di Piero Casentini
Pubblichiamo il testo dell’intervento che il nostro amico Piero Casentini ha tenuto al «Symposium Education and Re-Education. Luigi Meneghello’s schooling in Fascist Italy», presso l’università di Reading, il 6 maggio 2016.
1. Il titolo che ho scelto per questo intervento1 è l’incipit del settimo e ultimo capitolo di Fiori italiani. La frase completa è questa: «Devo ora parlare dell’uomo che fu il maestro di S., mio, e dei nostri compagni, Antonio Giuriolo».
Mi pare che sia il perno su cui ruoti tutto il libro: in questa frase s’intravvede per la prima volta il bocciolo schiudersi. In tutti i sei capitoli precedenti il protagonista S. è stato narrato alla terza persona singolare; Luigi Meneghello scrive di sé bambino e ragazzo mettendo una distanza non solo temporale e geografica, ma verbale. Il se stesso di allora è un’altra persona, che lo scrittore può scrutare e descrivere, senza tentazioni autoassolutorie o timori riguardanti una qualche pretesa coerenza. All’inizio del settimo capitolo, però, ecco comparire la prima persona singolare: Meneghello mette la sua voce, accenna a un dovere, descrive uno sdoppiamento. Ci sono sia S. che Meneghello in questa frase e viene da pensare che debba essere stato davvero così a Vicenza per una manciata di mesi, tra l’estate del 1940 e l’inizio del ’41. L’incontro con Giuriolo, come si legge nelle pagine successive, finì per determinare la nascita civile di Meneghello, condizionando per sempre il suo modo di pensare, di vivere e di scrivere.
2. Antonio Giuriolo era un professore senza cattedra. Laureato in letteratura italiana a Padova nel 1936, con una tesi sulla poesia di Antonio Fogazzaro, non poteva insegnare nelle scuole pubbliche avendo rifiutato di prendere la tessera del Partito fascista. Viveva di lezioni private. Era nato ad Arzignano, in provincia di Vicenza, il 12 febbraio 1912, da Pietro, avvocato socialista, e Marina Arreghini, donna cattolica originaria di Caomaggiore, nel veneziano. La coppia aveva un figlio maggiore, Libero, nato nel 1909, che seguì le orme del padre divenendo avvocato. Nel 1922 sarebbe arrivata Giovanna, l’ultimogenita.
Torniamo all’inizio della metamorfosi di S. Nel 1940 “Toni” Giuriolo abita a Vicenza, in contrà Lodi, ma passa molte ore del suo tempo alla Biblioteca Bertoliana2.
La lapide in memoria di Antonio Giuriolo posta alla Biblioteca Bertoliana di Vicenza (foto di Piero Casentini)
Nell’estate di quell’anno inizia a frequentare un gruppo di ragazzi, più giovani di lui di una decina di anni, cresciuti sino ad allora nelle strutture pedagogiche del regime. Oltre a Meneghello ci sono i fratelli Licisco e Bruno Magagnato, i cugini Benedetto e Gaetano Galla, Enrico Melen, Mario Mirri, Renato Ghiotto, Luigi Ghirotti (tutti diventeranno piccoli maestri). Giuriolo è una persona nota nell’ambiente culturale vicentino: discute con Neri Pozza, futuro editore, e Antonio Barolini, giornalista e poeta; anche alcuni fascisti, come Giovanni Caneva, lo guardano con rispetto e un certo interesse. Ha già pubblicato qualcosa: quattro recensioni sulle testate La Ruota, Civiltà Moderna e La Nuova Italia3 e tre articoli sul quotidiano di Vicenza Vedetta fascista4.
Giuriolo, nella seconda metà degli anni ’30, dopo la laurea e il reiterato rifiuto al fascismo, ha iniziato un percorso personale di ricerca culturale: fatta di letture, di studio, di tanti appunti e poi di incontri. Alcuni incontri portano ai libri, e viceversa. Cito solo tre titoli: Socialismo liberale di Carlo Rosselli, diffuso clandestinamente in Italia e portato a Vicenza da Giuriolo, dopo un incontro a Bologna con il critico d’arte Carlo Ludovico Ragghianti; Elementi di un’esperienza religiosa di Aldo Capitini, uscito nel ’37 da Laterza, letto immediatamente da Giuriolo e che portò a un primo incontro tra i due, a Perugia, nell’autunno del 1939, per tramite del comune amico Enrico Niccolini; il Manifesto del liberalsocialismo di Guido Calogero, messo a punto all’inizio del ’40 e diffuso nel Veneto da Giuriolo di ritorno da Firenze.
