconsenta a ricordare quel nodo di tribolazione.
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In quest’ultimo decennio sono stati più d’uno gli scritti originati da istanze di parenti. Questa sua disponibilità all’ascolto è un tratto di carattere fattosi metodo. Esso consiste nell’accogliere nella scrittura storica i ricordi personali, non esclusi i suoi. Su questo punto tornerò tra breve. Ora mi preme segnalarvi una famigliola di articoli che è facile possano essere considerati di secondaria importanza, mentre a mio parere non lo sono.
Come si sa, gli storici hanno un debole per tutto ciò che risulti essere stato influente. Niente di meglio se si tratti di soggetti (ospedali, associazioni, enti, banche, aziende) che godono di ottima salute. Salvo che la vita di una città, non diversamente da quella di una persona, non è tutta una ghirlanda di successi. Noi vecchi potremmo fare elenchi assai lunghi di iniziative, gruppi politici, case editrici, riviste, società sportive, cori, gallerie d’arte, fabbriche, cineforum, circoli ricreativi, pratiche religiose che, non importa se nati da iniziative locali, o per suggestioni venute da fuori, sono spariti, quale di botto, talaltro dopo un breve fumigare. Una storia sociale delle piccole città attenta solo ai successi è una storia buona per le domeniche della vita, quelle con fanfara e discorso. Siamo sicuri che per capire come mai siamo quel che siamo, non serva anche l’inventario dei fallimenti? L’invito di Vendramini a ragionarci su al solito è obliquo. Consiste nel proporre le vicende di un paio di comitati dalla vita effimera che non lasciarono dietro di sé nient’altro che pochi verbali e qualche rimpianto. Anche qui niente di nuovo. Già Voltaire (e chissà quanti altri prima e dopo di lui) scriveva che la storia è un testimone non un adulatore.5 Ma solo dio sa quanto il municipalismo borioso sia duro d’orecchie.
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Dal punto di vista formale gli scritti di quest’ultima stagione cercano un equilibrio tra effusione e stringatezza. Una quadratura impossibile, direte voi. Non è proprio così. Basta che anche le parti in commedia siano due. L’effusione riguarda i documenti. Nelle note, ma anche nel testo, se ne trovano in quantità e d’ogni sorte. A volte corti, altre lunghissimi. Quanto alla stringatezza, essa è la regola per quel che riguarda la voce del narratore. Questo doppio registro è probabilmente dovuto a varie esigenze. La primaria è quella per cui l’esame del passato esige lo stesso impasto di finezza e discrezione con cui l’uomo di giudizio affronta le cose presenti. L’abbondanza della parte documentaria è tale che alcuni articoli possono essere riguardati come altrettante schede illustrative di una guida archivistica futuribile dei fondi bellunesi relativi all’Otto e Novecento. Una guida archivistica “sui generis”, visto che la sua prodigiosa operosità era mossa da esigenze etico-politiche prima che erudite.6 Insomma se siete di quelli per cui la buona storia è fatta di “grandi affreschi”, che “si leggono come un romanzo”, gli scritti di Vendramini non fanno per voi. Ma provate lo stesso. Cominciando magari da quelli dedicati a temi che vi interessino. La scelta è vastissima.
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Dicevo di un non infrequente ricorso a memorie personali. Alcune serene come quelle relative alla sua infanzia a Borgo Pra.7 Altre no. IMI al giorno d’oggi è un acronimo dai mille svolgimenti. Quello che preme a Vendramini, vale a dire Internati militari italiani, andava per la maggiore una settantina d’anni fa.8 Come mai gli interessa? Vediamo l’incipit.
In questi ultimi tempi ho ripreso a frequentare mio padre. Non è stata colpa di nessuno di noi due l’essersi persi, ogni tanto, per strada. Le ragioni non sono personali. L’aggancio che ha riavviato la nostra confidenza affettuosa è coinciso con il ritorno al manoscritto da lui intitolato Diario della mia prigionia. E con la rilettura e un primo studio di queste pagine che sono tornato a parlargli come si conviene.
La sua foto è in una parete del corridoio di casa e i suoi occhi mi seguono di continuo. Finora non sempre rispondevo al suo sguardo, ma, un po’ alla volta, quel viso ancora giovane (mio padre Mario Vendramini è morto a 48 anni), ha chiesto la mia piena attenzione.
Mario Vendramini nel Diario della mia prigionia narra dei ventitré mesi iniziati l’8 settembre del 1943 e conclusisi il 25 luglio del 1945 col suo rientro a Belluno. Mesi trascorsi tra Francia, Germania (nelle rinomate cave di granito di Flossenbürg), Belgio e Olanda, che lo minarono anche nella salute. Di quelle che furono le reazioni di Ferruccio leggendo il Diario del padre dice tutto il dominio del passato prossimo e dell’indicativo presente nelle frasi di esordio. E tanto basti.
