di Matteo Melchiorre
È il 24 dicembre. Pubblichiamo un capitolo natalizio tratto da un libro inedito di Matteo Melchiorre – libro destinato, con tutta probabilità, a restare inedito. Ne abbiamo chiesto a Matteo le ragioni. Ci ha risposto che si tratta di un libro in cui vi sono ancora troppe cose da decidere. Il dubbio più grande è il protagonista. Potrebbe essere scambiato per un moralista, invece non è che un poveraccio, disilluso e incattivito. Più guarda il mondo, più si incattivisce, più annota ciò che vede, meno capisce, si contraddice, si offende, si inalbera. Uno screanzato. Vede nemici tutto attorno e li chiama Farisei. Ci scrive Matteo: “Per questo dico che il libro resterà nel cassetto. Vorremo mica sguinzagliare per il mondo un personaggio convinto che si possano distinguere i buoni dai cattivi?”. Nel testo compare un avvocato. È il confessore del protagonista.
Ormai da quasi dieci anni c’incontriamo in una ventina di amici la vigilia di Natale. Aspettiamo mezzanotte mangiando e bevendo. Non s’immagini chissà che lussi avvocato. La cena si svolge infatti in un’osteria del centro; l’osteria Garibaldi, ha presente?
L’istituto conviviale nacque nel 2004. Il giorno della vigilia le musiche di Natale andavano en plein air, i cavalli sbuffanti nel gelo tiravano le carrozze di bambini, le luminarie da un capo all’altro delle vie luccicavano, le piazze erano piene di gente, le giacche ben chiuse, le sciarpe, i berretti, i campanelli, l’isola pedonale. Noialtri, eravamo forse una decina, ci chiedevamo come onorare un tale generalizzato tripudio. Si decise di andare a mangiare una pizza fuori città. Niente di più. Sennonché la serata prese il volo. Fu la migliore delle vigilie. Molto dopo mezzanotte – e non ricordo da chi sia stata pronunciata la parola che fondò in seguito la tradizione – qualcuno disse: «L’anno prossimo ripetere».
A quella cena primigenia c’era un nostro amico di nome Max. Era un valentissimo podista, pluripremiato. I suoi comportamenti, a folate, erano dettati da insondabili estremismi caratteriali. Fatto sta che una mattina d’estate andò a correre in montagna. Morì lassù, scivolando da una costa. Degli escursionisti trovarono il suo zaino. Una simile tragedia ci lasciò sgomenti, increduli, agnostici più che mai, disincantati. Ma le cene della vigilia, negli anni successivi, continuarono lo stesso.
La cena della vigilia, oggigiorno, è un rituale parecchio formalizzato. Lo zoccolo duro dei presenti rimane quello del 2004, ma di vigilia in vigilia si aggiungono cosiddette new entries. Decidere chi sì e chi no è compito delle figure istituzionali. Al vertice della cena sta il Presidente. Il suo compito consiste nel raccogliere i nominativi degli invitati, nel prenotare per tempo il locale, nell’annunciare verso inizio dicembre l’avvicinarsi del ritrovo e nel dare via via tutte le indicazioni del caso.
Sotto il Presidente si trova il Senato della cena della vigilia, un’assemblea composta da quanti abbiano preso parte a ognuna delle cene negli anni precedenti. Il Senato collabora col Presidente e ne ratifica le decisioni.
Da ultimo c’è il Cassiere della cena della vigilia. Quest’ultimo, carica elettiva e rinnovata ogni anno, riscuote un tot di euro a invitato e gestisce la conseguente somma per le spendite della serata.
