di Filippo Benfante
Pubblichiamo il testo dell’intervento che Filippo Benfante ha fatto il 15 aprile 2016 in occasione della presentazione del libro di Innocenzo Cervelli, Le origini della Comune di Parigi (Viella, Roma 2015), presso il dipartimento di studi umanistici dell’università Ca’ Foscari di Venezia. Con l’aggiunta di un post-scriptum. (Per leggere il testo dell’intervento tenuto da Enrico Zanette nella stessa occasione, cliccare qui.)
1. Il titolo del libro parla da solo: Le origini della Comune di Parigi. Una cronaca (31 ottobre 1870-18 marzo 1871). Questa cronaca, Enzo Cervelli la sviluppa in quasi 500 pagine (di cui 133 di note), suddivise in 5 capitoli che non concedono molto a un lettore frettoloso: per esempio non ci sono titoli di paragrafo a marcare le scansioni interne, ma giusto un numeretto. Chi si cimenta è meglio che sappia già qualcosa sui mesi della guerra franco-prussiana, dell’assedio di Parigi e della Comune, e che in mente abbia qualche coordinata dello spazio urbano parigino. Il libro ha una sola illustrazione, in copertina: è il dettaglio di un quadro su cui tornerò.
Questa lunga cronaca è costruita con la tecnica del montaggio di un gran numero di voci e di punti di vista, documentati da ampie citazioni tratte in primo luogo dalla memorialistica e da quella che a un certo punto del libro è definita “memorialistica storiografica” (p. 442), ovvero diari e memorie di testimoni e protagonisti a vario titolo, che confinano con le prime storie della Comune, scritte da chi aveva partecipato a quegli eventi e se ne faceva poi storico (se non romanziere, com’era il caso di Jules Vallès, il cui autobiografico Insurgé è trattato come le altre fonti).
Cervelli ricorre quindi alla stampa quotidiana dell’epoca, ai resoconti di riunioni di club tramandati da osservatori e testimoni, ai documenti governativi, come dispacci, corrispondenze, inchieste parlamentari… Sono tutte fonti edite e si può immaginare l’autore che, non avendo la possibilità di frequentare intensamente gli archivi parigini, si mette al lavoro alla Fondazione Basso di Roma, uno dei luoghi della “Comune in Italia”, oltre che sui libri accumulati in casa nel corso di anni. Peraltro oggi una parte non trascurabile di questi materiali si trova su internet, tramite Gallica per esempio.
La cronologia delimita e – come ogni scelta in fatto di cronologia – offre la prima interpretazione: le origini della Comune andrebbero cercate nei mesi dell’assedio di Parigi (che era cominciato il 19 settembre 1870), della difesa che riarma la popolazione maschile parigina sotto la divisa della guardia nazionale, della capitolazione (avvenuta a fine gennaio 1871), delle elezioni per il parlamento della terza repubblica e dell’avvio del governo di Thiers. Questa interpretazione deve intendersi su due versanti:
1) da un lato l’evento rivoluzionario è possibile nel contesto creato dagli eventi della guerra franco-prussiana, da quei lunghi e difficili mesi di un autunno che già sembrava inverno e di un inverno terribile almeno fino a fine gennaio, dove tutto – le notizie, la luce delle giornate, lo “spirito pubblico”, le vite – sono caratterizzate dall’aggettivo sombre;
2) dall’altro è in quei mesi che l’esperienza della Comune, così come comincerà tra il 18 e il 26 marzo, assume un senso, prende una sua propria fisionomia. È in quel periodo che si comincia a chiedere “cos’è la Comune?” – questa “sfinge che sfida a tal punto l’intendimento dei borghesi”, o un “assalto al cielo” secondo due celebri suggestive, direi poetiche, formule di Marx. È in quel periodo che si comincia a rispondere, riprendendo il filo di quella repubblica democratica e sociale che era stata la rivendicazione popolare del 1848, il motto degli insorti del giugno 1848.
I diversi modi di rispondere a questa domanda segnano la storia dell’esperienza, del mito e della storiografia della Comune. Cervelli portandoci fino alla soglia del 18 marzo, prende posizione en creux per dirla in francese: la Comune sarà un esperimento di autogoverno, fondato sulla partecipazione continua e diretta, che abolisce la distanza tra governati e governanti, che quindi si propone come alternativa radicale allo Stato e al governo basato sulla sola rappresentanza elettorale; e include naturalmente una revisione dei rapporti sociali, abolendo i rapporti verticali, la gerarchia, e stabilendo che il lavoro è di chi lavora. Lo sfondo è quello di una guerra perduta: questioni e sentimenti legati al patriottismo, se non al nazionalismo, circolano, e hanno un ruolo nelle vicende che permettono la nascita della Comune. Ma la Comune è internazionalista (nel senso ampio del termine, non per filiazione diretta dell’Associazione internazionale dei lavoratori). “Autonomie” e “homme, citoyen et producteur” sono la parola chiave e la figura centrale del suo programma, la “Déclaration au peuple français” del 19 aprile 1871, poi considerato il testamento politico della Comune. “Homme” si legge: e le “femmes”? proprio sulla questione femminile e di genere ha lavorato una parte della storiografia più recente sulla Comune, ma questo versante resta poco esplorato nel libro di Cervelli.