Veniamo alle riflessioni dell’ultimo Vendramini sul ruolo della memoria nella ricerca storica.
«L’analisi storica può concatenare i fatti, ma il “vissuto” è altra cosa». Sono parole del 2016. Dopo quarantotto anni di pratica della disciplina come non considerarle testamentarie? L’analisi storica, vale a dire la concatenazione (sempre congetturale) di frammenti sparsi, non eguaglierà mai l’energia del “vissuto”. Trarre profitto da questa energia, anche quando essa provenga da ricordi personali, non è abbandonarsi all’autobiografia. L’autobiografia esige che la vita di cui si narra sia in qualche modo esemplare. Un assunto che spesso fa il paio con il realismo ingenuo. Niente a che vedere con la cautela di metodo che fa del “vissuto” un tester dei livelli di verità presenti negli enunciati chiamati a intrecciarsi nel racconto storico. Vendramini a proposito di non so più che notizia, ha scritto che essa meritava “di essere conosciuta e non restare chiusa negli archivi”. L’archivio qui viene presentato come una fossa comune da cui il vissuto deve esser salvato. I moderni Creonte, a parte casi speciali, non negano la sepoltura ai loro avversari. Non è perché si siano ingentiliti. È solo che sanno bene quanto sia smisurata la potenza dell’oblio. Per questo a quasi tutti concedono spazio (millimetrato) nei depositi, siano di carta o in silicio. Alla legge di natura che prevede lo sprofondare nelle argille stratificate del tempo di ogni vita, la sua, la nostra, Vendramini da qualche anno in qua si opponeva con tutte le sue forze, inconsolabilmente. La sua ribellione, lieve nei toni ma irriducibile, così accorante nella sua assoluta trasparenza, faceva da basso continuo a ogni chiacchierata, da quelle ordinarie alle più gravi. Di qui il tono particolare di alcuni scritti, a mezzo tra l’ossessione e l’opera di misericordia, dichiaratamente intesi come sono a gettare un po’ di luce su “persone che non possono essere dimenticate”. Tanto meglio se appartenenti alla classe che l’ordine (?) sociale d’ogni tempo considera l’ultima. Quale classe? Lasciamolo dire a Giuseppe Gioachino Belli. Quella
… che cammina
senza moccoli e ccassa in zepportura.
Cuesti semo noantri, Crementina,
che ccottivati a ppessce de frittura,
sce bbutteno a la mucchia de matina.9
Le usanze sono cambiate. Niente più (da noi, al momento) fosse comuni. Ciascuno può godere di uno spazio riservato da qui all’eternità (si veda l’apposito listino). Basta. Quando volessimo stringere in una frase il lascito più profondo dei cinquant’anni di lavoro di Ferruccio Vendramini la cosa giusta sarà rifarsi a un comandamento di economia domestica vecchio come il mondo: colligite quae superaverunt fragmenta ne pereant (Giovanni 6.12).
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Tutto qui? Siamo sicuri che basti? No dibattito, prego. Diamoci sotto che presto vien notte.
Così concludevo, con affettata quanto fatua sprezzatura, la breve nota comparsa su “Protagonisti” alla fine di dicembre. Non immaginavo così prossimo l’arrivo della notte. Né, allo scandaglio dei giorni, tanto profondo il vuoto.
Nota. Ringraziamo l’Istituto storico bellunese della Resistenza e dell’età contemporanea – nella persona del direttore Enrico Bacchetti – per averci permesso di riprendere l’articolo di Gigi Corazzol, Bibliografia di Ferruccio Vendramini dal novembre 2008 in poi, “Protagonisti”, 113, 2017, pp. 139-147 (preceduto da una nota di Ferruccio Vendramini, pp. 139-140, e seguito da due elenchi bibliografici Scritti di Ferruccio Vendramini dal 2008 ad oggi, pp. 144-147 e Altri scritti di Vendramini in precedenza non citati, p. 147).
Per questa seconda edizione, l’autore ha rivisto il testo.