Anche i locali e i ritmi sono definiti. Il ritrovo è tra le ore 18.00 e le ore 19.00 al pub Camelot, dove si bivacca per due ore all’incirca. Alle 20.30 inizia la trasferta. Usciamo dal pub e camminiamo attraverso il centro, nel frattempo svuotatosi della fregola natalizia pomeridiana, diretti all’osteria Garibaldi. Vi entriamo in genere poco dopo le 21.00. È un vecchio locale con solide tradizioni di sinistra. Nei primi tempi non pochi tra noi recalcitravano all’idea di trascorrere la vigilia nell’osteria dei comunisti, ma col tempo le cose cambiarono. Negli ultimi dieci anni (ne ignoro il perché) le tradizionali categorie politiche dei bar hanno infatti perso significato e pregnanza; sono andate in frantumi, sparpagliate e rimescolate come le carte di un mazzo.
Primo, secondo, contorno, dolce e caffè; vino rosso e vino bianco. A mezzanotte meno venti ci alziamo dal tavolo e andiamo al banco del Garibaldi per la scelta delle grappe: asperula, genziana, liquirizia, ginepro e così via. A mezzanotte, sotto con gli auguri. C’è sempre qualcuno che vuol baciare la cameriera dell’osteria. Liquidati i conti alcuni tornano a casa, altri si fermano il tempo di una sigaretta e altri ancora s’inoltrano nella notte.
La vigilia di cui sto per parlarle mi colse, come le ho già anticipato, nelle condizioni più confuse. Le settimane dell’Avvento erano bastate a pormi davanti il Fariseismo in variante natalizia. L’esagitazione era massima. Ero tirato come la corda di un violino. Ragion per cui aderii alla cena della vigilia nella speranza di una serata fuori dell’ordinario, che possibilmente mi distogliesse dai pensieri.
Entro dunque al pub Camelot alle 19.00. Dei miei non c’è nessuno. Poi una ragazza, mai vista prima, mi chiede se sono qui per la cena della vigilia. Apprendo che è una neofita, invitata quest’anno la prima volta da uno dei Senatori. Benissimo. Poi arriva un ragazzo robusto e dall’aria decisa. Non lo conosco. Dice che l’anno prossimo andrà in Islanda.
Gli invitati alla cena della vigilia, verso le 20.00, sono quasi tutti raccolti al pub. È arrivato il Presidente il quale, dopo le strette di mano, ci sorprende subito con un annuncio shock: dimissioni. Sono anni, dice, che organizza la cena della vigilia. Forse è ora di cambiare, di portare nuove idee, nuove soluzioni. L’episodio è grave. A fine cena, per scrutinio segreto, si dovrà eleggere un nuovo Presidente.
Mentre cominciano gli abboccamenti pre-elettorali, presto orecchio ai discorsi di un gruppetto di ragazzi. Uno di loro torna or ora dal Kent. Cosa è andato a fare nel Kent? Il barman. La sua specialità sono i cocktails. A quel punto mi viene su quel briciolo di fastidio. Cosa ti bulli che, barman, se sei andato nel Kent per nient’altro che shakerare? Non senti, poi, che usi nel tuo eloquio, è lo stesso anche se risiedi nel Kent, le borie retoriche dei Farisei nostrani? Fatto sta che mi vien voglia di dirgli in faccia quel che si merita. Ma sono bravo e costumato. Esco dal pub a leggere manifesti.
Sono dunque all’esterno del Camelot a leggere manifesti. Quand’ecco passarmi di fronte una coppia che si tiene per mano. È la ragazza a chiamarmi per nome col più grande stupore. La riconosco al volo: «Mariagrazia! Proprio tu in carne e ossa? Da quanto non ci vediamo? Quattro, cinque, sei anni?».
Questa Mariagrazia, ebbene, si è laureata in architettura. Subito al volo, quasi di slancio, è andata a Parigi. Ha trovato lavoro in uno studio a sua detta importante. Il ragazzo che è con lei, il suo compagno, ha fatto altrettanto. Entrambi lavorano dunque a Parigi. Si ritengono ben pagati. Dice Mariagrazia che a suo tempo era partita per tornare. Ma adesso, con l’aria che tira, non intende ritornare proprio per niente. Lei e il compagno vengono qua giusto per le feste, e ogni tanto d’estate. «Ma tu» mi chiede Mariagrazia «cosa fai ancora qui?».