Un segnale delle preferenze di Cervelli per la definizione di Comune che ho appena evocato si vede nella scelta di aprire libro con Gustave Lefrançais (introduzione) e Jules Vallès (primo capitolo), due membri della “minoranza” che si schierò contro la creazione del “Comitato di salute pubblica” nel maggio 1871, interpreti della visione più libertaria della Comune. Tra l’altro il libro anche si chiude con Lefrançais e, con uno scarto quasi inaspettato, con Claudio Pavone, ma su questo ritornerò alla fine.
2. Possiamo prendere il libro di Cervelli per segnare un anniversario. Oggi, 145 anni fa, siamo nel bel mezzo dei 72 giorni della Comune che prende avvio il 18 marzo e si conclude con la semaine sanglante (21-28 maggio). A metà aprile anche lo scontro militare con Versailles è già cominciato. Nella battaglia del 3 trova la morte Gustave Flourens, uno dei protagonisti delle “origini della Comune”. In quei giorni il giornale milanese della Scapigliatura, Il Gazzettino Rosa, fondato da Achille Bizzoni e Felice Cavallotti, animato da Felice Cameroni e da altri giovani che da mazziniani stavano diventando internazionalisti, seguiva con trepidazione e crescente angoscia le sorti della rivoluzione parigina. Proprio il 15 aprile usciva un profilo biografico di Flourens, sotto il titolo I martiri della democrazia.1
Ma lasciamo da parte gli anniversari. Si capisce che Le origini della Comune non sono un libro d’occasione. Il finito di stampare è “settembre 2015”, quindi ci siamo con l’anniversario del crollo dell’impero e della proclamazione della repubblica a Parigi (4 settembre 1870); ma l’introduzione è datata novembre 2014 e soprattutto ci sono alcuni articoli usciti negli anni 2000 su Studi Storici che indicano quanto, e da quanto tempo, i temi della Comune, delle rivoluzioni parigine dell’Ottocento, con le loro conseguenze, e la Prima Internazionale siano stati oggetto della riflessione di Enzo Cervelli.2
Se non vedo male, è soprattutto nell’articolo dedicato a Lefrançais, «comunista “libero”», che vanno cercati i moventi del libro di cui parliamo oggi. In quelle pagine, Cervelli affrontava la questione delle identità politiche e delle autodefinizioni militanti, quindi il nodo della “libertà” tra comunismo e anarchia, e infine l’“attualità” della Comune e del pensiero e del “movimento comunalista” di cui Lefrançais fu fautore. Commentando “l’ancoraggio”, la fedeltà di Lefrançais al suo pensiero elaborato negli anni 1868-71, Cervelli concludeva:
Il richiamo, tipico di Lefrançais, ai diritti dell’uomo contrapposti al principio di autorità [suonava come] una pregiudiziale, una conditio sine qua non, non ciò che comunemente si intende per programma […]. Erano punti che valevano perciò come prerequisiti della politica, della quale finivano con il costituire la bussola, non modificabile. A partire da qui, allora, non può essere che il comunalismo di Lefrançais, fondato sull’esperienza della Comune e tramandando quella che per lui ne era stata l’essenza, non abbia in sé qualcosa su cui riflettere ancora oggi?3
3. Per alcuni che si trovano qui oggi, l’attualità della Comune non è nemmeno un argomento di discussione: certo che la Comune è attuale! Per dire, Enrico Zanette e io curiamo il sito dell’associazione storiAmestre che ogni anno ricorda l’anniversario di marzo della Comune, e ne rievoca lo spirito internazionalista anche il Primo maggio. Quest’immagine che vi mostro è stata dipinta nel 2013 da due amici, due dei compagni con cui appunto celebriamo il Primo maggio; fa da sfondo ai nostri pranzi scanditi, come da tradizione, da discorsi, canti e brindisi all’Internazionale; è ispirata a quella che Walter Crane pubblicò nel marzo 1888 (17° anniversario) sul giornale Commoweal di William Morris, che pure vi mostro, per un confronto.
1. Un tributo alla Comune, a Walter Crane. In occasione del Primo maggio 2013. Italia, Collezione privata, per gentile concessione degli Autori: Gigio Brunello e Lanfranco Lanza.
2. Vive la Commune!. An English tribute to the French Commune. Dedicated to the workers of both countries. By Walter Crane (march 1888). Fonte: U-M Library Digital Collections. Political Posters, Labadie Collection, University of Michigan.
A parte il nostro ristretto desiderio di mantenere vitali (cioè vivi e riattualizzati) riti e miti della storia del movimento operaio, mi pare che l’esistenza di una attualità politica e storiografica della Comune, e più largamente delle rivoluzioni del XIX secolo, sia un punto condiviso ampiamente, almeno tra chi pratica studi e storiografia francese (non per forza francofona).
Comincio dall’attualità politica, aiutandomi con alcune immagini.