Attraverso queste le letture (che comprendono romanzi, poesia, saggistica), grazie agli incontri con alcuni esponenti della cultura antifascista, Giuriolo diventa un punto di riferimento, un maestro, e poi il maestro dei piccoli maestri.
3. Nell’archivio Istrevi esiste dal 2006 il fondo Giuriolo, per dono della famiglia. Si tratta di corrispondenza, di rassegne stampa successive alla morte di Toni, e di 47 quaderni. Questi ultimi sono i taccuini di Antonio. Da qualche tempo sono nelle mani di Renato Camurri, docente presso l’università di Verona, che ne sta curando la pubblicazione che dovrebbe avvenire tra pochi giorni5. Ho potuto consultare una copia dattiloscritta del taccuino che in sette brani copre l’arco di tempo dal settembre 1936 al gennaio 1942 (dai 24 ai 30 anni dell’autore). Lo lesse anche Meneghello, che lo cita in Fiori italiani: scrive di un “programma esplicito benché segreto” dal quale dipendeva la forza morale di Antonio. Mi sono chiesto se fosse lecito farne un qualche uso, in questa comunicazione, benché ampi brani siano già stati pubblicati, in particolare da Antonio Trentin nelle sue biografie di Giuriolo6. Sarò discreto su alcuni passaggi, ma trovo che le parole di Giuriolo siano in grado di illuminare il lavorio segreto, portato avanti in privata solitudine, che preparò quello politico e resistenziale. Ne fu anzi la base necessaria.
Il diario si apre con una citazione di Ibsen: “Vivere è pugnare con gli spiriti mali del cuore e del pensiero. Scrivere è tenere severo giudizio contro se stessi”7. Queste sono le linee guida, alle quali si atterrà scrupolosamente.
Il primo scritto, datato 5 settembre 1936, è infatti durissimo: “Sono in un momento, in una svolta della vita in cui è necessario che io mi rinnovi o perisca, che io riacquisti la fede e l’entusiasmo dei vent’anni o mi adagi nella inerte e grigia sonnolenza della massa. Sto diventando un uomo comune e mediocre!”. E più avanti: “ho perduto il controllo di me stesso, specialmente del mio profondo e migliore me stesso, mi sono dato ad una vita superficiale, esteriore e dispersiva, per la quale ora sento d’essermi arrugginito nel cervello e inaridito nell’anima”. Come rimedio s’impegna a scrivere ogni giorno, seguendo una severa pratica d’introspezione, come scrive Antonio Trentin nella sua biografia di Toni Giuriolo.8.
Il giorno seguente, 6 settembre, scrive il brano riportato da Meneghello9: dopo la lettura su un vecchio numero de La Critica (1921) della recensione di Croce a un libro di Otto Braun, scrive, citando il giovane volontario tedesco morto nel 1918, “devi diventare un titano” e poi, parafrasandolo “devi essere un eletto, un forte”. Più avanti aggiunge: “Il trinomio in cui devi in ogni istante fissare gli occhi lungo questo sforzo d’elevazione, sia questo: sincerità, coraggio, volontà. Abbi fiducia. La tua crisi è grave, ma non disperata. Sei ancora in tempo a rinnovarti”. Poi indica Ulisse come esempio di audacia e tenacia; cita Goethe: “Wäre dir auch was verloren erweise dich wie neugeboren”, ossia anche se hai perso qualcosa mostrati come se fossi rinato. “Così – scrive – tu devi fare; devi rievocare il tuo passato, le tue colpe trascorse per frugarle in ogni fibra, per comprendere e condannare […] Così operando, anche il male si trasformerà in bene, potrà servire cioè come esperienza attraverso la quale faticosamente si è giunti a conquistare il bene, la grazia, e potrà servire infine come strumento di affinamento morale, d’irrobustimento della nostra coscienza che attraverso le lotte, le sconfitte e le vittorie ha saputo fortificarsi e possedersi in modo più saldo e consapevole”.