Cosa faccio ancora qui? Che domanda è? Rientro al Camelot con questo dubbio, cui non ho risposto; sennonché, aprendo il pacchetto di sigarette e sorridendo, ne esce un amico che ora vive e lavora a Bologna. È sempre un piacere discutere con lui. Ha il dono della sottigliezza. Mi dice che manca ancora uno dei nostri, a completare il numero della cena. Chi è che manca? Paolo manca. Paolo? Sì, ma ha scritto un messaggio dicendo che in pochi minuti sarà qui. «Del resto è partito oggi da Vienna», dice l’amico. Vienna? Sì: pochi mesi fa Paolo ha mandato in Austria un’application per un lavoro. L’hanno preso. Vive a Vienna. Alta finanza.
In un locale in cui siamo entrati dopo il Camelot, uno di noi s’imbatte in un suo amico di nome Carlo. Discutono un po’. Tiro le orecchie. Ricavo che il padre di questo Carlo si trova in India.
Percorsi esistenziali da fricchettoni? Macché. La sorella del qui presente Carlo, che si è laureata alla Bocconi, ha fatto le valigie e lavora in India. I paesi emergenti rendono benissimo, dice questo Carlo. Sua sorella si occupa peraltro di diritto commerciale.
Uno di noi, che aveva ascoltato con me le mirabilie della sorella di questo Carlo, fa dunque presente di avere un fratello che è stato in India. Ha fatto un dottorato in Fisica a Ferrara. Prima è andato a lavorare in India appunto, e quindi a New York; è qui, a New York, che è diventato padre. Ma adesso vive a Londra in pianta stabile.
All’uscita da questo secondo locale una ragazza sui venticinque mi tira per la giacca. È figlia di amici di casa. Come va? Bene ovviamente. Che fa? È a Berlino ovviamente. A far che? Lavora ovviamente: agente pubblicitaria. Tratta spesso con l’estero, e in particolare con l’Italia e la Spagna, ma ormai la sua base è diventata Berlino. Mi chiede perché una volta io non vada su a trovarla. L’ospitalità, dice, l’avrò garantita.
La cameriera dell’osteria Garibaldi raccoglie i nostri ordini con pazienza. S’indispone soltanto quando non diamo più retta a lei ma al bagoletto tra un Senatore e sua morosa. La ragione di quel dolce bisticcio? Lei si è laureata da un paio di mesi in non so che cosa, e va dicendo proprio ora che il suo proposito per l’anno nuovo è quello di andare a lavorare all’estero. Il moroso: «E mi lasci qui allora?». Infastidendo fin troppo la cameriera, ho buttato benzina sul fuoco, suggerendo all’amico di andarsene anche lui, a questo punto; in Ungheria magari, dove le donne sono bellissime. Hanno riso tutti e due, lui e la morosa, guardandosi negli occhi.
Qua ci sono dunque frotte di miei coetanei e quasi coetanei che se ne vanno o vogliono andarsene. Pare si siano dati appuntamento questa sera per farmelo presente. Non sono chiacchiere dei giornali. È in corso una specie di dissanguamento. L’ho sempre detto. Nelle città di provincia arrivano soltanto i fenomeni sociologici consolidati. Quando arrivano vuol dire che hanno già impestato l’intero paese.
Non saranno emorragie come ai tempi dei bisnonni in Brasile e in America o dei nonni in Svizzera e in Belgio, ma una fuoriuscita costante di under 35. Posso capirlo. Ci sono di mezzo la disperazione, l’assenza di prospettive, il desiderio salutare di imparare a fondo un’altra lingua, l’obiettivo di dar forma alle proprie ambizioni secondo le leggi del vero merito; ma anche in questo, come in ogni fenomeno di massa, rientra l’allettamento della corrente, la seduzione dell’orecchiato. Ormai sono storie che si sentono. Arrivano tutte insieme con le feste natalizie, come portate da babbo natale. Per qualche giorno ti lasciano interrogativo. Dopodiché, con l’epifania, anche queste storie vanno via.