3. Parigi, place de la République. Fonte: http://www.lemonde.fr/
4. Parigi, place de la République, 3-4 aprile 2016. Fonte: collezione privata, per gentile concessione degli Autori.
Siamo a Parigi, in place de la République, i primi giorni di aprile. Il 31 marzo 2016 è cominciato il movimento della “nuit debout”, collegato alle proteste contro la nuova legge sul lavoro voluta dal presidente e dal governo francese; non ne so molto, né ho pretese di comprenderlo, quel che mi interessa qui è far notare il gesto di mettere una bandiera rossa sulla base di quella che è forse la più celebre statua della République.4 È un gesto che si ripete nell’iconografia delle rivoluzioni ottocentesche, dal 1848 almeno; è il riassunto di tutta la tensione (di nuovo: politica e storiografica) esistente intorno al significato del termine “république”: la moderata (liberale o conservatrice) contro la sociale; quella del governo rappresentativo contro quella della partecipazione diretta; quella dei rapporti verticali contro quella dei rapporti orizzontali… La tensione che la Comune stessa incarna, difendendo i principi della “vera”, della “buona” repubblica sociale contro la “repubblica monarchica” di Versailles.
Qualche anno fa la Comune è stata riportata alla ribalta in modo più clamoroso, e direi sul piano istituzionale: Jean-Luc Mélenchon, candidato alle elezioni presidenziali per il Front de gauche, ha posto la sua campagna elettorale sotto lo slogan “place au peuple”, ripreso dalla seconda affiche rouge, affissa sui muri di Parigi la notte tra il 6 e il 7 gennaio 1871.5 E l’ha aperta con un comizio convocato in place de la Bastille per il 18 marzo, anniversario senza equivoci, e con un discorso posto sotto l’egida di Jules Vallès e di Louise Michel.
Queste sono due immagini scattate da un amico, già pubblicate sul sito di storiAmestre nel 2012.
5-6. Fonte: https://storiamestre.it/
Diciamo che a Parigi si fa presto a essere evocativi: le colonne continuano a dominare le piazze, i cieli e le mobilitazioni. Torniamo al 1871:
7. Fonte: http://www.raspouteam.org/1871/?p=206
8. F. Mathis, Le couronnement de l’édifice (1871). Fonte: http://www.photo.rmn.fr/
9. La colonna abbattuta in place Vendôme (1871). Fonte: gallica
La prima è una litografia (probabilmente ritoccata) relativa alle manifestazioni cominciate il 24 febbraio 1871, in occasione dell’anniversario della rivoluzione del 1848, che crearono un clima pre-rivoluzionario in città. Qualcuno aveva scalato la colonna per sistemare tra le mani del “genio della libertà” che la sormonta una bandiera rossa (o che comunque immaginiamo rossa e non tricolore).
Immagine ripresa per una colonna allegorica, quella disegnata da F. Mathis, caricaturista celebre solo per questo lavoro, che rappresenta la successione dei regimi dal 1830 in poi: Luigi Filippo, quindi Napoleone III, poi Thiers; ma la bandiera della Comune riuscirà a sovrastare l’uomo di tutti i regimi (si noti che dalle mani di Thiers cade una pera, un’allegoria di Luigi Filippo sin dai primi anni 1830,6 a segnalare che la repubblica del 1870 era nelle mani di un orleanista). La Comune, secondo il titolo della stampa, “coronerà l’edificio”.
Infine, la terza colonna è quella di place Vendôme, abbattuta dalla Comune il 16 maggio 1871 in quanto simbolo napoleonico e militarista per eccellenza: la Francia che non vogliamo più essere. La colonna della Bastille e la colonna Vendôme sono due simboli contrapposti: si disputano il cielo di Parigi, secondo una bella immagine di Jacques Rougerie; ma anche lo spazio, nel senso che una si trova nel mezzo della Parigi popolare, all’imbocco di uno dei quartieri rivoluzionari per eccellenza, il faubourg Saint-Antoine; l’altra nel mezzo dello spazio borghese (ancora più borghese dopo il rinnovamento urbanistico realizzato sotto Napoleone III e il prefetto Haussmann) tra la rue Saint-Honoré, la Madeleine e i Grands Boulevards.
In questi ultimi anni anche il tema dei beni comuni ha spinto a ritornare alla Comune. Per non parlare della resistenza di Kobane, altra questione di cui non so nulla di preciso, ma che può risuonare, e in certi ambienti militanti risuona, in sintonia con l’esperienza della Comune.
Come già dicevo, c’è un’attualità storiografica, oltre che politica, del XIX secolo, riletto oggi come il punto di partenza e dell’affermazione di una “modernità” che ha prodotto problemi in cui tuttora ci dibattiamo. Tenendo spesso presente l’ispirazione di quel che fece Walter Benjamin negli anni Trenta, storici e storiche rivisitano l’Ottocento come luogo di alternative scartate, come epoca dove altri individui – uomini e donne – hanno discusso e proposto, pur venendo sconfitti, modi di pensare e di organizzare la società diversi da quelli che hanno prevalso (anche all’interno della sinistra), e che perciò oggi tornano a sollecitarci.7
Per usare le parole di Jacques Rougerie, nella prefazione del 2004 al suo classico Paris libre 1871:
Autonomie et participation politique, identification maximale entre gouvernants et gouvernés: l’homme de 1871 n’a décidément rien de «passéiste» ; il serait plutôt notre contemporain. […]
Quête d’une démocratie vraie ! Ne reconnaissons-nous pas là, à bien des signes aujourd’hui, des problèmes toujours posés ? Cette «utopie» de 1871 – l’utopie est un ferment nécessaire à la démocratie – fait aussi partie de notre patrimoine .8
A chi appartiene la sovranità e come si esercita, il valore e i limiti del voto, quali sono i rapporti tra governanti e governati, qual è il senso della parola “repubblica”? E ripensare l’utopia è un’altra delle questioni chiave, per una storiografia che si sforza di rileggere, in modi nuovi, la storia del movimento operaio.