Vale la pena ricordare il contesto nazionale e internazionale: in febbraio il Fronte popolare aveva vinto le elezioni in Spagna, in luglio era iniziata la guerra civile; in maggio le truppe italiane avevano occupato Addis Abeba, riportando l’impero sui colli fatali di Roma. Il consenso al fascismo era al suo apice. In ottobre si sarebbe saldato il patto Roma-Berlino. In mezzo a questi avvenimenti Giuriolo si guardava dentro, frugava nelle debolezze, iniziava un intervento a vivo sulle sue stesse carni.
L’8 settembre torna a scrivere: “bisogna sempre, continuamente, anche nel più fuggevole e banale pensiero o sentimento, essere sinceri con noi stessi. Non è una cosa facile: sembra che la società, costituita com’è di leggi prestabilite, d’un fondo comune d’idee e di sentimenti, di principi e di costumi, non abbia altro scopo che quello di togliere all’individuo, mostrando una via comoda, e già tracciata, il senso della personalità e della responsabilità, non sappia altro che spegnere nell’uomo il bisogno di pensare e l’ardore di combattere, incanalandolo nell’abitudine, vale a dire nell’azione meccanizzata, irrimediabile, fatalistica, vale a dire, in ultima analisi nell’istinto”.
Seguono due pagine fitte di riflessioni sull’influsso dell’ambiente, sul determinismo, al termine delle quali apre una parentesi e, dopo un Nota Bene, scrive: “hai filosofeggiato tanto e non sei riuscito ad esprimerti in modo chiaro e convincente: bisogna ritornarci su, ma in altra sede. Sarà meglio intanto che in questo diario, filosofi meno e ti esprima più confessandoti che meditando”.
Identifica poi due forze dissolventi della personalità: da una parte l’abitudine passiva imposta dall’ambiente (“la resistenza che ognuno di noi deve superare per affermare se stesso”), dall’altra l’ipocrisia nel male (“ha lo scopo di far dimenticare il male come male; a eliminare il processo purificativo del rimorso, a rendere il peccato un’abitudine indispensabile, che inevitabilmente si tramuta in vizio”); contro queste spinte disgreganti che convergono sull’individuo, si deve reagire con “chiarezza di idee e decisione d’azione”.
Il 9 settembre trascrive un brano tratto dal Gian Gabriele Borkman di Ibsen, in una traduzione che non sono stato in grado di identificare10; è la battuta di un dialogo nel quale si fa cenno alla Bibbia, al peccato misterioso per il quale non vi è perdono; Ella Rentheim dice a Borkman di avere capito, infine, qual è questo peccato: la colpevole azione di spegnere la fiamma dell’amore. Giuriolo scrive: “L’amore è lo slancio istintivo dell’anima verso ciò che trascende l’individuo, è l’aspirazione gentile verso la purificazione da tutte le scorie dell’egoismo, è la rigenerazione dell’io”. Fa riflettere l’uso dei termini colpa, peccato, amore, male; è incredibile pensare che Elementi di un’esperienza religiosa sarebbe stato letto da Giuriolo solo l’anno successivo. Possiamo solo immaginare quale corrispondenza vi abbia trovato. Quanto l’incontro con Capitini l’abbia fatto sentire meno solo.
4. Fino al maggio del ’39 Antonio Giuriolo non scriverà più nulla sul suo taccuino privato. Due anni e otto mesi d’interruzione durante i quali molte cose erano successe: nel ’37 il bombardamento di Guernica, l’assassinio dei fratelli Rosselli, nuove retate dell’OVRA, la morte di Gramsci; nel ’38 le leggi razziali, l’annessione dell’Austria e dei Sudeti al Reich tedesco; nel ’39 la vittoria dei franchisti in Spagna, l’occupazione italiana dell’Albania.
Giuriolo in quei trentadue mesi aveva vestito due volte la divisa grigioverde da ufficiale del regio esercito; aveva insegnato per una supplenza in un collegio privato di Bassano del Grappa; ma soprattutto era entrato, come scrive Trentin11, nel vivo dell’esperienza antifascista organizzata. Si muove: Bologna, Firenze dove entra nel circolo che gravita intorno all’editrice La Nuova Italia, Parigi, ospite dei cugini i quali lo introducono tra i lavoratori italiani delle periferie. Dalla capitale francese porta in Italia l’opera completa di Alexis de Tocqueville, l’Avertissement à l’Europe di Thomas Mann, Maupassant, Baudelaire12.
