di Francesco Selmin
Per gentile concessione dell’autore e dell’editore, pubblichiamo parte del terzo capitolo del libro di Francesco Selmin, Ammazzateli tutti! Storia di banditi del Veneto, Cierre, Sommacampagna (Verona) 2016, dedicato alle gesta della banda Bedin, attiva alla fine degli anni Trenta, ma con esiti che arrivano fino alla Resistenza. La ricerca di Selmin affronta nel complesso tre casi di banditismo nel Veneto, in particolare nell’area della Bassa Padovana: le insorgenze del 1809, il brigantaggio represso dalle autorità austriache a metà Ottocento, e infine la banda Bedin. Le analogie tra i tre casi rinviano ai caratteri sociali di lungo periodo di una società bracciantile.
Sulla strada del delitto
Giuseppe Bedin nasce il 25 marzo 1901 a Monselice in via Vetta, una strada comunale che, partendo dal cimitero, si inoltra nella campagna in direzione di Pozzonovo: il padre Girolamo è contadino, la madre Anna Rocca casalinga. Da ragazzo aiuta i genitori nel lavoro dei campi. Nel febbraio 1922 parte per il servizio militare. Il 23 settembre dello stesso anno si sposa a Monselice con Enrichetta Molon, che meno di un mese dopo il matrimonio dà alla luce Dino, il figlio primogenito. Terminato il servizio di leva, tenta la fortuna emigrando in Francia. Per qualche tempo si stabilisce a Maizières-lès-Metz, nella regione mineraria della Lorena, dove il 1° luglio 1925 la moglie partorisce il secondogenito Bruno.
Nel 1928 è nuovamente a Monselice (ora abita in via Buffi 3), dove il 28 marzo nasce Vilma, l’ultimogenita. Riprende a lavorare nei campi, probabilmente alle dipendenze di un’azienda agricola della zona, dal momento che all’anagrafe di Monselice risulta «bracciante». Come è frequente per i braccianti avventizi della Bassa, per sbarcare il lunario fa anche altri lavori precari. Secondo alcune testimonianze, avrebbe cominciato a lavorare anche come muratore e come meccanico.
Nel novembre 1934 prende la residenza a Este, nella piccola frazione di Schiavonia, ai confini con il territorio di Monselice. All’anagrafe dichiara di esercitare il lavoro di commerciante, ma nel 1936 viene cancellato dai registri anagrafici di Este per irreperibilità. Il fatto è che Bedin è costretto alla latitanza perché inseguito da numerosi mandati di cattura da almeno un paio di anni, da quando cioè il giovane monselicense ha imboccato decisamente la strada del crimine.
Le radici di questa svolta nella sua vita vanno verisimilmente cercate nella pratica di commerci illegali, di quel mercato nero che era molto diffuso nell’ambiente in cui Bedin era cresciuto, essendo alimentato dai furti compiuti dalla numerose bande di malviventi che infestavano la zona. […]
Per i giornali, interamente piegati all’esaltazione del regime fascista e della sua efficienza, ad avviare Bedin e i suoi complici sulla strada del delitto sarebbe stata l’esperienza dell’emigrazione in Francia. Anzi quelli della banda Bedin, scrive qualche giornale, sono più francesi che italiani. […]
Più probabilmente, è nell’esperienza del carcere e nel rapporto con pregiudicati quali Ottorino Cartini, e successivamente Severino Urati, che in Bedin matura il salto dalla microillegalità, quasi una continuazione del furto campestre, alla grande criminalità, che implica di norma l’uso delle armi da fuoco e dell’automobile.
Tre luogotenenti, quattrocento fiancheggiatori
Ottorino Cartini, detto «Mario il Longo», è un pregiudicato nato a Dolo nel 1904, ma residente a Ponte di Brenta, località alle porte di Padova. In ordine cronologico è il primo dei tre luogotenenti del bandito monselicense, il suo braccio destro. Nelle cronache del «Veneto» si legge che supera il capo «in forza, agilità, temerarietà», ma non in astuzia. I due si incontrano dopo l’aprile 1934, quando Cartini esce dal penitenziario di Nisida dove ha scontato quasi 4 anni per furto aggravato.
Pochi mesi dopo Bedin entra in contatto con Severino Urati. Anche Urati, originario di Bozzolo, un paese della provincia di Mantova, vanta un’esperienza criminale non da poco. Nel 1933 a Marendole, località di Monselice, ha preso parte a una rissa conclusasi con la morte di uno dei contendenti. È sospettato come responsabile del delitto, ma riesce a sottrarsi alla cattura. Entrato nella banda di Bedin, diventa subito un altro luogotenente del capo, più temibile di Cartini, per la sua indiscussa spietatezza.