- Per l’elenco cfr. “Protagonisti”, 113, 2017, pp. 144-147. [↩]
- Cfr. Ferruccio Vendramini, La storia contemporanea e le sue menzogne. Note e osservazioni su una recente pubblicazione, “Protagonisti”, 98, 2010, pp. 96-100. [↩]
- Cfr. Ferruccio Vendramini, Tersilla, “Protagonisti”, 109, 2015, pp. 108-120. [↩]
- Cfr. “Protagonisti”, 98, 2010, pp. 38-54. [↩]
- Il passo “l’histoire est un témoin non un flatteur” chiude il Discours sur l’histoire de Charles XII, del 1731, premesso alla Histoire de Charles XII roi de Suède. Nell’edizione in mio possesso a cura di H. Legrand, Larousse, Paris senza data, ma 1934, è a p. 15. [↩]
- Vedi in proposito le considerazioni di Diego Cason, Signore galantuomo e curioso, “Corriere delle alpi”, 10 aprile 2018, p. 17. [↩]
- Ferruccio Vendramini, Scuole elementari e scolari di Borgo Pra di Belluno, “Dolomiti”, 2017, n. 3, pp. 7-19. [↩]
- Id., Mio padre era un Imi, “Protagonisti”, 110, 2016, pp. 63-81. [↩]
- Giuseppe Gioachino Belli, I Sonetti, 815 Li morti de Roma, 23 gennaio 1833. [↩]
maurizio angelini dice
Ho cominciato a leggere della Resistenza negli anni Settanta, mi sono subito innamorato della Resistenza Veneta; allora ci sentivamo un po' inferiori, che so, alla mitica Emilia Romagna o alla Toscana, ma nella Resistenza no, almanco quela… Ricordo un libretto di Ferruccio, pubblicato dagli Editori Riuniti, dedicato a Checco Da Gioz, un minatore comunista ad Albona negli anni Venti, poi un emigrante politico in Francia, poi partigiano adulto ed eroico nella sua terra, nato alle Roe di Sedico e impiccato al Mas di Sedico: ogni volta che vado verso Agordo cerco con lo sguardo la lapide che lo ricorda. Devo tutto questo a Ferruccio, che ho conosciuto di persona, dopo averlo letto come storico e come corrispondente bellunese de "L'Unità", il posto che aveva avuto prima di lui la Tina Merlin. Fra l'82 e l'85 ho vissuto e lavorato a Belluno e l'ho apprezzato: colto, modesto, troppo modesto, grande ricercatore e organizzatore, in quegli anni animava anche Radio Val Belluna. Ti ho sempre stimato e ammirato, adesso mi intristisce la tua morte, uomo buono, corretto, un compagno, che bella parola, una parola vera e piena. Sani, Ferucio.
Pitteri Mauro dice
Il 6 aprile, assieme a Roberto Bragaggia, sono andato a Belluno per salutare Ferruccio che presentava il suo ultimo libro “La Scuola a Belluno nel Novecento. L’esperienza di Antonio Pastorello direttore didattico dal 1904 al 1926”, per la Cierre. Nel vederci, Ferruccio si è commosso, e ha abbracciato Roberto, come se sentisse fosse un saluto di commiato. Io gli ho fatto una stupida battuta di circostanza, “Sei proprio infaticabile” e lui mi ha risposto solo con lo sguardo, come a dirmi che la fatica la sentiva eccome. Durante la presentazione si è sentito male mentre tentava di dire qualcosa sul perché dell’adesione di alcuni al fascismo bellunese. Non è riuscito a terminare il discorso ma è rimasto lucido e ha continuato a prendere appunti e perciò in platea non ci siamo allarmati pensando fosse l’emozione. E invece…
Ciao Ferruccio.
Renato Vecchiato dice
Emozionato.
Un profilo pieno di umanità che disegna, in modo magistrale, la figura di Ferruccio Vendramini.
Ho avuto anch’io il privilegio di conoscere Feruccio Vendramini prima da lettore di alcune delle sue tantissime opere e di persona come semplice “volontario della memoria” e socio ISBREC.
Ho avuto anche l’ardire di coinvolgerlo come co-autore di un libro su un giovane tenente pilota veneziano (Alvaro Bari) e altri protagonisti di quei drammatici giorni della prima estate del 1944 e lui non si è sottratto anzi è stato, con la sua cordiale gentilezza, generoso di commenti.
Sottoscrivo questa frase :«L’elenco dei lavori che ha pubblicato dal 2008 a oggi è così cospicuo da lasciare a bocca aperta anche chi sappia, e lo sanno tutti quanti lo conoscano, che Ferruccio sta sempre studiando qualcosa. Sempre»
Spero che il prossimo numero della “sua” rivista dell’ISBERC, tra i vari interventi , ripresenti l’aggiornamento della sua bibliografia perchè è bene che tutti gli appassionati di storia trovino in quell’elenco il sentiero delle sue ricerche e permetta loro di ripercorrerlo, anche se per brevi tratti, utilizzando la sua guida.