Un momento. Non ci sarà, in questa retorica delle valigie, un pelo di Fariseismo? Questa faccenda che basta andarsene per cogliere la felicità e il successo non poggia su alcuni principi dei Farisei? Può essere. Ma questo, se lo è, è un Fariseismo di altra specie. Fariseismo snob? Fariseismo da provinciali che qualsiasi altrove è meglio del qui? Non posso non notare, del resto, che la fissa dell’estero come bengodi-cuccagna è una rubrica assai presente nel pacchetto ideologico dei Farisei. Essi, tuttavia, dicono estero qua ed estero là, ma è molto raro che alzino i tacchi e vadano da qualche parte. I loro figli piuttosto. Loro sì che fanno week-end europei, safari africani, spedizioni in Thailandia, emigrazioni metropolitane. Vuoi vedere allora che la fissa dell’estero – con conseguenti pratiche di espatrio – è una manifestazione dei Farisei di seconda generazione?
Aspetta. E io? Io non vado mica in giro per il mondo. Va bene che a suo modo è una scelta ponderata, ma non sarò mica, proprio io, nientemeno che un Fariseo di prima generazione? La sola idea mi fa tremar le gambe. Rinnova le antiche ansie e ben peggio: mi pone di fronte all’ipotesi che io sia passato tra le fila del nemico. E così, nel bel mezzo della festa, eccomi piombato non dico nello sconforto ma nella rabbia, una rabbia doppiamente velenosa. Nel corso di una cena natalizia tocca dissimularla per creanza.
L’osteria Garibaldi non capisce più di 40 persone per volta. Oltre che per la nostra c’è spazio soltanto per un’altra tavolata, da una ventina di persone. Ogni vigilia, in osteria, ci siamo noi e ci sono questi dell’altra tavolata. Anche loro, grossomodo, sono sempre gli stessi. Eppure non scambiano con noi mezza parola. Neanche gli auguri. Li vedi bene del resto come son fatti. Merda in cashmere.
Una selezione dell’élite adolescenziale che sul finire degli anni Novanta era sulla cresta dell’onda nei locali e nelle strade del centro non potrebbe essere più accurata. Avevano le ragazze più desiderate, le moto migliori, le macchine nuove, i capi firmati. Erano qualche passo più avanti in ogni cosa. Impregnavano di sé i locali giusti. Pur comportandosi in tutto e per tutto come i coetanei – crapula spinta – avevano un qualche distintivo interiore in virtù del quale le loro azioni avevano un che d’immancabilmente superiore, irraggiungibile.
Questi cancheri firmati a respirarci ancora sul collo, dopo quasi vent’anni? Anche questo è troppo. È mai possibile che professino ancora simili e ingiustificatissime borie? Altro alimento per la rabbia. Rabbia che alla vigilia di Natale non sta bene neanche un po’. Dovrei essere buono, brilluccicoso, ravvedermi come Scrooge. E invece sarei prontissimo ad alzarmi e a sputare dritto nel piatto di costoro.
Dato che in una piccola città si conoscono più o meno tutti i coetanei o quasi coetanei, sono certo di poter verificare che i nostri vicini di tavolata sono Farisei.