Tra il 1936 e il 1937, infine, entra nella banda Clemente Lampioni, originario di Legnaro, un paese non lontano da Padova, ma dal ʼ37 residente a Vescovana nella Bassa padovana. Lampioni, come Bedin, ha vissuto l’esperienza dell’emigrazione: nella seconda metà degli anni Venti ha lavorato per sei mesi in una miniera del Belgio. È il terzo luogotenente di Bedin, ma la sua è una figura più sbiadita dei primi due.
Clemente Lampioni con la moglie Iolanda Cecchinato nel 1929
A metà degli anni Trenta la banda è pienamente formata: da Bedin, il capo indiscusso, dai luogotenenti, prima due e poi tre, e da un numero di affiliati che oscilla tra venti e trenta. È questa la «famigerata banda Bedin», come viene correntemente chiamata sulla stampa nel triennio 1936-38, durante il quale semina il terrore nell’Italia settentrionale tenendo in scacco le forze dell’ordine.
Nelle loro scorrerie in Veneto e Lombardia, con puntate in Piemonte e in Emilia, il capobanda Bedin e i suoi soci svaligiano gioiellerie, rivendite di tabacchi e di tessuti, rubano veicoli di ogni tipo: biciclette, moto e motocarri. Assaltano camion e automobili, rapinano aziende grandi e piccole. Poi piazzano la refurtiva sul mercato nero, ma spesso con straordinaria audacia riescono a rivenderla sulle piazze delle città del Veneto e della Lombardia. […]
Parte della refurtiva, non quella più importante però, aveva un’altra destinazione. Veniva utilizzata allo scopo di creare un ambiente in cui Bedin fosse percepito come un giustiziere o almeno come un benefattore. Si attingeva abbondantemente dalla refurtiva per distribuire sussidi in denaro, ma anche aiuti di altro genere. Urati, per esempio, era solito convertire – lo si legge nelle cronache giornalistiche ‒ «buona parte dei biglietti da mille toccatagli nella divisione del bottino in bestiame agricolo, che distribuiva nelle cascine attorno a Monselice: poteva così chiedere ospitalità e dimorare anche per lunghi giorni».
Grazie a queste scelte, oltre che sugli affiliati veri e propri, Bedin poteva contare su una folta schiera di fiancheggiatori. Più avanti vedremo che la polizia ne individuerà circa 400. E quando nel 1940 e 1941 si celebreranno i processi alla banda molti di questi fiancheggiatori saranno incriminati per ricettazione e favoreggiamento. Nelle loro case la polizia scoverà una parte cospicua della refurtiva proveniente dai molti colpi messi a segno da Bedin. […]
Da qui ha origine la fama di Bedin difensore dei poveri e dei deboli, quasi un Robin Hood della Bassa.
Difensore dei deboli, quasi un Robin Hood
«Bedin che ruba ai ricchi per donare ai poveri»: è questa la voce che si diffonde nelle campagne della Bassa, e da lì anche su un territorio più vasto. A questo proposito sul «Corriere della sera» (29 settembre 1986) Patrizio Fusar ha azzardato un paragone oltremodo ardito: «Bedin per quel che ho capito dai racconti dei testimoni, era una specie di Che Guevara dell’Alta Italia. Il suo carisma si appoggiava a giustificazioni di tipo sociale».
Una forzatura verisimilmente, quella di Fusar, eppure è indubbio che numerose sono le testimonianze che ci consegnano l’immagine di un bandito sociale, certamente più Robin Hood che a quella di Che Guevara. […]
Più articolato e approfondito di quello di Fusar è il profilo tracciato dallo storico Tiziano Merlin che inserisce la vicenda di Bedin nel contesto socioeconomico della Bassa:
[…] Atteggiatosi a difensore dei deboli, il bandito usa una parte dei proventi illeciti per mantenere alta la sua popolarità, aiutando i poveri, facendo beneficenza, incarnando insomma il personaggio del bandito buono. E questo ruolo gli riesce abbastanza bene se ai processi risulteranno più di quattrocento fiancheggiatori, se potrà vivere alla macchia, inutilmente braccato per quattro anni da polizia e carabinieri. Segno di una profonda inquietudine che allora serpeggiava nelle campagne padovane, di un profondo malcontento che spingeva a riconoscere in Bedin quasi il proprio campione, il vendicatore, i vecchi braccianti ricordano solamente la sua generosità nei confronti dei poveri, la capacità da lui dimostrata nel prendere in giro la forza pubblica, il coraggio evidenziato in tutte le occasioni, il senso di giustizia che lo animava.