Il 16 maggio 1939 scrive sul suo taccuino, dopo aver incontrato Capitini a Perugia: “Sono passati due anni e mezzo, di quelli che avrebbero dovuto essere fra i più fervidi e fecondi della nostra vita: che cosa abbiamo concluso? Nella cultura poco o niente: abbiamo allargato superficialmente il nostro campo, abbiamo acquistato qualche nuova cognizione, ma per dimenticarne qualche altra; […] Moralmente abbiamo continuato a trascinarci in vergognosi compromessi: la conclusione è che ora abbiamo la testa vuota e pesante nello stesso tempo, come dopo una notte di orgia; siamo sfiduciati, non abbiamo più fede in nulla; e quello che è ridicolo e in fondo sommamente disgustoso, è che la gente ci continua a pigliare per l’uomo intelligente, puro, forte, che veramente era nel nostro disegno di essere, ma che non è stato nelle nostre forze di realizzare”.
Si guarda con spietatezza: gli aggettivi grigio, mediocre vengono utilizzati per descrivere non già un pericolo prossimo, come nel settembre del ’36, ma la sua realtà presente. Termina con una domanda rivolta a un noi, che credo non indichi un plurale maiestatis, ma piuttosto un noi, io e tu, di Giuriolo che parla a se stesso; una domanda aperta nella quale si chiede se sarà in grado di darsi una disciplina, approfittando del richiamo militare, ricercando con maggior forza l’intimità dello spirito.
5. Passa l’estate, le tensioni internazionali si acuiscono. Scoppia la guerra. Il 19 settembre 1939 Giuriolo torna a confidarsi nel suo quaderno: “è estremamente ridicolo […] per non dire pericoloso e nauseante, far tanti progetti, imporsi tanti gagliardi propositi per poi continuare come prima, peggio di prima. Quando si è caduti in basso, quando il disgusto di noi stessi ci sale fino alla gola, allora ci aggrappiamo disperatamente a un programma di vita severa e feconda, di rinnovamento totale: ma è un fervore che sbolle ben presto; succede poi la vita normale, ritorna l’incoscienza o meglio l’indifferenza; e ben presto si arriva alla nuova caduta. […] Si giunge al punto di non credere più in niente, nemmeno a se stessi; quando, ed è il migliore dei casi, non si preferisce colmare il vuoto interno con le belle parole, a cui non si presta più fede, con l’ipocrisia, cioè, che diventando un’abitudine si serve delle belle esaltazioni morali di una volta come incentivo a commettere il male più raffinatamente”.
Dopo io, tu, noi, usa il si impersonale; sembra quasi voler indicare una condizione più generale, forse si sente parte di un processo che non sembra controllare, si guarda da fuori.
6. Altra interruzione; l’ultima, poi non scriverà più su questo taccuino. Il 1940 e ’41 sono gli anni dei giovani vicentini, i futuri piccoli maestri, che lo avvicinano disubbidendo ai preti e alle persone per bene che considerano Giuriolo un elemento pericoloso. Si gettano le basi del futuro Partito d’Azione e Giuriolo partecipa a una riunione ad Assisi, nel maggio del ’40, insieme a Calogero, Capitini e Bobbio nella quale discutono dell’organizzazione clandestina. Giuriolo s’interroga, e scrive numerosi appunti sulla teoria e la pratica del liberalsocialismo. È l’inizio della guerra anche per l’Italia. Giuriolo è capitano degli Alpini, ma dopo un periodo passato ad addestrare reclute, viene messo a riposo. Si interessa a Henry Becque, drammaturgo francese dell’Ottocento. Legge Joyce. Scrive per La Nuova Italia una recensione al lavoro di Adolfo Omodeo su Cavour. A chi lo avvicina, consiglia la lettura della Trahison des clercs di Jules Benda.
L’ultimo brano è senza data; sappiamo che è sicuramente successivo al 19 gennaio 1942, giorno in cui muore il padre, l’avvocato Pietro Giuriolo, quasi ottantenne. L’ultima parola che Toni scrive è “riflettere”.