I cancheri firmati sono un pelo più vecchi di noi. Avranno 40 anni. Le loro compagne, salvo un paio di più anziane, sono sui 25-30 anni. Abitano tutti nel centro città. Stanno seduti svaccati, ma senza esibire il minimo segno di grettezza. Sono molto attenti all’abbigliamento, e ognuno di loro modella la propria parvenza secondo quanto gli suggeriscano l’estro e il talento. C’è quello con un paio di jeans, una camicia e un girocollo tinta unica. C’è una ragazza assai piacente, con una gonna nera, lunga e morbida, i capelli castani, il trucco luminoso come a dire natalizio. C’è il tipo estroverso che indossa un pantalone di velluto chiaro, una camicia attillata, un gilet aperto da sottogiacca, una cravatta rossa. C’è il tale in giacca scura e camicia bianca, ma senza cravatta. E c’è anche quella tipa dai capelli arruffati (artatamente), il volto senza trucco (a ragion veduta), un ampio maglione di foggia sciatta (sartoria trendy) e pantaloni militari di nota griffe. I cancheri, così attenti alla propria immagine esteriore, non fanno schiamazzo. Bevono vino atteggiandosi a grandi bevitori. Millantano, mangiando, appetiti pantagruelici. Ma non eccedono in alcun modo. Giocano. Ho l’impressione che non si divertano poi molto.
Fra i cancheri ci sono principalmente notabili figli di notabili. Essere figlio di qualcuno, in una piccola città più che altrove, può voler dire parecchio e funzionare da credenziale per la cooptazione in una compagnia di amici. Ma al di là della genitura notabile, servono poi le conferme individuali di quanto ereditato col sangue e col censo.
Aver svolto un praticantato legale, per esempio, sembra essere sicura chiave d’accesso al tavolo delle qui presenti merde in cashmere. Non si rabbui avvocato; il vostro è un mestiere nobile e necessario ma io non posso fare a meno di notare, sulla tavolata dirimpetto, quattro giovani avvocati, due dei quali figli di avvocati. Altrettanti sono i figli di medici ospedalieri. L’uno si occupa d’informatica e l’altro di donne in età. Ci sono quindi altri membri dell’élite cittadina. È il caso di una mora dai capelli rasati, figlia di un vedovo, notissimo possidente immobiliare, che dopo studi universitari all’insegna della creatività vive agiatamente delle rendite paterne. C’è un altro la cui famiglia possedeva un negozio nel centro del centro, negozio chiuso dopo tantissimi anni di rispettato servizio proprio per la reticenza di questo canchero a farsene carico. È andato a lavorare nel campo della moda, in qualche metropoli. C’è infine un bel ventaglio di figli di soggetti in vista nell’economia locale: la figlia del titolare di una grossa azienda di autotrasporti; il figlio dell’amministratore delegato di una grandissima azienda del posto; la figlia di un banchiere. Tre o quattro dei cancheri, infine, non sono figli dell’establishment tradizionale. Per qualche dote, pur partendo da posizioni sociali dissimili, benché comuni nel domicilio in centro, sfruttando gli ultimi tempi in cui una laurea professionalizzante voleva dire ancora qualcosa (metà anni Duemila), sono stati cooptati nell’upper class di cui questo gruppo vorrebbe essere una frangia giovanilista e di pretese goderecce.
È dunque chiaro. I cancheri, che dominavano da adolescenti, si sono tramandati costituendo un gruppo scelto. Farisei senza dubbio.
La nostra tavolata ha invece un profilo assai diverso. Noi siamo tutti quanti paesani. Il che significa venire dalla “campagna”, dai molti paesi che stanno intorno a questa piccola città. I paesani, almeno nella minore età, stanno coi paesani. Chi frequenta gente di città, al tempo metti caso della scuola media, passa nei paesi per uno scapestrato, per uno che finirà bruciato. In seguito ci si mescola. Le persistenze culturali della giovinezza di paese, tuttavia, restano scolpite nell’animo. Più passa il tempo, e con maggior evidenza raggiunti i trent’anni, e più si chiariscono i frutti di un’operazione d’inconsapevole scrematura sociale. È come se si ritornasse nel campo di una calamita: i paesani coi paesani e i cittadini coi cittadini. Ecco dunque che il gruppo della nostra cena è oggi integralmente composto da paesani. Siamo però un’accurata selezione. Non veniamo mica dallo stesso paese, per tacere degli emigrati; siamo una specie di delegazione distrettuale.