Per suffragare queste considerazioni Merlin riferisce alcuni aneddoti raccolti in anni e anni di ricerche dedicate agli emarginati della Bassa. Per esempio, il seguente: «Bedin una volta, sul ponte dell’Adige, avendo incontrato un mendicante con la carrozzella, gli aveva tolto la “sacchetta” e gli aveva messo in mano una somma notevole». […]
Automobili e armi da fuoco: Dillinger come modello
Se nella spartizione della refurtiva si possono riconoscere comportamenti che evocano lo spirito del banditismo sociale, nelle gesta delittuose di Bedin e dei più autorevoli componenti della banda, invece, è più facile ravvisare i caratteri tipici delle modalità operative dei gangster americani del periodo della depressione. In particolare non pare una forzatura accostarlo a John Dillinger (1903-1934), il gangster statunitense di cui Bedin era pressoché coetaneo. D’altra parte va detto che anche Dillinger, che l’FBI considerava «il pericolo pubblico n. 1», si guadagnò la fama di Robin Hood perché al termine delle rapine bruciava i registri contabili in cui erano annotati i debiti e le ipoteche delle persone che versavano in gravi difficoltà economiche.
Il paragone è giustificato dalle due novità che caratterizzano l’operare della banda: il normale ricorso alle armi da fuoco e alle sparatorie, e l’utilizzo sistematico dell’automobile. […]
Forse più delle armi sono le automobili la vera passione di Bedin. Le esibisce come simbolo della sua forza, del suo successo, del suo potere. Ma sono anche il mezzo indispensabile per realizzare le imprese criminali che la banda può portare a compimento spostandosi velocemente in tutta l’Italia del nord: dal Veneto al Piemonte, dalla Lombardia all’Emilia. Senza l’auto la «famigerata banda Bedin» non sarebbe esistita. […]
Grazie alle automobili e alla esistenza di una vaste rete di fiancheggiatori e ricettatori diventa difficile per le forze dell’ordine sgominare la banda che nel frattempo ha accresciuto di molto il numero dei componenti avendo aggregato gran parte dei malavitosi del Monselicense. […]
I grandi colpi del 1938
Il 1938 per la banda Bedin è l’anno d’oro. Quattro rapine, messe a segno tra Veneto e Lombardia, fruttano somme astronomiche: in totale il bottino raggiunge i due milioni. Si tratta di quattro colpi spettacolari che sono realizzati in rapida successione e che fanno di Bedin «il nemico pubblico n.1», proprio come Dillinger in America.
Il primo colpo è realizzato a Bassano il 7 aprile. A due impiegati della Smalteria e Metallurgica Veneta, che hanno appena prelevato in banca il denaro per pagare i dipendenti e trovano l’ingresso dello stabilimento sbarrato da una Lancia Augusta scura, gli uomini di Bedin sottraggono l’intera somma: il bottino ammonta a 70mila lire in contanti.
Il secondo grande colpo, molto più clamoroso del primo, è messo a segno in luglio a Milano. Al cassiere della Pirelli i banditi strappano la borsa che contiene gli stipendi dei dipendenti della grande azienda. Il colpo frutta 860.000 lire in contanti e più di 100.000 lire in assegni. Cospicuo anche il bottino della rapina compiuta poco dopo a un berrettificio di Monza: 450.000 lire.
Per il quarto grande colpo Bedin torna nel basso Veneto, con l’obiettivo di una rapina allo Zuccherificio di Cavanella Po, in prossimità di Adria. Quest’ultima si configura come un’azione di tipo prettamente gangsteristico. Sulla strada Loreo-Adria, il 6 settembre, i banditi assaltano la Balilla su cui viaggiano il capo ufficio amministrativo dello Zuccherificio, il contabile e altre due persone. Dopo una sparatoria si impossessano di una cassetta contenente 430mila lire in denaro e assegni. Dure saranno le condanne dei banditi superstiti al processo celebrato nell’aprile 1940: Lampioni, l’unico luogotenente ancora in vita, avrà una condanna a 21 anni di carcere.