Da questioni analoghe muove il recente libro di Kristin Ross, L’imaginaire de la Commune9, uno di quei titoli che Cervelli cita nella sua prima nota, per segnalare che non ha potuto usarli perché il suo libro era ormai in lavorazione. Nelle pagine di Kristin Ross, peraltro discutibili, il tema dell’attualità politica della Comune è spinto fino alla cronaca contemporanea, legando per analogia movimenti come Occupy e altre sensibilità – o resistenze – contemporanee alla tradizione comunarda. Su un punto in particolare insiste la Ross, ovvero che per molti aspetti le vite di molti uomini e donne, tra XX e XXI secolo, hanno caratteristiche che li accomuna con quelle vissute nel XIX secolo: precarietà, privazione del controllo sulle proprie vite e sulle proprie scelte (o su quelle relative al luogo in cui si vive), lavoro che non fa guadagnare abbastanza per vivere, disuguaglianze abissali, distanza governati e governanti, ma anche un nuovo sconvolgimento dell’ambiente in cui viviamo. Rispetto ai nostri antenati la nostra condizione resta decisamente migliore (si tenga conto oltretutto che la riflessione si inscrive nel nostro mondo occidentale), ma la nostra posizione è sempre più simile a quella che fu la loro.10
Insomma, una questione politica e storiografica allo stesso tempo, che – dal momento che le domande degli storici vengono formulate nel presente – può essere alla base di un rinnovamento della storia del movimento operaio. Pensando anche che il movimento operaio nasce dall’esperienza di lavoratori che restavano senza lavoro, o avevano lavori non pagati a sufficienza, ma vedevano la dignità del saper fare e rapporti paritari, non gerarchici, come base della convivenza umana.
4. Questo, mi pare, è il contesto in cui pensare al libro che oggi ci propone Enzo Cervelli, a cui finalmente ritorno, cominciando dal quadro utilizzato per la copertina (non so scelto dall’autore o dall’editore).
10. Clément-Auguste Andrieux, La queue devant la boucherie. Siège de Paris, 1870. Fonte: https://www.histoire-image.org/
Ci rimanda a una delle questioni cruciali dell’assedio, il cibo o, meglio, la fame. Coda davanti a una macelleria comunale, donne e uomini in coda, alcuni volti dai tratti ben distinti, altri invece indistinti, qualche segno esteriore che permette di identificare la condizione sociale o il ruolo: cappello a cilindro e redingote borghese o piccolo-borghese; l’uniforme dei soldati e delle guardie nazionali; una donna del bel mondo è a passeggio con il suo cane, una delle donne in coda le punta un dito contro (tema analogo a quello di Boule-de-suif?), ma il bersaglio si direbbe essere il cane (che dovrebbe diventare cibo, per una popolazione che si nutriva di ogni genere di carne animale reperibile in città, da quella di elefante – dallo zoo – a quella di ratto). Da un lato delle affiches, su una si legge a malapena “Des canons encore … canons”, forse una colletta patriottica (i cannoni della guardia nazionale erano stati pagati dai parigini)? Dall’altro lo strillone con le notizie (di cui la città sotto assedio era sempre avida), proprio sotto la plaque con il nome della via: Bonaparte. Siamo a un angolo formato da rue Bonaparte e place Saint-Sulpice, che si vede sullo sfondo, piena di soldati; è peraltro uno scorcio non realistico, l’edificio che ospita la boucherie non esiste, o se non altro non può essere fatto così.
In copertina c’è solo il dettaglio che inquadra le donne e le bambine intorno a poche verdure fresche. È un quadro che non conoscevo e sono andato subito in cerca dell’immagine integrale. Ecco, il libro di Cervelli è anche questo: un autore che offre consigli che val la pena di seguire, che vi immerge in letture, che sono le sue, di grande bellezza e interesse. Per esempio non avevo mai letto, e mi sono affrettato a farlo, l’articolo di Blanqui Les marauders, dedicato a chi si spingeva nella terra di nessuno tra le fortificazioni parigine e le linee prussiane, per cercare un po’ di cibo da vendere in città: che sia una marauder anche la donna in primo piano nel quadro che abbiamo appena visto? Il libro di Cervelli è amorevole verso le sue fonti prediletto, tratta con sollecito affetto le letture di cui è fatto (ovviamente non tutte allo stesso modo: i reazionari no), e che questo affetto trasmette ai suoi lettori.
Vorrei ora ripercorrere brevemente alcuni aspetti del libro, in cui non è sempre facile orientarsi, seguendo tre parole chiave.
