di Alberto Cavaglion
Il 6 dicembre, con san Nicolò, arriva la prima strenna di fine 2016. Pubblichiamo il testo della relazione che il nostro amico Alberto Cavaglion ha tenuto a Firenze, il 9 novembre scorso, nel corso del convegno Gli intellettuali/scrittori ebrei e il dovere della testimonianza. Come in altre occasioni, presentiamo di seguito le prime pagine di questo saggio lungo, il cui titolo d’autore è Il sistema parodico. Parodie sacre in «Se questo è un uomo»; per la versione integrale, cliccare qui.
Premessa
Nella ormai sterminata bibliografia su Primo Levi salta agli occhi la carenza di studi intorno al tema del sacro. Non esistono, nella letteratura ebraico-italiana, testi in cui una preghiera, come accade per Se questo è un uomo, sia collocata in posizione di tale preminenza, eppure gli interpreti si sono ritratti – e continuano a ritrarsi – davanti all’idea che l’agnostico Levi, l’illuminista chimico scrutatore della Materia, si sia servito della Scrittura per decifrare il Caos. Ne consegue che si sappia oggi, e venga ripetuto, con puntigliosa precisione, di quali brani dei Salmi e di Deuteronomio e di quale mirabile intarsio di versetti sia formato un componimento in origine intitolato proprio Salmo, ma s’ignori la ragione per cui Levi abbia deciso d’iniziare il suo viaggio negli inferi con un sermone sui generis, finalizzato a scopi che certo liturgici non sono, ma pur sempre modellato sul testo principale del giudaismo, quello che vale a caratterizzarlo. Una professione, anzi la professione per antonomasia: «Ascolta, Israele!».
La parodia sacra entra in scena a metà circa della poesia. I versi 17-19 – da «Scolpitele» a «figli» – sono parafrasi fedele di Deut. 6, 6-7 e fanno da preambolo. Shemà inizia con le parole «Ascolta, Israele, il Signore Dio nostro è unico» e termina con l’esortazione a trasmettere ai figli la nozione fondamentale dell’unicità di Dio.
Adoperiamo l’espressione «parodia sacra» non per mero gusto di provocazione. Contrariamente a quanto si crede, la questione delle parodie in letteratura è da prendere molto sul serio. Per sua natura – e sua storia – la parodia non è mai puramente comica. Il riso carnevalesco ha preso di mira i classici, gli auctores e non ha escluso la preghiera. La pratica medievale dell’imitazione, del contrafactum, del «sermone parodico», censita dalla storiografia positivista e approfondita dalla storiografia contemporanea1, possiede un volto burlesco e uno allegorico. Dante ne fa largo uso nel suo viaggio ultraterreno, soprattutto nella prima cantica. Ai suoi tempi il travestimento sacro non era considerato uno scandalo. Disponiamo di decine di Paternostri contraffatti, di Missae burlesche. Cavalcanti si era servito di una traduzione cortese del Quae est ista quae progreditur (Cantico dei Cantici 6, 9), reso con «Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira». Procedimenti analoghi da Ecclesiaste e dai Salmi sono merce corrente nella Commedia.
La precisazione è da estendersi al mondo ebraico. Sono presenti fin dal Medioevo parodie di preghiere, di solito associate alla festa di Purim, censite e studiate, come quelle dantesche, in età positivistica2. Quasi sempre si è trattato di passi ad alta tensione dialogico-espressiva – Giobbe o Qohelet –, ma non sono mancati stravolgimenti talmudici. Più generalmente il comico, attraverso la parodia, innerva il dialogo dell’uomo con Dio.
Primo Levi ha sempre lavorato sul nesso tragico-comico, affiancando la salvazione del capire alla salvazione del ridere; in un’intervista si sbilancia e riconosce la sua vocazione per «un riso che direi sabbatico»3. Il discorso, tuttavia, anziché ruotare, come accaduto finora, intorno alla generica etichetta dello «scrittore umorista», dovrà indirizzarsi verso un orizzonte nuovo, ancorché imprevisto, quello del sacro parodico4.
Il «sistema parodico»
A suggerire che «il tema parodico [sia] forse una delle chiavi che ci permettono di capire meglio quale tipo di narratore breve [fosse] Primo Levi» è stato Marco Belpoliti5. Prima di lui, vi è stato chi ha composto un primo regesto delle presenze, ma il discorso ha riguardato soltanto i racconti di fantasia, quelli fantascientifici prima di tutto6.
Il fascino del contrasto ammaliava Levi. Come per l’ossimoro, lo seduceva qualunque cosa mirasse alla coincidenza di opposti. Si pensi al caso celebre, si potrebbe dire da manuale, della poesia Pio, con la presa in giro di Carducci:
Pio bove un corno. Pio per costrizione,
Pio contro voglia, pio contro natura,
Pio per arcadia, pio per eufemismo.
Ci vuole un bel coraggio a dirmi pio
E a dedicarmi perfino un sonetto.