Di fronte ai colpi messi a segno nel ʼ38 le autorità fasciste non possono restare inerti: l’immagine del regime stesso è in certa misura scalfita, anche se l’autocensura dei giornali limita i danni. E tuttavia prendere banditi così audaci e sperimentati si rivela un’impresa molto ardua. Bedin e i suoi sembrano imprendibili: quando sono caduti nelle mani della legge son riusciti sempre a tornare liberi in breve tempo. Ma per il regime fascista, che con la proclamazione dell’Impero è giunto al punto più alto del consenso, i colpi del ʼ38 sono troppo pesanti: il fascismo non può più tollerare la latitanza e l’impunità di Bedin e dei suoi luogotenenti.
Il duce stesso, che si tiene aggiornato sulle imprese della banda, esige che si risolva a ogni costo il problema che imbarazza il regime. Le indagini sono affidate all’ispettorato di Pubblica Sicurezza dell’Alta Italia che, istituito alla fine del 1938, ha sede a Milano ed è diretto da Giuseppe Gueli, che ha il suo braccio destro nel vicequestore Pietro Alicò.
Il siciliano Gueli, il vero avversario di Bedin, abbandona i metodi seguiti fino ad allora per adottare quelli che aveva utilizzato nella lotta alla mafia nell’Italia meridionale. Prosciugare l’acqua in cui Bedin nuotava senza paura: questo il vero obiettivo di Gueli. Per conseguirlo era indispensabile isolare i banditi dal loro contesto, distruggere la rete delle connivenze e delle complicità, anche quelle minori.
Gueli procede al fermo di ben 400 persone, considerate fiancheggiatrici o contigue alla banda, e per farle «cantare» usa metodi pesanti. […]
Senza scampo
La sera del 6 marzo 1939, intorno alle 20, gli agenti al comando dell’ispettore Gueli intercettano Cartini lungo l’autostrada Padova-Venezia, all’altezza del settimo chilometro. A condurli sulle sue tracce è stato il pedinamento dell’amante del bandito. Dopo averlo riconosciuto gli intimano di fermarsi, ma il bandito, dopo una sparatoria, riesce a dileguarsi. Alcune macchie di sangue sulla scarpata mostrano però che è stato ferito seriamente e non può essersi allontanato di molto. La mattina seguente le forze dell’ordine individuano in prossimità di Ponte di Brenta la casa colonica in cui Cartini ha trovato riparo. Intorno alle undici la casa è circondata dalla squadriglia di carabinieri al comando di Gueli e da agenti della Questura. Poiché all’intimazione di resa il bandito risponde sparando da una finestra, Gueli decide l’irruzione. Cartini resta ucciso nello scontro finale, al quale prende parte lo stesso Gueli assieme agli agenti. […]
Per Bedin la morte di Cartini è sicuramente una perdita importante e allarmante. È il segnale che le forze dell’ordine intendono chiudere una partita che dura da troppo tempo. Ma anche dopo il punto segnato dalla polizia, di Bedin si continua ancora a parlare con ammirazione e timore per la sua abilità nel travestirsi e nello sfuggire alla cattura. Ne è una prova l’articolo pubblicato su «La Stampa» il 10 marzo intitolato Curiose dicerie popolari dopo l’uccisione del malfattore della banda Bedin in cui si dà notizia delle voci secondo le quali, subito dopo la morte di Cartini, con uno stratagemma Bedin sarebbe andato a visitarne la salma:
Un giovane sacerdote, che diceva di essere di passaggio, si faceva condurre nella stanza dove si trovava il cadavere del malvivente e gli impartiva la benedizione. Il numeroso popolo che stazionava nei pressi dell’abitazione, non conoscendo il prete, immaginava che potesse essere il temibile Bedin dato anche il suo comportamento irrequieto. D’altra parte, secondo voci che circolano, il Bedin doveva trovarsi la sera del conflitto non molto lontano ove questo si svolse. Probabilmente le supposizioni, come ben si comprende, è frutto di fantasia popolare che in questi giorni ravvisa in ogni sconosciuto il capo della banda o qualche associato.
In realtà in quella allarmante contingenza il problema più importante per Bedin, per il cui arresto era stata posta una taglia di 25mila lire, sembra essere stato quello di far perdere le proprie tracce. Il 19 marzo si rifugia a Casoni di Mussolente, non lontano da Bassano, dove riesce a farsi passare per un agiato commerciante.
A Casoni su raccomandazione di un maestro elementare Bedin trova ospitalità nella casa del cappellano del paese, don Orlando Biral. Nella stessa casa vive anche la sorella del sacerdote con la quale si mormora che Bedin abbia avuto una relazione.
Il mascheramento di Bedin non dura a lungo: un carabiniere di passaggio per Casoni lo riconosce e ne segnala la presenza ai superiori.
