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Raccontare la disobbedienza civile

12/07/2016

di Roberta Chiroli

Dopo aver pubblicato il nostro intervento A difesa del resoconto etnografico, abbiamo chiesto a Roberta Chiroli, condannata per “concorso morale” in azioni compiute dal movimento No Tav che stava documentando per la sua tesi di laurea, di delinearci la sua esperienza di ricerca e la vicenda che ne è seguita, quando una tesi di laurea non consultabile è passata agli atti di un processo. Dove ci si interroga sulla disobbedienza civile e sul valore della descrizione.

1. Nell’estate 2013 ho trascorso tre mesi in Val Susa per svolgere una ricerca sul movimento No Tav, per la tesi di laurea specialistica in Antropologia Culturale. Ho scelto di fare la mia tesi magistrale sul movimento No Tav perché nutrivo – e nutro ancora – un interesse accademico e politico per i movimenti sociali e per esperienze di antagonismo e di politica dal basso, perciò il movimento valsusino mi incuriosiva molto per la sua unicità e tenacia, e soprattutto per la crescita e l’evoluzione che ha avuto negli anni.

L’oggetto principale della mia ricerca antropologica è l’identità del movimento No Tav: volevo comprendere cosa significasse per gli attivisti del movimento “essere un No Tav” nella vita quotidiana, cosa comportasse nella definizione del sé e attraverso quali pratiche e discorsi si costruisse questa identità. Per far ciò durante la durata del mio “campo” ho partecipato a tutte le iniziative e le attività del movimento, vivendo quotidianamente tra gli attivisti e stringendo relazioni che mi hanno permesso, con alcuni, di registrare numerose interviste. Ho tenuto un diario di campo che ho intrecciato alle interviste per costruire la mia etnografia e nell’introduzione della mia tesi ho esplicitato il mio posizionamento rispetto all’oggetto di studio, esprimendo quindi la mia condivisione personale delle istanze del movimento e specificando che questa condivisione mi è servita a essere accolta positivamente. Infatti studiando fenomeni di conflittualità sociale dove lo Stato agisce in modo repressivo, e quindi gli attivisti corrono rischi non trascurabili, se non ci si guadagna la fiducia delle persone difficilmente è possibile sviluppare un’analisi accurata delle dinamiche interne ai movimenti. Non celare la propria soggettività ma anzi, cercare di renderla il più possibile manifesta e chiara, è nella metodologia antropologica ormai una prassi consolidata, per cui si dà per scontato che il ricercatore non possa escludere, come in un laboratorio, la sua soggettività per produrre una ricerca su un gruppo o una comunità. La conoscenza che genera una ricerca è il frutto di un incontro, un dialogo tra ricercatore e soggetti coinvolti, e come tale non può prescindere dalle soggettività coinvolte. Questo non vuol dire eliminare ogni pretesa scientifica o annullare completamente la distanza ricercatore-soggetti, ma significa esplicitare tutti i dati e i passaggi che hanno permesso a un ricercatore di confutare o meno le proprie ipotesi.

2. Per quanto riguarda l’azione per cui sono finita in tribunale e condannata (assolta dall’accusa di imbrattamento e di resistenza aggravata a pubblico ufficiale, condannata per i reati di violenza privata ai danni del conducente della ditta e per l’occupazione della stessa) essa è avvenuta nel giugno 2013 a opera degli attivisti del campeggio studentesco (15 imputati erano minorenni) nei confronti della ditta Itinera che lavora per il cantiere del Tav. Io mi trovavo lì, in qualità di ricercatrice chiaramente, così come la mia coimputata, una dottoranda in sociologia, e insieme a lei mi sono limitata a osservare non partecipando attivamente all’azione; lei è stata però prosciolta da ogni accusa mentre io sono stata condannata a causa del mio “concorso morale”. Infatti, nonostante nei video e nelle foto della Digos io e Franca compariamo sempre insieme, nella tesi descrivo l’azione (sulla base delle note che avevo steso il giorno seguente la manifestazione) con la prima persona plurale e secondo il Pubblico Ministero questo dimostra la mia colpevolezza. Stiamo ancora aspettando che vengano depositate le motivazioni estese della sentenza, quindi ci basiamo su quello che ha detto il PM al processo e sul dispositivo della sentenza; nel paragrafo incriminato preciso che mi sono sempre tenuta fuori dal perimetro della ditta ma durante la breve azione che è seguita ho utilizzato la prima persona plurale anche se in realtà sono sempre rimasta al lato della carreggiata. Ho utilizzato quella formula perché ai fini della mia etnografia non aveva nessuna rilevanza specificare la mia esatta posizione (due metri più indietro?!), mentre l’uso del “noi” ribadiva la mia “osservazione partecipante”: io ero con il gruppo di attivisti quel giorno, e non mi sarei mai aspettata di essere condannata penalmente per una descrizione! Non mi aspettavo nemmeno un processo perché da diretta testimone posso affermare che le accuse sono spropositate, come per esempio quella di violenza privata: se bloccare una strada e quindi il transito di un camion per qualche minuto sventolando bandiere e uno striscione è considerata violenza privata contro il conducente forse dovremmo riflettere sulla legittimità e i limiti odierni del concetto di “disobbedienza civile”.

