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Il mondo di oggi guardato da un editorialista di ieri. 27

05/01/2016

di Alain, a cura di Giacomo Corazzol

Nuovo appuntamento con il filosofo francese Alain letto e tradotto da Giacomo Corazzol.

La felicità guarisce, di Alain

L’equanimità, in generale, non riceve ricompense esterne; di certo però favorisce la salute. Un uomo felice lascia che lo si dimentichi; la gloria verrà a cercarlo quarant’anni dopo la sua morte. Ma contro la malattia, più intima dell’invidia e molto più temibile, la felicità è l’arma migliore. A questo l’uomo triste ribatte che la felicità è un effetto e non una causa: è semplificare troppo. La forza fa amare la ginnastica; ma la ginnastica volontaria dà forza. In poche parole, esiste senza dubbio un atteggiamento viscerale, se è lecito dir così, che strangola e avvelena chi lo adotta. Distendere e massaggiare le proprie viscere come distendiamo le dita probabilmente è impossibile; ma come la gioia è il segno evidente di un buon atteggiamento viscerale, c’è da scommettere che tutti i pensieri vòlti alla gioia dispongano anche alla salute.

Si dovrebbe dunque gioire quando si è malati? Ma questo, dite, è assurdo e impossibile. Aspettate. Si è detto e ripetuto abbastanza che, proiettili a parte, l’esistenza dell’uomo di guerra faceva bene alla salute. Ho potuto rendermene conto, avendo condotto per tre anni un’esistenza da coniglio selvatico, che fa tre giri nella rugiada e rientra nel suo buco al minimo rumore. Tre anni senza sentire nient’altro che la fatica e il bisogno di dormire. Ora, il mio secolo mi dava il voltastomaco e trascinavo una malattia mortale dall’età di vent’anni, come tutti coloro che pensano senza agire. Si fa presto a dire che questa prosperità del corpo dipende dall’aria campestre e dalla vita attiva; mi accorgo però di altre cause. Un caporale di fanteria – lo stesso che mi diceva: “Non abbiamo più paura; abbiamo soltanto angosce” – venne un giorno al mio rifugio con un viso che esprimeva felicità. “Questa volta, disse, sono malato. Ho la febbre; me l’ha detto il maggiore; lo rivedo domani. Potrebbe essere la tifoidea; non mi reggo in piedi; ho il capogiro. Insomma: ospedale. Dopo due anni e mezzo di fango, me la meritavo proprio, questa fortuna”. Vedevo bene però che la gioia lo guariva. L’indomani non si trattava più di febbre, ma di attraversare le amabili rovine di Flirey, e per raggiungere una posizione ancor peggiore.

Essere malati non è una colpa; né la disciplina né l’onore possono aver qualcosa da ridire. Qual è il soldato che non ha scorto in se stesso, nei trasporti della speranza, i sintomi di una malattia, mortale perfino? In quei giorni atroci si finisce per pensare che morire di malattia sarà anzi gradevole. Simili pensieri sono efficacissimi contro qualsiasi malattia. La gioia dispone il corpo, al suo interno, meglio di quanto il medico più abile non potrebbe fare. Se, come si dice, vi furono dei solitari che attendevano la morte come una grazia di Dio, non mi stupisco che siano morti centenari. La durata che ammiriamo nei vegliardi quando hanno smesso di interessarsi a qualcosa deriva probabilmente dal fatto che non sentono più la paura di morire. Cose che fa sempre bene comprendere, come fa bene comprendere che a far cadere il cavaliere è la rigidità, che deriva dalla paura. C’è un genere di noncuranza che è un’astuzia grande e potente.

28 settembre 1921

[Alain, Propos, I, texte établi et présenté par Maurice Savin, Gallimard, Paris 1956, pp. 300-302. Traduzione di Giacomo Corazzol; il titolo è redazionale.]

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