La notte tra il 3 e il 4 aprile l’ispettore Gueli fa scattare l’operazione decisiva. Su due pullman partono da Padova due squadriglie volanti di carabinieri e alcune pattuglie di agenti di P.S. Alle cinque di mattina raggiungono Casoni di Mussolente. Dietro le indicazioni di informatori locali circondano la casa del cappellano per bloccare ogni via di fuga, ma con l’abilità e l’audacia di sempre Bedin, impugnando una Berretta calibro 9, riesce a rompere l’accerchiamento. Inseguito dalle forze dell’ordine, si rifugia in una casa colonica isolata, dove abita la famiglia Farronato. All’inattesa intrusione i fratelli Francesco e Tarcisio Farronato, poco più che ventenni, reagiscono prontamente e coraggiosamente ingaggiando una violenta colluttazione con il bandito. Quando ormai Bedin è stato sopraffatto e non può più nuocere, arrivano gli agenti e i carabinieri. Gli attimi finali della vita di Bedin sono stati così ricostruiti da Patrizio Fusar:
Bedin, raggiunto da pugni violentissimi (infertigli da alcuni contadini nella casa colonica dove si era rifugiato qualche minuto prima, ferito ormai gravemente) era già ridotto all’impotenza, quando sopraggiunsero carabinieri e agenti di polizia che gli esplosero due colpi: al collo e in piena faccia.
Dalla ricostruzione di Fusar, ma anche da altre testimonianze, si desume che per le autorità era preferibile che Bedin non fosse catturato vivo. Evidentemente le forze dell’ordine avevano ricevuto, se non formali direttive, almeno il suggerimento, di eliminarlo fisicamente. […]
Con una singolare coincidenza temporale la mattina dello stesso 4 aprile, quasi alla stessa ora, la polizia, sotto la guida di Pietro Alicò, intercetta e uccide il temibile Urati a Gazzuolo di Mantova. Clemente Lampioni invece rimane uccel di bosco, ma soltanto per poche settimane. Viene catturato il 17 aprile 1939 a Verona con 5 proiettili in corpo dopo una sparatoria con gli agenti. […]
Il “vivo” compiacimento del duce
[…] Immediatamente dopo l’uccisione di Bedin e Urati, il capo della polizia Bocchini invia a Gueli il seguente telegramma:
[…] Il Ministero, mentre si riserva di esaminare le proposte di compenso che V.S. vorrà avanzare per i maggiormente meritevoli, è lieto di partecipare il vivo, alto compiacimento del Duce per l’opera della S.V. e di tutti i dirigenti e gregari.
[Il partigiano Lampioni]
Ma la storia della banda Bedin non finisce nell’aprile 1939. Ha degli altri capitoli, il più importante dei quali ha come protagonista Clemente Lampioni.
Nel 1943 Lampioni evade dal carcere di Ancona, dove scontava la condanna a 21 anni per la rapina allo Zuccherificio di Cavanella Po, e si unisce ai partigiani comunisti veneti del battaglione Stella, inquadrato nella divisione Garemi, assumendo come nome di battaglia “Pino”. Sull’adesione di Lampioni alla Resistenza il comandante partigiano Aronne Molinari ha raccontato che per entrare nel movimento partigiano Pino gli «parlò della sua vita trascorsa, avventurosa e disgraziata e della sua volontà di riscattarsi e combattere per una giusta causa». Fu una conversione che non tutti i partigiani videro di buon occhio.
Che «un ex galeotto, tanto più membro della banda Bedin, finisse in un distaccamento partigiano» scandalizzò Amerigo Clocchiatti, dirigente comunista e commissario politico della divisione “Garibaldi”, che temeva si diffondesse la voce che i partigiani erano «la continuazione della banda Bedin». Clocchiatti non risparmiò le critiche a Molinari, ma non si oppose all’inserimento di Lampioni nella formazione partigiana. Sta di fatto che “Pino” Lampioni combatté nel Vicentino diventando un protagonista della lotta partigiana. Catturato a Padova, fu impiccato il 17 agosto 1944 dalle Brigate Nere in via S. Lucia assieme al medico Flavio Busonera e a Ettore Calderoni.
Nel dopoguerra la vicenda resistenziale del bandito Lampioni è stata letta, in particolare nell’ambito della sinistra politica, come il riscatto di un criminale che si fa eroe e da eroe muore. Va detto peraltro che la metamorfosi da bandito a partigiano non è un fatto eccezionale, in particolare nella Bassa padovana dove, segnatamente nel Monselicense, come ha ampiamente documentato Tiziano Merlin in numerosi saggi, i passaggi dalla criminalità comune all’adesione alle formazioni partigiane furono numerosi.
