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L’8 settembre, la Resistenza a Mestre e un banjo. I ricordi di un figlio

23/09/2017

di Daniele Zuccato

Presentiamo il testo dell’intervento che Daniele Zuccato ha tenuto qualche anno fa alla seconda festa di storiAmestre. Un banjo conservato in casa testimonia un’amicizia nata in tempo di guerra durante le vicende della Resistenza a Mestre. Il testo è stato rivisto per l’occasione. Le foto sono dell’autore.

Un banjo che conservo a casa mi ricorda una storia che si è svolta nel triste periodo della seconda guerra mondiale e in particolare in quel difficile momento che va dall’8 settembre 1943 fino alla conclusione del conflitto.

      

I due protagonisti principali sono mio padre, Tullio Zuccato, nato il 29 luglio 1922, e il signor Giovanni Pagan detto “Nino”, di qualche anno più vecchio. La storia racconta di come essi condivisero una situazione drammatica, da cui nacque una profonda e duratura amicizia che si protrasse fino alla fine degli anni Sessanta, quando il signor Pagan venne a mancare.

Nel 1942 Tullio, mio padre, venne mandato in Russia, ma non ci arrivò mai, in quanto la battaglia di Stalingrado infuriava più che mai e, per i tedeschi, gli alleati italiani, poco equipaggiati e con armamento inadeguato, erano un fastidio, piuttosto che un valido aiuto.

Di conseguenza spesso gli italiani dovevano scendere dai treni e avviarsi al fronte con mezzi di fortuna o a piedi. Qui il racconto di mio padre è un po’ lacunoso e impreciso, egli infatti non seppe mai indicarmi dove si trovava di preciso e cosa accadde, ma quel che è sicuro è che ebbe una grave forma di congelamento con conseguenze cardiache così gravi che, in coma, venne portato in vari ospedali e successivamente trasferito in Italia all’ospedale militare di Trieste.

Da questo momento, la sua vita cambiò per sempre.

Dovendo rimanere per molto tempo a letto ed essendo una persona amante della cultura, occupò molto del suo tempo a leggere, e – stando a quel che mi raccontò – passò dalla lettura dei classici dell’Ottocento (Hugo, Tolstoj, Dostoevskij) alla quella di saggi scientifici prima, ed economici poi, pervenendo probabilmente alla conoscenza delle teorie socialiste. Da quanto ho capito, i medici dell’ospedale di Trieste cercarono di prolungare a lungo il suo stato di malattia e quello di altri giovani come mio padre, evitando così che fossero rimandati al fronte.

Durante un bombardamento notturno un aeroplano inglese venne abbattuto e due uomini dell’equipaggio, uno dei quali era marconista, vennero inviati all’ospedale militare di Trieste.

Anche se con difficoltà i due prigionieri inglesi vennero avvicinati da molti degenti, tra i quali mio padre, che fece amicizia con un marconista, un certo Harry, che io conobbi più tardi, quando negli anni Settanta venne a trovarci. Da Harry imparò i primi rudimenti dell’elettrotecnica e qualche frase inglese, oltre forse a qualche informazione di tipo bellico.

Era questo un momento sereno, i giorni passavano tranquilli, con cibo sufficiente, in un clima abbastanza rilassato e la guerra sembrava lontana. In luglio – Mussolini era già stato arrestato e si diceva che la guerra fosse alla fine – mio padre venne dimesso dall’ospedale e inviato a casa con un documento che lo qualificava come “militare in convalescenza”.

A questo punto la narrazione si perde e ritroviamo mio padre a Mestre. Stando ai suoi racconti, si costruì una piccola radio a galena con la quale riusciva, di nascosto, a ricevere Radio Londra che diffondeva informazioni circa l’andamento della guerra e brevi comunicati in codice nei quali informava di eventuali bombardamenti aerei sulle città italiane. Forse mio padre aveva ricevuto alcune informazioni da Harry? Me ne parlò, ma non ricordo più quale fosse il nome assegnato a Mestre, ricordo solo che la frase “cani e gatti” indicava un imminente bombardamento aereo. Con queste informazioni, Tullio passava notizie ad amici e conoscenti, c’era un passaparola e forse questo gli permise di essere conosciuto in certi ambienti.

Mio papà aveva ben presente il ricordo dell’8 settembre 1943, quando un piccolo gruppo di soldati tedeschi, ancora in divisa dell’Afrika Korps, giunsero a Mestre e devastarono il Distretto militare in via Poerio per poi proseguire verso le fabbriche. Mio padre con altri mestrini si introdusse nel Distretto e si autotimbrò il certificato che lo dichiarava in convalescenza (“con tutti i timbri possibili…”, diceva lui).

Questa cosa gli salvò spesso la vita, quando, una volta diventati padroni della situazione, i tedeschi lo fermarono per poi lasciarlo sempre libero.

Erano quelli periodi bui, molti giovani sparivano reclutati dai tedeschi, anche i fascisti repubblichini non risparmiavano sofferenze alla popolazione e, mentre alcuni prendevano la strada della lotta partigiana, spesso si intensificavano azioni di rastrellamento e controllo sulla popolazione e qualcuno venne ucciso.