Tra il ’42 e la caduta del fascismo, la rete clandestina del Partito d’Azione s’infittisce. Giuriolo, richiamato alle armi nella primavera del ’43, scampa ad una retata che porterà all’arresto di alcuni vicentini. L’8 settembre è a Vicenza; scrive un articolo che uscirà sul foglio del Partito d’Azione quando lui ha già raggiunto i primi partigiani, in Friuli. Il resto, a grandi linee, è descritto ne I piccoli maestri: comandante sull’Agordino, poi in Altopiano, a capo dei suoi studenti, fino al rastrellamento del 5 giugno 1944. Antonio sparisce, non si ricongiungerà mai più coi piccoli maestri e non darà loro notizie di sé. Muore in combattimento sull’Appennino tosco-emiliano il 12 dicembre 1944, mentre con i partigiani della brigata Matteotti di montagna, combatte fianco a fianco degli Alleati. Il suo corpo resta sotto la neve, insepolto; lo trovano in primavera. La guerra è finita. In maggio Meneghello parte da Vicenza in bicicletta: raggiunge Bologna, quindi sale a Lizzano in Belvedere dove trova la tomba. Il 26 scrive a Libero Giuriolo: “ho parlato con i suoi partigiani, con i suoi ospiti, tutti parlano nello stesso modo del capitano con gli occhi di bambino.” È la prima volta che Luigi Meneghello scrive di Antonio Giuriolo.
Immagini 1-3: la lapide in memoria di Antonio Giuriolo, in località La Corona, nei pressi di Lizzano Belvedere. Fonti: due post di Francesco Ricci da http://www.biciclettecosmiche.it/ (con altre foto scattate alla fine del 2015) e http://www.doppiozero.com/ (datato 21 marzo 2016, per la foto presa con il sole).
Immagine 4: il cippo posto nel 2004 nel luogo preciso dell’uccisione di Giuriolo: “Al capitano Toni apostolo della libertà [12] dic 1944”. Fonte:http://www.biciclettecosmiche.it/ cit.
Immagine 5: il cippo in memoria di Antonio Giuriolo a Campogrosso. Fonte: http://www.pietredellamemoria.it/ con altre foto di Renato e Roberta Beriotto (Cai Padova), 4 agosto 2016.
Immagine 6: trascrizione del testo della lapide di Campogrosso, Piero Casentini, 20 novembre 2016
- Il titolo originale dell’intervento era «Il maestro di S., mio, e dei nostri compagni, Antonio Giuriolo». Ndr [↩]
- È celebre il passo dei Fiori italiani in cui Meneghello racconta della lapide alla Bertoliana: “Per la piccola lapide che fu murata su una porta interna della biblioteca Bertoliana (pareva la più giusta commemorazione possibile) fu Franco [Licisco Magagnato] a scrivere le parole. […] La terza e la penultima parola, già incise sulla lapide, furono cancellate per disposizione del sindaco, in base all’argomento che di religione ce n’è una sola; e pare che Franco, furibondo, abbia tentato invano di sostenere che quella è invece la mamma. In verità il sindaco non era uno sciocco, e quando Franco si fu calmato, gli fece capire che “la religione della libertà” era un’espressione giustissima, ma inopportuna. […] (La lapide non fu rifatta, soltanto si cancellarono le parole lasciando le righe curiosamente sbilanciate: e inoltre ciò che fu cancellato fu il colore delle lettere, ma siccome erano anche incise, si leggevano ugualmente. Quasi quasi la lapide sembrava più bella così; e mi dispiace un po’ che sia stata in seguito ripristinata nella sua forma originale.)” Luigi Meneghello, Fiori italiani [1976], cap. 7, ora in Id., Opere scelte, progetto editoriale e introduzione di Giulio Lepschky, a cura di Francesca Caputo, con uno scritto di Domenico Starnone, Milano, Mondadori, 2006, p. 947. [↩]