«Il mio nome è Bedin»: i tre volti di un mito
Quando fu ucciso a Casoni di Mussolente, Bedin era già un mito nella Bassa, specialmente tra i ceti più poveri ed emarginati. In quegli ambienti, che a metà degli anni Trenta, quando il fascismo raggiunse l’apice del consenso, rappresentavano l’unica area di dissenso verso il regime.
Quando, negli anni della guerra, il dissenso si amplia e il fascismo si avvia verso il crollo a causa della sconfitta militare, anche il mito di Bedin tende a espandersi.
Un indice di questa espansione sta nella frequenza con cui negli ultimi due anni della guerra ci si impadronisce del suo cognome per assumere una nuova identità e condividere, almeno in parte, quella del bandito monselicense, un bandito che è percepito come un giustiziere.
«Il mio nome è Bedin» non sono pochi a dirlo. In primo luogo lo dicono i partigiani scegliendolo come nome di battaglia, ma non tutti i partigiani indistintamente. Quel nome si addice esclusivamente ai partigiani comunisti, quelli delle formazioni garibaldine.
Il primo a ribattezzarsi col cognome del bandito di Monselice è Lorenzo Lionzo di Schio, che nel 1944 diventa partigiano in una formazione dipendente dalla Brigata Stella. Il 6 febbraio 1945, quando viene ucciso a Priabona di Malo in un conflitto a fuoco il suo nome di battaglia è già da mesi «partigiano Bedin».
Poco più di un mese prima, il 27 dicembre 1944, presso le fabbriche Saccardo di Schio, la brigata nera del luogo aveva ucciso un altro partigiano inquadrato nel gruppo Brigate Garemi che aveva adottato lo stesso nome di battaglia: Ferruccio Riccardo Bravo “Bedin”. A questi e a Mario Ramina fu poi intitolato il Battaglione “Ramina-Bedin”.
Anche Domenico Francescatto, partigiano di Enego, assume il nome di battaglia “Bedin”, quando entra nella Brigata “Sette Comuni”.
Tutti e tre i casi citati riguardano il Vicentino, ma anche fuori del Veneto si incontrano partigiani che scelgono il cognome del bandito monselicense come nome di battaglia. […]
Il nome di Bedin non è buono solo per i partigiani. Lo adottano, per esempio, anche dei soldati. Soldati che vanno alla guerra: è il caso di alcuni coscritti della classe 1925, nati a Canelli, che il 13 agosto 1943 dovettero partire per la Francia. Scrive Gianna Menabreaz in un volume sui deportati nei lager nazisti:
Il giorno della partenza si erano dati convegno alla stazione, per andarsene tutti insieme; come si fosse trattato di un gioco, si erano autodefiniti la «Banda Bedin».
Fanno lo stesso anche soldati che tornano dalla guerra. È il caso di un gruppo di reduci dalla prigionia in Germania. Lo testimonia […] Orlando Dalla Mutta raccontando il ritorno dal campo in cui era stato prigioniero:
In prigionia eravamo uno da Calaone, uno da Sant’Elena, uno da Este ed io.. . Alla fine quando ci hanno preso gli americani, ci davano da mangiare una volta al giorno. Ci dicevano: Arrangiatevi…
Andavamo dentro nelle botteghe, compravamo tre o quattro robe e dopo due o tre di noi si mettevano le robe in tasca e partivano…
Ci siamo messi lo stesso nome della banda Bedin, perché conoscevamo la banda Bedin e perché andavamo a saccheggiare anche noi. Ma noi lo facevamo per mangiare.
Quando la guerra finisce, il mito di Bedin continua a vivere. Anzi, per un breve momento, sembra poter varcare i confini di una stretta appartenenza politica e ideologica.
Ce lo fa pensare una testimonianza di Tiziano Merlin: «È un fatto che nell’immediato dopoguerra, tra i bambini, solo il più gagliardo, colui che dimostrava più coraggio degli altri, poteva fregiarsi del soprannome di Bedin».
Bedin non affascina solo i ragazzi delle aree bracciantili della Bassa padovana. Dalle sue imprese banditesche furono ammaliati anche quelli della cattolicissima Vicenza, come ha testimoniato Fernando Bandini, raffinato poeta e scrittore, raccontando allo storico Emilio Franzina, allora impegnato in una ricerca sul banditismo sociale, dei suoi giochi infantili con i coetanei.