Pio sarà Lei, professore,
Dotto in greco e latino, Premio Nobel, che
Batte alle chiuse imposte coi ramicelli di fiori
In mancanza di meglio
Mentre io m’inchino al giogo, pensi quanto contento7
Più che la parodia, che per definirsi tale deve nutrirsi di una vena satirica – presente, ma non preponderante –, a prevalere è una pratica di «riscrittura» coltivata con sorprendente ossessività in tutto l’arco della vita. Nelle Storie naturali troviamo un racconto, Il versificatore, in cui una macchina prodigiosa riproduce a catena versi di poeti appartenenti a diverse epoche e generi8. Qualche cosa di analogo accade in due capitoli di Vizio di forma: Nel parco e Lavoro creativo. Nel primo sfilano in un giardino immaginario i personaggi più famosi della letteratura moderna, della cui voce Levi si fa imitatore9. Sempre in Storie naturali, nel racconto Il sesto giorno, il divertimento consiste nella giustapposizione di registri linguistici alternati10. Infine, in Vizio di forma e in Lilìt diventano bersaglio di una riscrittura comica Metastasio (In fronte scritto) e Manzoni (Le sorelle della palude), quest’ultimo già parodiato – dentro e fuori contesto – in Se questo è un uomo11. Il discorso potrebbe chiudersi qui, con un banale gioco di parole: alle origini della sua carriera di scrittore, Levi sembrerebbe obbedire più alle regole di un «sistema parodico» che a quelle del «sistema periodico».
Ma perché Levi provava una così alta simpatia per gli scrittori che riscrivono le loro trame? Perché amava far «rivivere la loro vicenda» ai protagonisti dei suoi stessi due libri maggiori, Se questo è un uomo e La tregua? Riscrivendo e riscrivendo se stesso, non adoperava, come ovvio, il lessico dei critici (parodia, apocrifo, intertestualità non sono parole che appartengono al suo vocabolario, tanto meno «palinsesto»). Più semplicemente preferiva parlare, in senso scolastico, di «svolgimento».
Degli individui – quelli reali e quelli nati dalla sua immaginazione – lo incuriosiva il destino, meglio se asimmetrico. Da notare come questi srotolamenti biografico-letterari all’indietro nel tempo non possono che avere il racconto biblico per punto di origine: «Ogni cosa che avviene è una replica, una conferma, è già avvenuta infinite volte». Un modo diverso di dire io s’intitolerà non per caso il paragrafo dedicato alla beffa ai danni di Esaù nelle Storie di Giacobbe di Thomas Mann, ripresa in un frammento de La ricerca delle radici, in cui si loda «lo svolgimento dei capitoli 25-50 del libro della Genesi»12. Giacobbe «finge» di essere Esaù, rivive in lui, come Levi fa rivivere Ulisse, imitandone la voce, per spiegare Dante a Pikolo. Il Caos della Buna rimanda sempre all’Inferno dantesco, ma l’uno e l’altro rinviano al Diluvio, che «compare in tutte le mitologie perché ogni popolo ha riconosciuto in una sua singola catastrofe una precedente catastrofe, lontana nel tempo, che a sua volta ne ripeteva una ancora più lontana, e così via all’infinito, fino agli albori dell’umanità»13.
Anche se non hanno prodotto un ciclo di migliaia di pagine comparabile con l’opera di Mann, ma soltanto alcune virtuosità stringate, talvolta ermetiche, contratte in una manciata di versi o di righe, gli «svolgimenti» biblici di Levi, parte integrante del suo «sistema parodico», sono da indagare.
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- Francesco Novati, La parodia sacra nelle letterature moderne, in Studi critici e letterari, Torino, Loescher, 1889 (ora accessibile online); Guglielmo Gorni, Silvia Longhi, La parodia, in Letteratura italiana, diretta da Alberto Asor Rosa, V, Le questioni, Torino, Einaudi, 1986, pp. 459-487; Sander Gilman, The Parodic Sermon in European Perspective: Aspects of Liturgical Parody from the Middle Ages to the Twentieth Century, Wiesbaden, Franz Steiner; Philadelphia, Coronet Books, 1974. [↩]
- Dallo stesso clima tardo-positivistico di Novati vengono fuori, in campo ebraico, le ricerche di Moritz Steinschneider, Purim und Parodie uscito a puntate su «Israelitische Letterbrode», 7 (1881-1882) e, soprattutto, Israel Davidson, Parody in Jewish Literature, New York, Columbia University Press, 1907, 2 voll. [↩]
- Primo Levi, Opere, 2 voll., a cura di Marco Belpoliti, Torino, Einaudi, 1997, II, p. 1368; Mirna Cicioni, «Un riso che direi sabbatico»: aspetti dell’umorismo di Primo Levi, «Italian Culture», 18, 2 (2000), pp. 183-193. [↩]
- Non saprei dire se Gilman (The Parodic Sermon in European Perspective cit.) parlerebbe di «parodic sermon» a proposito di Shemà: la peroratio di Levi altera il paradigma interpretativo avanzato dallo studioso americano a proposito, supponiamo, dell’Elogio della follia di Erasmo o delle parodie espressionistiche di Kraus e di Brecht o degli scherzi burleschi legati al libro di Esther. [↩]
- Marco Belpoliti, Primo Levi di fronte e di profilo, Milano, Guanda, 2015, p. 357. [↩]
- Mirna Cicioni, Primo Levi’s Humour, in The Cambridge Companion to Primo Levi, ed. by Robert S.C. Gordon, Cambridge, Cambridge University Press, 2007, pp. 142-146. [↩]
- Levi, Opere cit., II, p. 581. [↩]
- Levi, Opere cit., I, pp. 413-433. [↩]
- Ivi, pp. 651-660, 671-680. [↩]
- Ivi, pp. 529-547. [↩]
- Ivi, pp. 725-732; II, pp. 142-145; Cicioni, «Un riso che direi sabbatico» cit., pp. 186-187; Ead., Primo Levi’s Humour cit., pp. 143-144 e Ead., Un’amicizia asimmetrica e feconda: Levi e Manzoni, in Voci dal mondo per Primo Levi: in memoria, per la memoria, a cura di Luigi Dei, Firenze, Firenze University Press, 2007, pp. 63-70. [↩]
- Levi, Opere cit., II, pp. 1435-1443. [↩]
- Ivi, p. 1435. [↩]