5. La prima è calendario, termine che l’autore mette subito in avanti dall’introduzione (“un calendario fitto di sincronismi”, p. 10) e che poi ricorre spesso, soprattutto nei primi tre capitoli.
Quella di Cervelli è una cronaca che procede per via lineare, cercando di mostrare come si concatenano eventi e reazioni in un tempo relativamente corto e in uno spazio ristretto, ma dai confini dilatabili (Parigi è assediata, chiusa in se stessa da metà settembre a fine gennaio, ma si aspettano notizie da fuori, e se non arrivano ci sono voci). In qualche modo significa cercare di stabilire gli elementi di quella miscela gassosa che infine si innesca il 18 marzo. Naturalmente rubo l’immagine all’Apologia della storia, dove Marc Bloch parlava della rivoluzione del febbraio 1848. Questo implica una riflessione su “come nascono le rivoluzioni?” (per riprendere, in questo caso, il titolo di un celebre articolo di Ernest Labrousse dedicato al trittico 1789-1830-1848) e qualche escursione, implicita o talvolta esplicita, su temi classici della storia del movimento operaio e della Comune in particolare, tra cui le rivoluzioni fallite come “scuola” per le rivoluzioni a venire. È una tradizione a cui, verso la fine, Cervelli non sfugge, verso la fine, quando aderisce al giudizio di Gaston Da Costa: il 18 marzo, lasciare che i soldati dell’esercito uscissero da Parigi seguendo l’ordine di Thiers, senza tenerli in città, fu un errore madornale, il primo fatale alla Comune.11 Sono discussioni che a lungo hanno dominato l’orizzonte dei lavori sulla Comune, con i suoi “errori” eventualmente emendati nel 1917.
In questa miscela gassosa c’era ovviamente l’elemento guerra, con l’altro elemento “patriottismo”, ovvero il fatto che l’opposizione al governo Thiers prende le mosse anche dalla volontà di non capitolare, di continuare la guerra “a oltranza”; questo anche se poi la Comune sarà internazionalista e antimilitarista. Quello che si gioca attorno al nesso guerra-rivoluzione è una questione cruciale e sempre attuale.
Il calendario ha ritmi alterni, con punte nelle giornate che avrebbero potuto essere rivoluzionarie prima del 18 marzo, cioè il 31 ottobre e il 22 gennaio, in entrambi i casi a ridosso di sortite fallite; con tempi che si dilatano nei mesi dell’assedio, segnati soprattutto dalla “guerra ai civili” (la città affamata, il 5 gennaio comincia anche il bombardamento sulla città); e infine un calendario la cui cadenza pian piano accelera dopo l’armistizio e le elezioni dell’8 febbraio, e soprattutto dai primi di marzo.
Calendario insomma rimanda sia alla costruzione narrativa di Cervelli, che al suo sforzo direi filologico: l’incrocio di testimonianze e ricordi ha lo scopo anche di precisare la fine cronologia degli eventi, minuto per minuto nei momenti cruciali, appianando divergenze su ricostruzioni alternative e quindi responsabilità di quanto accadde; mentre viceversa la cronologia e i fatti stabiliti possono validare o invalidare l’attendibilità di certi testimoni. E soprattutto, un calendario fine per stabilire quando certi problemi o certe idee cominciano a venire in mente, o a essere discusse, o a diffondersi.12
6. La seconda parola chiave è inconnu, o obscur. La Comune è cosa di sconosciuti, di oscuri; oscuri fino al 18 marzo e in molti casi anche dopo. Sono quelle persone, uomini e donne, che fanno la coda davanti a quella boucherie communale del quadro che abbiamo visto prima, di cui talvolta il pittore non restituisce nemmeno il volto.
È proprio alla ricerca di questi volti di parigini e parigine che Cervelli convoca alcuni dei suoi testimoni, come Henry William Markheim, uno di quelli a cui l’autore è più affezionato. Citando un passo del diario di Markheim, alla data di giovedì 1° dicembre sera – sono i giorni di uno dei tentativi di sortita fatti dall’esercito francese –, Cervelli commenta: “[d]iversi gli aspetti del volto urbano di Parigi registrati da Markheim sulla base del suo incuriosito e partecipe girovagare pomeridiano” (p. 137); ma più che il “volto urbano” sono appunto i volti dei cittadini a essere scrutati.
Insieme ai volti le voci, nei club, con Gustave de Molinari, che nei mesi dell’assedio faceva il giro dei “clubs rouges” (ispirato da quel che fece il Frédéric Moreau di Flaubert nel marzo 1848?) registrandone gli interventi. Ecco allora in rue d’Arras, il 13 gennaio: un giovanissimo che “un po’ per caso” si trova a presiedere la riunione, e siccome nessuno prende la parola tiene la tribuna per più di un’ora “avec une facilité singulière – come riconobbe un Molinari evidentemente colpito da questo inedito protagonista – et une verve endiablée” (p. 277, il corsivo è mio).