«Nel formare le squadre e nello scegliere chi le dovesse guidare – così Bandini rievocando gli anni che precedono immediatamente la seconda guerra mondiale ‒ i ragazzi si dannavano l’anima per potersi calare anche loro nei panni di Bedin e dei suoi compagni prendendone innanzitutto il nome». […]
Al termine di questa rassegna sulla sorprendente fortuna del nome del bandito monselicense è d’obbligo una riflessione sul suo mito.
Quello di Bedin è un mito plurimo, un mito che si presenta con almeno tre volti. Nella Bassa, segnatamente nelle aree bracciantili (e Bedin era stato un bracciante) il volto è quello del difensore dei deboli, di un bandito certamente, ma di un bandito giustiziere, di un nuovo Robin Hood, di uno che nelle sue imprese modernizza il furto campestre.
Per i coscritti chiamati al fronte il volto è quello di un eroe coraggioso, inafferrabile, sprezzante del pericolo. Lo stesso volto che irrompe nell’immaginario dei ragazzi quando giocano a guardie e ladri prima, durante e dopo la seconda guerra mondiale.
Anche per i partigiani Bedin è l’eroe senza paura, imprendibile, invincibile. Ma c’è un di più: rappresenta anche l’alterità nei confronti dello Stato, del potere costituito, e poiché allora lo Stato è fascista e capitalista, il bandito Bedin è in qualche modo antifascista e anticapitalista.
Da tutti questi volti la macchia del delitto viene, più o meno accuratamente, rimossa. Ma è una rimozione di breve durata, che non oltrepassa di molto la stagione della liberazione. Il mito di Bedin non ha il destino ‘fortunato’ (per meglio dire, relativamente fortunato) di Lampioni, a cui due comuni padovani (Cadoneghe e Legnaro, il paese natale) hanno recentemente dato cittadinanza nella toponomastica ufficiale.
Non è detto, però, che, se fosse scampato all’accerchiamento di Casoni di Mussolente, Bedin avrebbe in seguito imboccato la strada di Lampioni riscattando il passato criminale con l’adesione alla lotta di liberazione. Avrebbe potuto proseguire sulla strada del delitto come fecero, nel dopoguerra, alcuni membri della sua banda che si vendicarono spietatamente sugli uomini che li avevano perseguiti. A Milano tra coloro che il 28 aprile 1945 fucilarono Pietro Alicò c’erano – lo si scoprirà più tardi ‒ membri della banda Bedin. Quasi quattro anni dopo, il 27 marzo 1948, un altro membro della banda, Eugenio Mazzotti, uccise a Ravenna, prendendolo alle spalle, il brigadiere di P.S. Marsilio Piermattei, anche lui colpevole di aver dato la caccia alla banda Bedin agli ordini di Gueli.
Nota bibliografica
I dati anagrafici su Bedin sono tratti dagli archivi comunali di Monselice e di Este. Si veda inoltre la recente biografia di Leonardo Bortignon, Il leggendario bandito Bedin. La vera storia del Robin Hood veneto, Bassano del Grappa, Fraccaro, 2014. Molte notizie si ricavano anche da Tiziano Merlin, Storia di Monselice, Padova, Il Poligrafo, 1988.
L’influsso francese sulla banda Bedin è oggetto di vari articoli pubblicati sul quotidiano «Il Veneto»: Le origini parigine della banda Bedin (7-8 aprile 1939); I due banditi uccisi erano i luogotenenti di Calatrone (6 aprile 1939). Cenni anche in Attilio Crepas, Il romanzo della strada: quattordicimila chilometri con le pattuglie volanti della milizia stradale, Torino, Paravia, 1940, p. 92.
Le informazioni su Cartini sono tratte da articoli de «Il Veneto»: Il (poco) brillante passato del Cartini ucciso ieri a Pontedibrenta (8 marzo 1939); Gli undici mandati di cattura di Cartini (8-9 marzo 1939).
La citazione di Cesare Boccaletti sulle vendite della refurtiva è tratta da Franco Di Bella, Italia “nera”, Sugar, Milano 1960, pp. 146-147.
La sentenza del Tribunale di Padova del 6 novembre 1940 sta in Archivio di Stato di Padova, Tribunale penale. Per il processo del gennaio 1941 si veda: Altri 22 ricettatori della banda Bedin compariranno tra giorni dinanzi al Tribunale, «Il Veneto», 29 gennaio 1941. […]
La citazione di Fusar è tratta da Merlin, Storia di Monselice cit., p. 192; quella di Orlando Dalla Mutta sta in Anche tra i prigionieri una piccola banda Bedin, «L’Orso» (Este), IX (1989), n. 1.