- Recensioni a: Walter Binni, La poetica del decadentismo italiano (Firenze, Sansoni, 1936), “La Ruota”, a. II, n. 1, gennaio-febbraio 1938; Gaetano Trombatore, Fogazzaro (Milano, Principato, 1938), “Civiltà Moderna”, a. IX, n. 1, gennaio-febbraio 1939; Piero Nardi, Fogazzaro: su documenti inediti (Vicenza, E. Jacchia, 1929), “La Nuova Italia”, a. XI, n. 3-4, marzo-aprile 1940; Anne de Coigny, La Restaurazione francese del 1814: memorie (Bari, Laterza, 1938), “La Nuova Italia”, a. XI, n. 6, giugno 1940 – quest’ultimo volume aveva un’introduzione di Adolfo Omodeo ed era stato tradotto da Ada Prospero, la vedova di Piero Gobetti. [↩]
- Un avvocato vicentino e l’educazione di Giuseppe Mazzini, 30 dicembre 1938; Fogazzaro, 24 marzo 1940; Fogazzaro attraverso le lettere, 17 giugno 1940. [↩]
- Ancora inedito a maggio, il volume è ora uscito sotto il titolo [Antonio Giuriolo,] Pensare la libertà. I quaderni di Antonio Giuriolo, a cura di Renato Camurri, Venezia, Marsilio, 2016, 528 p., che comprende 15 dei 47 quaderni scritti da Giuriolo; per notizie sulla presentazione del 18 novembre 2016 a Vicenza, cfr. http://www.vicenzapiu.com/ [↩]
- Il taccuino si può ora leggere integralmente anche nell’edizione preparata da Camurri, Pensare la libertà cit., pp. 191-201 [↩]
- Giuriolo doveva averla ripresa dal volume di Scipio Slataper, Ibsen, con un cenno su Scipio Slataper di Arturo Farinelli, Torino, Fratelli Bocca, 1916, dove si trova in esergo. Slataper (se non il suo editore Farinelli, curatore della pubblicazione postuma) aveva ripreso questi versi da una lettera di Ibsen del 16 giugno 1880, dove il drammaturgo diceva di averli scritti per dedicare una copia di un suo libro. [↩]
- Antonio Trentin, Toni Giuriolo. Un maestro di libertà, Sommacampagna, Cierre-Istrevi, 2012; si veda anche la prima edizione Id., Antonio Giuriolo (un maestro sconosciuto), presentazione di Enrico Opocher, Vicenza, Neri Pozza, 1984, in part. pp. 20-21. [↩]
- Meneghello, Fiori italiani cit., pp. 947-948. Meneghello commentava il brano con pudore e rispetto per l’intimità del pensiero: “Ripetendone ora le parole in pubblico possono crearsi delle risonanze non pertinenti. Questi sono pensieri che, credo, non possono diventare oggetto diretto di comunicazione ad altri senza cambiare carattere” (ivi, p. 948). [↩]
- La trascrizione di Giuriolo riprende solo nelle prime righe la traduzione italiana del John Gabriel Borkman disponibile dal 1900 (Milano, Treves, con ogni probabilità ricavata da un’edizione francese), che anche Benedetto Croce utilizzò per il suo studio su Ibsen, pubblicato per la prima volta ne La Critica, nel 1921 (ora disponibile online), poi raccolto in Benedetto Croce, Poesia e non poesia. Note sulla letteratura europea del secolo decimonono, Bari, Laterza, 1923 (ho potuto consultare la seconda edizione riveduta e aumentata, Bari, Laterza, 1935, per la citazione dal Borkman pp. 304-305). Come già visto in precedenza, a proposito della recensione di Croce a Bauer, Giuriolo aveva letto La Critica del 1921. Alla Bertoliana si trova una copia del Borkman nell’edizione Treves. Giuriolo doveva conoscere anche la differente versione proposta da Slataper nel suo Ibsen cit., p. 320. Ma probabilmente poteva aver avuto accesso a un’edizione francese, da cui aveva ricavato una traduzione originale [↩]
- Cfr. per esempio Trentin, Antonio Giuriolo cit., pp. 42 e ss. [↩]
- Sulla biblioteca di Giuriolo, cfr. Meneghello, Fiori italiani cit., pp. 958 e ss., fin verso la fine del libro: “Antonio era quei libri; la sua persona appariva come fusa con la sua biblioteca. Un uomo così poco libresco, così spregiudicato verso la scorza esterna dello studio, funzionava tuttavia per mezzo dei libri di cui era custode ed esibitore”. [↩]