Tuttavia mio padre poteva muoversi con una certa libertà, perché risultava sempre “militare in convalescenza” e di questo approfittarono alcuni antifascisti che erano passati alla lotta clandestina. Mio padre infatti venne avvicinato da De Bei, figura leggendaria della lotta partigiana a Mestre, che gli chiese sia di mantenere l’ascolto di Radio Londra, sia di svolgere compiti di collegamento trasportando materiali per le formazioni partigiane che combattevano nell’entroterra e sull’altipiano di Asiago.

Proprio durante una di queste azioni si svolge la nostra storia. Probabilmente il periodo era quello del settembre-ottobre ’44, e mio padre venne incaricato di trasportare alcune munizioni alla stazione di Mestre. Era un compito pericoloso e se scoperti si veniva fucilati immediatamente.

Così una mattina mio padre prese le munizioni, le nascose sul fondo di una cassetta che era agganciata alla bicicletta e le ricoprì con dell’uva.

Passò davanti l’attuale “Istituto tecnico Pacinotti” e si avviò verso il centro percorrendo via Caneve; aveva appena curvato a destra, quando si accorse che davanti alla corte del Castello c’era un posto di blocco tedesco, dove si era formata una breve coda, non si poteva tornare indietro e prima o poi l’avrebbero fermato e perquisito, si poteva solo sperare che la perquisizione fosse superficiale.

All’improvviso da una casetta a sinistra della via, si aprì una porta e un signore uscì, avventandosi contro mio padre dicendo a voce alta che era in ritardo, cosa aveva fatto fino a ora apostrofandolo sotto lo sguardo divertito dei tedeschi.

Mio padre, preso alla sprovvista non sapeva cosa dire, intanto quel signore lo trascinò letteralmente dentro casa, con la bicicletta tra le risate divertite di tutti.

Una volta in casa quel signore che era Giovanni “Nino” Pagan spiegò a mio padre che aveva fatto quella sceneggiata per evitare che passasse il posto di blocco, in quanto conosceva l’attività di mio padre attraverso altri conoscenti che erano stati informati del fatto che egli avvertiva molte più persone possibili degli imminenti bombardamenti aerei su Mestre. Per Nino era questo un modo per ricambiare ed egli stesso rimase esterrefatto quando scoprì cosa mio padre in realtà nascondeva. È da precisare che Nino non era un antifascista, ma era fortemente arrabbiato con il fascismo, in quanto era un musicista amante del jazz e proprio per questa sua passione era stato sospeso dal lavoro e quindi in ogni modo cercava di opporsi al regime.

Tra Tullio e Nino nacque una profonda amicizia che si intensificò ancora quando finì la guerra e a Mestre si fermarono le truppe alleate, tra le quali il jazz era non solo ben visto, ma suonato nelle varie orchestrine. Nino spesso andava a suonare accompagnato da mio padre con le relative fidanzate e, come avviene nel mondo della musica e dei giovani, si scambiavano non solo esperienze, ma anche doni. Nino ricevette da uno sconosciuto soldato di colore una chitarra banjo.

    

Dettagli del banjo (fronte e retro)

Intanto l’Italia piano, piano ripartiva, si ricostruivano le fabbriche, le case, le scuole e si riprendeva la vita di ogni giorno nella speranza di un futuro migliore. Io nacqui nel settembre del 1954 e abitavo a qualche centinaio di metri dalla casa di Nino che nel frattempo si era sposato e aveva già avuto una figlia: Luciana.

Spesso ci si trovava tra famiglie, magari per andare al bar (l’unico posto con il televisore) a vedere “Lascia o Raddoppia” e piano, piano Mestre cambiava, si iniziava a vedere qualche automobile e alcune strade venivano asfaltate.

Io iniziai ad andare a scuola alla elementare “Edmondo De Amicis” e tutto procedeva tranquillamente. Ma una notte mio padre venne chiamato dalla moglie di Nino e questi venne ricoverato in ospedale per un ictus. Mi ricordo ancora che quando venne dimesso camminava trascinandosi con una sedia. L’amicizia con mio padre si intensificò ancora di più e spesso ci si trovava tutti assieme.

Fu in una di queste occasioni che Nino prese il suo banjo e me lo regalò nella speranza che io diventassi un musicista.

Questo suo desiderio, purtroppo rimase tale e anche dopo la sua morte, malgrado io abbia tentato più volte, non riuscii mai a suonarlo; tuttavia ho tenuto con me questo strumento musicale che rappresentava il simbolo di un amicizia nata da un istinto di gratuito altruismo. Poi con il tempo capii che forse questo strumento rappresentava di più, forse era anche il simbolo di un futuro migliore nato dalle ceneri dell’odio razziale e fondato sulla collaborazione e l’amicizia tra gli uomini e di cui forse la musica sarebbe stata il dono e il legame più grande.

Ecco perché tengo quasi con una custode religiosità questo prezioso dono, forse nella speranza che quanto detto sopra possa un domani veramente avverarsi e questo è forse il senso per cui oggi, ormai vecchio in una città diversa, mi sento in dovere di raccontare questa lontana ma ancora attuale breve storia.

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