La lunga citazione di Merlin è tratta da Il bandito Antonio Carta e la resistenza nel Monselicense-Conselvano, «Terra d’Este», XV (2005), n. 30, p. 81 (pp. 77-112); quella di Leonardo Bortignon da Il leggendario bandito Bedin cit.
L’elenco dei mandati cattura si trova in La magnifica azione epuratrice della Polizia. Il fosco passato di Bedin e Urati, «Il Veneto», 5-6 aprile 1939.
L’evasione dell’ottobre 1935 è raccontata su «La Stampa», 17 ottobre 1935. Per quella con Urati si veda Di Bella, Italia “nera” cit., p. 148.
Sugli arresti dei fermati: Il cifrario dei banditi attraverso gli annunci economici, «Il Veneto», 8 aprile 1939.
Sui travestimenti di Bedin si veda Curiose dicerie popolari dopo l’uccisione del malfattore della banda Bedin, «La Stampa», 10 marzo 1939.
[…] La ricostruzione della morte di Bedin da parte di Fusar è tratta da Storia di Monselice cit. p. 193. Vedi anche in Crepas, Il romanzo della strada cit. il capitolo Come fu giustiziato Bedin in cui l’autore riprende l’articolo pubblicato sul quotidiano torinese «La Stampa» del 5 aprile 1939 con il titolo Due capi-banditi uccisi dalla forza pubblica. Altri particolari, quali il tipo di pistola e l’entità della taglia, sono tratti da Bedin e un suo complice uccisi in conflitto, «Corriere della Sera», 5 aprile 1939.
Alle reazioni del Duce alla morte di Bedin accenna Il compiacimento del Duce per l’annientamento della banda Bedin, «Il Veneto», 7-8 aprile 1939.
[…] Un profilo di Lampioni è contenuto in Mario Faggion, Gianni Ghiradini, Figure della Resistenza Vicentina. Profili e testimonianze, Vicenza 1997. Le parole di Aronne Molinari su Lampioni sono tratte da La Divisione Garibaldina “F. Sabatucci” (Padova 1943-1945), testimonianze raccolte da Aronne Molinari, Padova, Forcato, 1977. Per le perplessità di Clocchiatti si veda Amerigo Clocchiatti, Cammina frut, Milano, Vangelista, 1972, pp. 217-218.
Sui rapporti tra Resistenza e criminalità nella Bassa si vedano i saggi pubblicati da Tiziano Merlin sulla rivista «Terra d’Este», in particolare Il bandito Antonio Carta e la Resistenza nel Monselicense e nel Conselvano cit. e Luci ed ombre di una storia partigiana della Bassa. Fabio Bellini commissario politico del Battaglione garibaldino Falco (XVI, 2006, n. 32, pp. 35-75).
Le notizie su Lorenzo Lionzo “Bedin” sono in Ugo De Grandis, Il rosso, il nero e il bianco. L’uccisione di Lorenzo Lionzo “Bedin”, Schio, Quaderni di storia e cultura scledense, s.d. [2013]. In una nota a pagina 9 si trovano cenni su Ferruccio Riccardo Bravo “Bedin” e sul battaglione “Ramina-Bedin”.
[…] La testimonianza sui coscritti di Canelli è tratta da Gianna Menabreaz, Gli ultimi testimoni. Memorie di deportati internati nei lager nazisti, Acqui Terme, Impressioni Grafiche, 2008, p. 201.
La citazione di Merlin sui bambini è tratta da Tiziano Merlin, Criminalità e lotte sociali nel Veneto meridionale 1850-1950, «Terra d’Este», I (1991), n. 2. Sono grato a Emilio Franzina per avermi fatto conoscere l’inedita testimonianza di Fernando Bandini sulla diffusione del mito di Bedin tra i ragazzi vicentini. Cenni su Bedin sono inseriti da Franzina in Vite bandite. Dai sovversivi di campagna ai partigiani. Storie di contadini alla macchia, di briganti e di banditi, conferenza spettacolo di storia (anche) cantata di Emilio Franzina e degli Hotel Rif messa in scena più volte in Veneto.
Sull’uccisione di Alicò e Piermattei si veda Bortignon, Il leggendario bandito Bedin cit. pp. 145-150.
Nota. Tratto da Francesco Selmin, Ammazzateli tutti! Storia di banditi del Veneto, Cierre, Sommacampagna (Verona) 2016, pp. 99-140, con minimi adattamenti. L’immagine di Lampioni con la moglie nel 1929 si trova a p. 107.