C’è forte l’idea della prise de parole, di cui tanto si è occupata la storiografia più o meno recente.13
Un altro esempio: il caso di Edouard Moreau, la cui personalità emerge a partire dalle manifestazioni del 24 febbraio e avrà un ruolo nella vicenda della Comune, tanto da essere tra i fucilati di maggio. Stando a Lissagaray (citato da Cervelli a p. 412), fin lì era “un totale sconosciuto, questo piccolo intermediario commerciale [commissionaire en marchandises]”. Quel che si sa di lui si deve a Vuillaume, che raccolse una documentazione da cui Cervelli (ibidem) trae due biglietti, frammenti che Moreau scrisse per i suoi cari.
24 février. J’ai pesé de tout mon poids pour fortifier cet esprit de résistance à outrance. Si vous ne devez plus me revois, je vous dis adieu.
Hôtel de Ville, 19 mars. Nuit. Nous avons réussi et je ne suis pas mort. Comment cela se fait? Si, dans la position toute exceptionnelle où nous nous trouvons, il m’arrive quelque chose, vous direz à mon fils que son père a siégé à l’Hôtel de Ville et a signé de décrets.
Non è che, sapendo che Moreau sarebbe stato fucilato dai versagliesi il 25 maggio 1871, Cervelli suggerisca di leggere questi frammenti come una “lettera di un condannato a morte della resistenza”?
Un’ultima citazione, questa volta dalla parte governativa, siamo al 18 marzo e viene diffuso un appello a cessare l’insurrezione:
On répand le bruit absurde que le gouvernement prépare un coup d’État. Le gouvernement de la République ne peut avoir d’autre but que le salut de la République. Les mesures qu’il a prises étaient indispensables au maintien de l’ordre, il a voulu et il veut en finir avec un Comité insurrectionnel dont les membres, presque tous inconnus à la population, ne représentent que des doctrines communistes… (p. 444, il corsivo è mio)
Inconnus più che altro al governo, probabilmente ben noti alla popolazione, se non altro nel loro quartiere (la dimensione locale, se non “microlocale”, è fondamentale nella Parigi del XIX secolo). Ma questa “montée”, questo assalto al cielo è così sorprendente, così inedito, da turbare anche chi si trova nel movimento, come Jules Vallès: “Allons! J’ai encore, moi, le défenseur des humbles, l’inquiétude des redingotiers devant les noms obscurs!” (così nell’Insurgé, citato da Cervelli a p. 453). Dove redingotiers sta per borghesi.
Dare un volto ai comunardi. Anche questa è una questione direi classica: Enrico Zanette che ha studiato le biografie e le autobiografie dei comunardi ne sa qualcosa.14 Quando diciamo “comunardi” spesso pensiamo ai membri della Comune, perdendo di vista la coralità di quell’evento. È un rovello di gran parte degli storici che hanno studiato questi eventi, Jacques Rougerie in testa. Una questione che ci porta a un vero problema storiografico e del mestiere di storico: come trovare tracce di quegli uomini e di quelle donne? Come restituirle? Un problema umano, credo, che si traduce in una questione di fonti e di archivi, ma anche di scrittura.15
7. La terza parola chiave è mélange, ossia la miscela di idee e identità politiche che si gioca nei mesi dell’assedio e poi nella Comune. Le casacche fisse, magari attribuite sulla base di precedenti esperienze biografiche, o peggio di quel che sarebbe accaduto dopo, funzionano fino a un certo punto. Scrive per esempio Cervelli a p. 385: “Fra blanquismo, internazionalismo e Comitato centrale repubblicano dei venti arrondissements si andava costituendo un denominatore comune al di là delle più o meno brevi, a volte sovrapponentesi, stagioni biografiche o appartenenze prevalenti in un singolo: un’idea di gauche”.
Emerge così anche un’altra idea, ovvero che è sulla base dell’esperienza, e di esperienze condivise, che questioni ideologiche si fanno pratiche concrete, e che viceversa sono la pratica e l’esperienza a essere fondamentali nel far maturare certe idee. Nella Parigi degli anni 1840 non si diventa socialisti per aver letto Louis Blanc, è nelle quotidiane pratiche sociali che si inscrive l’orizzonte della repubblica democratica e sociale.16
8. Arrivo alle conclusioni, mie e del libro. Per chiudere la sua cronaca Cervelli dà la parola a Claudio Pavone, le celebri righe di Una guerra civile in cui si definisce il termine “moralità”.17 Come Pavone, anche Cervelli ci mostra, e riflette su, uomini e donne chiamati da particolari circostanze storiche ad agire, sulla scorta dei propri convincimenti, in autonomia e in piena responsabilità, senza le tradizionali coperture istituzionali garantite dallo Stato, e anzi contro chi rivendica per sé la legittimità dello Stato; uomini e donne che durante una guerra civile cercano di inventarsi nuovi rapporti di convivenza, improntati alla triade libertà, uguaglianza, fraternità, e devono confrontarsi con l’esercizio della giustizia e della violenza.
È una conclusione che oltre che sul 18 marzo (e sul maggio 1871)18 ci proietta sul nostro 25 aprile, ormai vicino.
Tre ultime considerazioni.
1) Chiudere con Pavone può anche illuminare retrospettivamente il libro: si può riconoscere nelle pagine sull’assedio, la fame, le bombe, il freddo – in poche parole sulla “guerra contro i civili” – un dialogo a distanza con la storiografia recente sulla seconda guerra mondiale.