3. Quel giorno, il 14 giugno 2013, l’assemblea al campeggio studentesco di Venaus, che è rivolto principalmente agli attivisti delle scuole superiori ed è organizzato dal gruppo Giovani NoTav, aveva deciso di compiere un’azione di protesta ai danni di una ditta valsusina che fornisce calcestruzzo al cantiere di Chiomonte. Franca e io ci siamo aggregate al gruppo di attivisti e siamo arrivate a Salbertrand in macchina con Mimmo, un valligiano (d’adozione) ultrasessantenne molto attivo nel movimento, che voleva essere presente insieme ai ragazzi. Alcuni manifestanti hanno varcato i cancelli della ditta mentre altri sono rimasti nel piazzale adiacente reggendo uno striscione con la scritta “basta devastazioni”. In quel frangente io mi trovavo defilata rispetto al gruppo, mi sono avvicinata quando è arrivata una volante dei Carabinieri che ha frenato appena davanti allo striscione causando scompiglio tra i ragazzi. Alcuni agenti hanno cercato di prendere lo striscione e i ragazzi si sono opposti.

Dopo essersi ricompattato, il gruppo si è recato sulla strada principale rallentando per una decina di minuti il traffico, tra cui un camion diretto all’Itinera. I manifestanti distribuivano volantini informativi agli automobilisti e intonavano cori sventolando bandiere del movimento e lo striscione. Agenti di Polizia e Carabinieri nel frattempo sostavano a qualche metro di distanza, con agenti della Digos che fotografavano e filmavano l’azione. Dopodiché, il gruppo ha attraversato il paese per recarsi alla stazione e tornare al presidio di Venaus in treno. Tra le vie del paese alcuni ragazzi hanno fatto degli interventi al megafono e distribuito volantini ai passanti, sempre con al seguito agenti di Polizia e Carabinieri. Arrivati in stazione abbiamo trovato ad aspettarci un ingente schieramento: quattro blindati e due volanti dei Carabinieri e una della Polizia, con almeno 20 agenti che ci hanno circondato al binario e all’arrivo del treno ci hanno chiesto i documenti e identificati tutti, facendo foto a chi non aveva con sé i documenti. I giorni successivi sono stati notificati 10 fogli di via a ragazzi non valsusini e il 27 gennaio 2014 la Procura di Torino ha convocato 13 attivisti minorenni per un interrogatorio e ha inscritto nel registro degli indagati 43 persone, tra cui la sottoscritta. Il resto lo sapete.

Non ho consegnato la tesi agli atti del processo perché il mio avvocato aveva ritenuto sufficiente presentare il frontespizio e l’indice senza il testo completo, oltre che il diploma di laurea e la dichiarazione di assenso alla ricerca da parte del dipartimento dell’Università Ca’ Foscari. Di certo non ci aspettavamo un’approfondita lettura da parte della magistratura. Non so nemmeno chi e con quale procedura abbia consegnato la tesi, di cui avevo per altro negato la consultazione.

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Archiviato in:La città invisibile, Roberta Chiroli Contrassegnato con: descrizione, disobbedienza civile, intervento, No Tav

Interazioni del lettore

Commenti

  1. redazione sito sAm dice

    25/07/2016 alle 22:25

    Il 25 luglio 2016, un articolo apparso sul "Fatto quotidiano" online (http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/07/25/no-tav-contributo-morale-e-presenza-fisica-ecco-perche-e-stata-condannata-la-tesista-che-studiava-il-movimento/2931974/) ha rilanciato il link dell'articolo di Roberta Chiroli da noi pubblicato il 12 luglio. A stretto giro abbiamo ricevuto una serie di commenti; alcuni non li abbiamo pubblicati, anche perché non firmati e/o accompagnati da indirizzi mail fittizi. A chi, senza firmarsi o ricorrendo a pseudonimi, apostrofa Roberta Chiroli con toni e argomenti grotteschi ricordiamo solo: 1) che Roberta Chiroli si firma per esteso; 2) che Roberta Chiroli ha descritto un'azione di disobbedienza civile.

    La redazione del sito storiAmestre

  2. tacito dice

    25/07/2016 alle 21:02

    signorina, se lei era a conoscenza che erano in procinto di compiersi reati gravi quali la violazione della proprieta’ privata, sabotaggi, violenze sarebbe stato suo dovere civico e probabilmente anche giuridico cercare di prevenirli ed/o avvisare l’autorita’ di pubblica sicurezza. se fosse per me le avrai dato 2 anni di carcere.

    e comunque, sinceramente, da cittadino le dico che dovrebbe vergognarsi.

  3. Carlo dice

    25/07/2016 alle 20:10

    esprimo solidarietà. La faccenda ha dell’incredibile. Ho condiviso l’articolo su facebook. spero se ne parli. si comincia così e si finisce nel fascismo!

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