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“Tutti precari, tutti peccatori”. Lavorare “a voucher” per un istituto religioso

03/12/2016

di Giulio Vallese

Il nostro amico Giulio Vallese ci ha mandato un breve resoconto di una sua recente esperienza lavorativa presso un noto istituto religioso di una cittadina del Nordest. Discussioni con l’amministrazione, nessun obbligo di contratto, pagamenti in voucher, uscire da un tabaccaio con una mazzetta di banconote.

Un palazzone di quattro piani, largo un centinaio di metri, occupa l’orizzonte. Le numerose finestre compongono enormi crocefissi. È la sede di un rinomato istituto religioso. Sono lì per un colloquio di lavoro, cercano uno che sappia le lingue per il doposcuola. Dovrei cavarmela, penso, il curriculum è in regola e poi ho fatto il chierichetto per anni, conosco l’ambiente. Giacca, scarpe eleganti e taglio dai cinesi sotto casa, che non sono certo cattolici ma a cui viene naturale quell’acconciatura demodé da membro del politburo – ideale, penso, per far bella figura coi preti. Mi avvicino all’entrata e noto un paio di elementi posticci: il bugnato rinascimentale che decora l’intero piano terra e il portone di legno borchiato in stile medievale.

F., il responsabile del doposcuola, una specie di Gesù quarantenne, mi presenta il doposcuola come il fiore all’occhiello dell’istituto, non solo compiti per casa ma un’esperienza educativa completa rivolta in particolare ai ragazzi più in difficoltà. Paga discreta, contratto a progetto e chissà, l’istituto è grande – mi fa capire – da cosa nasce cosa…

Ogni mese passo in segreteria, firmo e ritiro il mio voucher che è un semplice scontrino in carta termica come quello del supermercato con in alto il logo dell’INPS (a cui va il 13% nella gestione separata e il 5% per la gestione del sistema dei voucher), del ministero e dell’INAIL (a cui va il 7%), la scritta in grande BUONO LAVORO che suona grottesca, una serie di codici e numeri tra cui fondamentale la cifra da incassare (un multiplo di 7,5 €), le istruzioni per incassare e in fondo il logo della ITB, la cosiddetta banca dei tabaccai, che gestisce l’aspetto finanziario.

Con il voucher e il codice fiscale passo da un qualsiasi tabacchino convenzionato che me lo cambia in contanti. “Comodo no?”, mi fa la segretaria quando la prima volta mi spiega il meccanismo. Forse ne è convinta, le sembrerà davvero una roba moderna, easy, smart, del tipo che sei fuori con gli amici e, “spèta un attimo, vado dal tabacchino a incassare i voucher, serve qualcosa?”. Altro che easy, è una rogna. Il tabacchino entra anche bene nella parte del bancario che ti conta le banconote, ma è una questione di contesto: la gente s’incuriosisce, ti senti osservato, “avrà vinto all’Enalotto?” – il terminale d’altra parte è lo stesso. Una sera mi è parso che un cliente uscendo mi seguisse.

A dire il vero, ho anche una specie di contratto, è un pizzino: una strisciolina di carta con il mio nome e dei numeri che corrispondono alla cifra che mi spetta ogni mese.

È l’unica prova scritta di un lavoro continuativo fatto passare per occasionale. Per questo il compenso cambia sempre e sembra un messaggio in codice. Il colmo è che l’idea del pizzino è frutto di una mia provocazione durante l’ennesimo colloquio per ottenere il contratto millantato inizialmente. Questa volta riesco a parlare direttamente con l’economo – parola che mi suona esotica – dell’istituto, un prete in borghese: dopo avermi spiegato che era precario anche lui, un po’ come “siamo tutti precari, siamo tutti peccatori”, e la crisi e il giobsact e “l’importante è fare il bene dei ragazzi che vengano promossi, non il contratto o la paga”, ho sbottato: “almeno datemi un pizzino con su scritto quanto mi spetta ogni mese”. Pensavo che si sarebbe offeso per l’accostamento non troppo velato all’ambiente mafioso e invece niente, ha colto la palla al balzo annuendo con soddisfazione. Il giorno dopo il Gesù quarantenne mi chiama in disparte e mi consegna, rapido e serio, il pizzino.

Incredibile, penso. Non che sia così ingenuo da pensare che i preti siano immuni dal raggiro, ma mi sorprende che un rinomato istituto religioso ricorra a tali sotterfugi. Chissà cosa succede da altre parti. Eppure, quella che mi sorprende come una clamorosa contraddizione forse è solamente l’onda lunga di un vizio d’origine. Ripenso agli elementi posticci osservati sulla facciata del palazzo, al bugnato e al portone di legno finto antico e mi sembra di trovare una coerenza con i voucher. Sono tutti elementi che servono a conferire pregio a cose di tutt’altra natura: i primi a dare valore a un palazzo sgraziato, gli ultimi, attraverso l’uso di una parola straniera positiva (un buono, appunto) a edulcorare la realtà di un lavoro mal pagato e senza diritti. Col senno di poi, una maggiore attenzione ai dettagli mi avrebbe evitato inutili sorprese.

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