2) Cervelli ci ricorda così un metodo: che è bene leggere buona storiografia, senza ulteriori etichette specialistiche.
3) Anche per casi fortuiti mi trovo molto in sintonia con questo passare dalle rivoluzioni del XIX secolo alla Resistenza e alla Liberazione. Anni fa, scrivendo una biografia solo parziale di Carlo Levi, concludevo che ero felice di lasciarlo ancora vivo e vegeto, nel 1945, mentre lasciava Firenze, dove aveva militato nel Partito d’Azione ed era stato un membro importate del Comitato di Liberazione Nazionale Toscano, per raggiungere Roma solo con una valigia leggera. Sono riconoscente a Cervelli che ci lascia, con Lefrançais, sulla soglia del 18 marzo, giorno carico di tante speranze e tanti possibili: “19 marzo. Il sole è diventato comunardo – scriveva Lefrançais –. Una brezza primaverile agita la bandiera rossa che sventola, gioiosa, sull’Hôtel de Ville, circondato di cannoni”.19
I cannoni difesi dai comunardi, che ci fanno tornare al complicato nesso guerra-rivoluzione che si annoda intorno alla Comune. Ma per oggi mi fermo qui.
Post-scriptum. Mi fa piacere lasciare traccia scritta di due cose su cui Cervelli è tornato durante la discussione. Per prima cosa, l’autore ha voluto confermare la sua “empatia” nei confronti delle sue fonti, dei suoi testimoni, e in generale dei parigini e le parigine sotto assedio.20 In secondo luogo è tornato sul confronto a distanza tra 1871 e 1943-45, ricordando l’impressione avuta immergendosi nelle discussioni e nei documenti prodotti nei mesi dell’assedio e della Comune di Parigi: che ci fosse qualcosa che risuonava nelle discussioni e nei documenti prodotti dalle repubbliche partigiane del 1944. Fare in modo di garantire a tutti l’indispensabile, e da qui cominciare a immaginare e a praticare una nuova organizzazione della società e dei rapporti umani. Questo è il nesso, non tanto la questione della guerra civile.
Qualche giorno dopo la presentazione del libro, appunto intorno al 25 aprile, su consiglio di Piero Brunello, ho letto l’introduzione scritta da Manlio Calegari e Marco Codebò al numero di Quaderni di storia e memoria dedicato a Lo spirito della Resistenza.21 Si parla di attualità non tanto della Resistenza, ma della “resistenza” con la minuscola, termine che “rifiorisce” (ma proprio per il suo remoto collegamento con quello scritto con la maiuscola) nel momento in cui “divorzia” da rivoluzione. Ecco tornare il nesso che, sulla scorta di quel che Cervelli ci propone (ma non so se l’autore si riconoscerà in questa lettura), ho cercato in più punti di mettere in luce: oggi anche la Comune ci sollecita più come forma di resistenza, che non come rivoluzione e presa di potere.
- “Il Gazzettino Rosa”, 15 aprile 1871. [↩]
- Cfr. Un comunista «libero». Nota su Gustave Lefrançais, “Studi Storici”, a. 49, n. 3, 2008, pp. 561-665; Verso la Comune. A margine di una lettera di Marx a Kugelmann, ivi, a. 50, n. 4, 2009, pp. 837-963; L’«Evasion» del dottor Lacambre. Frammenti tra il 1848 e la Comune, ivi, a. 51, n. 2, 2010, pp. 281-365 (a cui l’autore rimanda nella prima nota del suo libro, segnalandolo come una sorta di premessa al volume). Ne aggiungo un quarto, uscito più indietro nel tempo, dedicato al più celebre chef de barricade del giugno 1848: Emmanuel Barthélemy, in memoria, ivi, a. 41, n. 2, 2000, pp. 277-402. [↩]
- Cervelli, Un comunista «libero» cit., p. 656. [↩]
- Altro gesto ottocentesco, e naturalmente anche benjaminiano, è quello di fermare il tempo, sospendendo il calendario: il movimento “la nuit debout” lo ha fermato al marzo, parlando di 32, 33, 34 marzo… al posto di 1, 2, 3 aprile. Tutto si può discutere, tranne che sul fatto che i manifestanti parigini cerchino di mettere in scena solenni momenti simbolici. [↩]
- Si vedano le pagine di Cervelli, Le origini della Comune cit., pp. 245 e ss.. [↩]
- Rimando al recente Fabrice Erre, Le règne de la poire: caricatures de l’esprit bourgeois de Louis-Philippe à nos jours, Champ Vallon, Seyssel 2011. Nell’illustrazione di Mathis c’è da notare ancora il coq gaulois che fa a beccate con l’aquila napoleonica: anche in questa immagine si sovrappongono vari temi, tra cui quello di stabilire di che Francia si parla. [↩]
- Per una rassegna recente, cfr. Emmanuel Fureix, François Jarrige, La modernité désenchantée. Relire l’histoire du XIXe siècle français, La Découverte, Paris 2015. O in altre parole: quei “volti dimenticati del XIX secolo, che sono anche […] gli angoli morti del nostro presente”, cfr. Maurizio Gribaudi, Pierre Leroux et La Grève de Samarez. Fragments d’un rêve oublié, in Genre et utopie. Avec Michèle Riot-Sarcey, sous la dir. de Laurent Colantonio et Caroline Fayolle, Presses Universitaires de Vincennes, Paris 2014, p. 213 (pp. 213-247). [↩]