Nella storia medievale e moderna di questa città il potere era detenuto da un patriziato cittadino composto da notabili, proprietari fondiari e da mercanti. Il patriziato cittadino era questo. Ho letto nelle carte d’archivio che il patriziato urbano non godeva di grandi stime nelle campagne. Si vedevano nei cosiddetti “nobili” il sopruso, il benessere ingiustificato, l’ereditarietà del privilegio, il gruppo al potere. Viceversa, secondo il patriziato, i paesani erano l’ignoranza incarnata, la furbizia traffichina, la crapula disgustosa, l’irrazionalità indominata. Correvano inimicizie, reciproci confini, sospetti. Va ben questi sentimenti nel ‘300, nel ‘400, nel ‘500 e così via. Ma alla cena della vigilia del 20**? Non fa un po’ strano ritrovarli?
Certi feudalesimi, invece, si tramandano. I cancheri sono il patriziato e noialtri il ceto popolare-paesano. Non mi pare un fenomeno sociale trascurabile. Credevo che quei tempi fossero finiti. La scuola, l’università e gli anni in cui si costruiscono le proprie aspettative riempiono d’energia e di slancio. Aspetti il levarsi di quel domani in cui tu, grazie alla fatica spesa a lavorare giorno per giorno o a studiare con il massimo ardore, darai uno schiaffo a quella merda in cashmere facendole capire che la nobiltà è dell’animo. Ma poi, trascorsa quell’epoca, si prende atto, appunto, di come certi feudalesimi si tramandino.
Sgusciando fuori da queste riflessioni trovo il Presidente dimissionario con il fuoco negli occhi. Scuote la testa, indica col mento i cancheri sull’altra tavolata. Dice: «Che poi ci sono anche questi qua. Veramente. Sono sempre loro di una volta».
Dico allora al Presidente che tutte le loro opere i Farisei le fanno per essere ammirati dagli uomini, e che amano posti d’onore nei conviti.
Secondo il Presidente, stando così le cose, l’anno prossimo dovremo occupare l’osteria Garibaldi. Proprio così, al grido di: «Portiamogli via il mangiare dal piatto». Il Presidente è dell’idea di ingrossare le fila del nostro gruppo in modo tale da far nostri tutti e 40 i tavoli dell’osteria. La borghesia, in tal modo, ne sarebbe estromessa. Il Presidente ritrova l’entusiasmo: «Mah sì!», dice. «Ritiro le dimissioni. L’anno prossimo dobbiamo occupare».
Al che mi alzo in piedi e richiamo l’attenzione: «Annuncio che il qui presente Presidente della cena della vigilia, preso atto della criticità della situazione sociopolitica particolare e generale, ritira le proprie dimissioni e si dice pronto a continuare nell’incarico».
Applausi di tutti. «Evviva Napolitano!», ha gridato qualcuno.
La cena è finita. Staziono in zona banco con la mia grappa di corniolo. Una merda in cashmere si fa sotto. A mio giudizio uno dei peggiori. Se ho ben capito vorrebbe ordinare un Martini. Allora gli giro le spalle e mi pianto in mezzo, precludendogli il banco. E lui: «Ehi barbetta: càvate!».
Barbetta? Cavarmi? Ma senti questo. Mi accarezzo la barbetta, per cominciare: «E cavarmi per far posto a chi?», domando.
«A me!», il Fariseo.
«Gira per di là e ringrazia il cielo che non sia già venuto a sputarti nel piatto!».
L’immagine dello sputacchio sulla tagliata è stato come quando il prete dice «Preghiamo», e tutti tacciono.
Che decide il Fariseo, in quel silenzio? Di spintonarmi contro il banco. Detto fatto: gli tiro la grappa al corniolo dritta in faccia, da sotto in su. (continua, forse…)