di Alain, a cura di Giacomo Corazzol
Nuovo appuntamento con il filosofo francese Alain letto e tradotto da Giacomo Corazzol. Un numero doppio, per pensare a occhi aperti.
L’arte di constatare, di Alain
C’è un’arte di constatare che è di grande importanza per l’educazione dello spirito e che è alla portata di tutti, eppure è la più ignorata e la più dimenticata delle arti. Trovo il mio orologio nel taschino di un altro; posso constatare che è proprio il mio orologio e tuttavia non posso constatare che quella persona me l’abbia rubato: questo lo suppongo. Ed è mirabile il modo in cui la vista del mio orologio rinfocola questa supposizione; e come, inversamente, questa supposizione mi condurrà facilmente a prendere questo orologio per il mio senza un esame adeguato. Fa parte della saggezza tenere separate le due questioni, che si uniscono così naturalmente. Perché una constatazione può, e deve, essere discussa; e anche una supposizione, ma non con gli stessi mezzi. L’intelligenza si getta sul perché, e sempre troppo in fretta; bisogna ricondurla all’oggetto presente, e ancora non all’oggetto quale lo supponiamo, ma quale esso si mostra. È degno di rilievo come i migliori strumenti riducano la nostra percezione a semplici apparenze e come si tratti soltanto di descrivere con precisione, per esempio, lo spettro dei colori posto di fianco a una riga millimetrata, l’immagine della luna tangente a un filo teso di fronte a una lente, oppure una lancetta che copre con la sua punta uno dei segni sul quadrante. E all’istante, senza che alcun pensiero si interponga. Esistono termometri talmente sensibili che la temperatura, precisa al decimo di grado, va letta non appena li si scopre; perché il solo respiro o l’accostarsi del nostro corpo basteranno a farli saltare di un decimo o due. Un minimo timore o pentimento vi faranno prendere una lettura sbagliata. Bisogna dunque che l’intelligenza si sgomberi da tutto ciò che non è questa semplice e fuggitiva apparizione. Questo test fa bene a ogni età. Mette in guardia dall’intemperanza di pensiero che è la causa di quasi ogni errore.
In assenza di quegli strumenti, che ci servono come da paraocchi, ci capiterà di confondere ciò che constatatiamo con ciò che supponiamo dieci volte al giorno. Constato che Tizio è avaro e che Caio è vanitoso. Constato che i francesi amano la gloria. Constato che al popolo piace il cinematografo. Sono tutte supposizioni. Un uomo mi parla; non conosco il suo pensiero, lo suppongo. Se ci fermassimo all’apparenza, badando bene a fissarne i suoni, come fanno i musicisti quando si accordano, ci troveremmo poi in una posizione migliore per indovinare. Ma l’uomo pensa in maniera tremendamente veloce. Mostrate a dei bambini un gioco di carte e poi fategli scoprire, consentendogli di esaminare i movimenti allo scoperto e al rallentatore, come e perché si sono ingannati; rimarranno sbalorditi quando comprenderanno quanto poco hanno constatato e quanto invece hanno supposto, quando comprenderanno insomma che nessuno li ha ingannati, ma che piuttosto si sono ingannati, come la lingua esprime così energicamente. Cartesio ha detto, ed è un’osservazione che porta molto lontano, che spesso a far sì che gli uomini si ingannino è il loro amore per la verità. Diffidano delle apparenze; e certo non hanno torto. E tuttavia, per condurli al vero, non hanno che le apparenze; devono dunque per prima cosa fornirsene un’immagine esatta, al fine di conservarne un profilo corretto, privo di omissioni o di aggiunte. Questo primo momento è subito disprezzato e sorpassato. E la verità della pittura sta nel fatto che essa ci riporta a quel primo movimento e ci avvince a esso grazie a un’apparenza fissata. È dunque profondamente vero che sono i pittori a educarci a osservare.
7 ottobre 1923
Un racconto orientale che ho letto ieri mi ha fatto di nuovo pensare ai sogni. Queste favole sono dei sogni; noto in essi due cose, una parte miracolosa e una parte ragionevole. La parte miracolosa, fatta di genî, cambiamenti di scena a vista, uccelli giganteschi, viene dai sogni e testimonia dello stato infantile in cui i sogni, attraverso il ricordo, vengono presi come eventi reali. Ma la parte ragionevole, quella che sviluppa le finzioni secondo la logica comune, si trova anche nei sogni o, se si preferisce, nel racconto che se ne fa. Sia data una valle di diamanti, da cui nessuno può risalire; siano date delle aquile fortissime; concepiamo un’industria consistente nel gettare in questa valle dei grossi pezzi di carne che le aquile traggono su ai loro nidi e ai quali rimangono attaccate delle grandi quantità di diamanti. Ogni cercatore di diamanti ha un suo nido di aquile così come altri hanno un ufficio di cambiavalute. Tutto è interconnesso e tutto si spiega; ma il fatto manca. Non è così.
La ragione non manca nei sogni; ciò che in essi manca è piuttosto l’esperienza. L’oggetto è pensato molto bene ma constatato molto male. Applichiamo pensieri ragionevoli a un mondo inconsistente. Un fatto bizzarro, intravisto appena una volta, trasformato nel racconto, fornisce l’occasione per ragionevoli stravaganze; non che il nostro spirito sia disonesto, è che allora manca di un oggetto. Intendo dire un oggetto che resti, cui si possa girare attorno, esplorandolo e interrogandolo a piacere. Il nostro spirito ha bisogno di questo supporto, e non una volta sola, ma sempre. Senza di quello ci smarriamo in una selva di possibilità indeterminate. Questo potere meraviglioso di combinare, supporre, spiegare, è sempre la cosa che manca di meno. E sfortunatamente a interessare di più è ciò che è strano o unico.
La scelta che distingue il pensatore è quella di soffermarsi su un oggetto del tutto comune e ordinario. Come uno staio di grano, che sta in mezzo sacco o in venti scodelle. Questa esperienza continuamente alla nostra portata, fondata su recipienti, grani, fluidi, superfici e lunghezze, fu il sostegno della geometria, e lo è ancora. Gli astri, coi loro ritorni, alimentano i pensieri dell’astronomo. Al contrario, ciò che è raro o ciò che accade un’unica volta disorienta sempre, perché ci consegna ai nostri soli pensieri. Chi vedesse una calamita una volta soltanto cadrebbe in qualche folle teoria. E, per esempio, la finzione di un’isola magnetica che divelle i chiodi dalle navi non deriva tanto da un ragionamento sbagliato quanto da un’osservazione troppo presto abbandonata. A tal proposito verrebbe da dire che bisogna limitarsi a osservare e guardarsi dal pensare; e però non è così semplice. Pensare senza un oggetto presente è cosa vana; ma maneggiare e testare l’oggetto senza pensare è un altro genere di stupidità, che si riconosce negli antichi mestieri. Si può pensare arditamente, e bisogna farlo, ma a condizione che l’esistenza sostenga i nostri pensieri e non smetta mai di confermarli. Una passeggiata istruisce ancor oggi un geometra. Laddove il pensiero di Einstein si trova ancora allo stato di mostro, a causa di questo sviluppo smisurato di una teoria condotta in maniera forse del tutto logica ma che tocca l’esistenza solo attraverso la punta sottile di un’esperienza rara e delicata. Temo chi pensa a occhi chiusi.
2 febbraio 1924
[Alain, Propos, I, texte établi et présenté par Maurice Savin, Gallimard, Paris 1956, pp. 543-544 e 580-581. Traduzione di Giacomo Corazzol. Il titolo è redazionale.]