- Jacques Rougerie, Paris libre 1871, Seuil, Paris 2004, pp. XI e XII. [↩]
- Kristin Ross, L’imaginaire de la Commune, La fabrique, Paris 2015, che ha di poco preceduto l’edizione in inglese: Communal Luxury: The Political Imaginary of the Paris Commune, Verso, New York. L’autrice propone una cronologia delle origini della Comune che parte dai fermenti del biennio che la precede: è anche un modo per sganciarla dalla contingenza della guerra e dalla sfera del patriottismo/nazionalismo. E dilata la Comune, per via delle sue conseguenze, fino alla soglia degli anni 1880. [↩]
- Cfr. Ross, L’imaginaire de la Commune cit., pp. 7-16 [↩]
- Cervelli, Le origini della Comune cit., pp. 443 e ss., in part. p. 451. [↩]
- Per esempio, quando si definisce il pensiero comunalista di Lefrançais? Il 31 ottobre è un’esperienza decisiva; cfr. Cervelli, Le origini della Comune cit., p. 165. [↩]
- Il pensiero va, per tutti, all’ormai classico Jacques Rancière, La nuit des prolétaires, Fayard, Paris 1981, riedito più volte, vedi ora Pluriel, Paris 2012. Si veda anche l’antologia curata da Rancière con Alain Faure: La parole ouvrière 1830-1851, Union générale d’éditions, Paris 1976, ora La fabrique, Paris 2007. [↩]
- Rimando a Enrico Zanette, Criminali, martiri, refrattari. Usi pubblici del passato dei comunardi, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2014; una presentazione del libro anche sul sito di storiAmestre. [↩]
- Pensare la storia “dal basso”, per usare una vecchia formula? Dare corpo, a individui che non hanno lasciato tracce di sé, o poche, restituire le loro esperienze che ci sembrano cruciali, e che sono anche le nostre, è la spinta che anima anche le ricerche di Maurizio Gribaudi, Paris, ville ouvrière. Une histoire occultée 1789-1848, La Découverte, Paris 2014, che cito per ricordare appunto un ambito – sia pure affrontato con strumenti e soluzioni molto diverse – entro il quale il libro di Cervelli può essere letto. [↩]
- Questo il tema del libro di Gribaudi citato alla nota precedente; ma si veda anche Jacques Rougerie, Le mouvement associatif populaire comme facteur d’acculturation politique à Paris de la Révolution aux années 1840. Continuité, discontinuités, «Annales historique de la Révolution française», 297, 1994, pp. 493-516, che l’autore ha messo a disposizione online sul suo sito. [↩]
- Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino 1991, p. X, che qui riporto per esteso: “Moralità è parola particolarmente adatta a disegnare il territorio sul quale si incontrano e si scontrano la politica e la morale, rinviando alla storia come possibile misura comune. Si trattava, fin dove era possibile, di calare in contingenze storiche, presentatesi in prima istanza in veste politica, alcuni grandi problemi morali e, reciprocamente, di mostrare come le stesse contingenze storiche rinviassero necessariamente a quei problemi”. [↩]
- Le pagine di Cervelli sulle origini sono percorse dalla tensione degli eventi a venire: la questione cruciale è la scelta di giustiziare gli ostaggi, eseguita nelle concitate giornate della semaine sanglante. Su questo si veda anche il già citato articolo Un comunista «libero» cit. [↩]
- Citato da Cervelli nell’originale francese, p. 457. [↩]
- Cervelli ha precisato che il termine “empatia” gli è stato suggerito da Haim Burstin; questi se ne serve in un libro recente per descrivere il proprio approccio allo studio della Rivoluzione francese: “Per rapporto empatico, però, non si intende qui un’esaltazione acritica e militante della rivoluzione, bensì quel tanto di immedesimazione capace di mettere in moto una curiosità analitica…”; cfr. Haim Burstin, Rivoluzionari. Antropologia politica della Rivoluzione francese, Laterza, Roma-Bari 2016, p. VIIII (versione italiana del libro uscito in francese Vendémiaire, Paris 2013. [↩]
- “Lo spirito della Resistenza nell’Italia contemporanea”: note a margine d’un convegno, “Quaderni di storia e memoria”, dicembre 2014, supplemento a “Storia e memoria”, 2, 2014, pp. 9-27, in particolare 11-12. [↩]
C.P. dice
Grazie per questa interessante presentazione, leggerò il libro. E grazie a storiAmestre per mantenere viva e aperta in Italia una dicussione sulla Comune.
Enrico dice
Due sollecitazioni: 1. Un altro problema storiografico è quello dell’ambivalenza dei gesti, delle parole e delle pratiche: le stesse cose possono significare cose diversissime; e non è sempre facile distinguere.
2. Mi piace molto quest’idea della Comune come resistenza.