di Giacomo Bonan
Pubblichiamo il testo dell’intervento di Giacomo Bonan, che ha inaugurato i due incontri intorno al tema “beni comuni” organizzati da storiAmestre, e ospitati dalla Biblioteca di Marghera.
Questo intervento intende proporre una breve panoramica sui principali significati attribuiti alla locuzione italiana “beni comuni” e all’inglese commons e valutare se ci sono dei nessi che ricorrono tra questi diversi significati.
1. Per sondare il significato che viene generalmente associato a “beni comuni” o a commons ho percorso quella che credo sia la strada più battuta, di questi tempi, per scoprire l’accezione di uno o più vocaboli: li ho cercati su Google. Prima ho digitato commons. Google censiva 567 milioni di risultati per questa ricerca. Mi limiterò a citare i primi tre. Riguardano tutti la condivisione di materiale informatico o digitale. I primi due risultati sono rispettivamente la pagina italiana e inglese di Wikimedia Commons (un database di file multimediali liberamente utilizzabili); il terzo è la pagina italiana delle famose licenze Creative Commons.
Se si cerca “beni comuni”, risultano poco meno di un milione di pagine. Anche in questo caso vi cito solo le prime tre. Il primo risultato era abbastanza scontato; si tratta della voce “bene comune” dell’enciclopedia Wikipedia che inizia con la seguente definizione: “Bene comune è un termine filosofico, tecnico, culturale riferibile a diversi concetti che sono nell’ambito della scienza di oggi. Nell’accezione popolare viene definito bene comune uno specifico bene che è condiviso da tutti i membri di una specifica comunità: proprietà collettiva e uso civico. Vi sono definizioni di bene comune anche nell’ambito della filosofia, dell’etica, della scienza politica, della religione e della giurisprudenza”.
Fino a qui quindi, niente di strano. Il secondo risultato, invece, mi ha sorpreso molto. Si tratta della “Beni Comuni srl di Imola”, un’azienda che svolge, su incarico del comune di Imola, le seguenti funzioni:
– gestione manutenzione degli spazi e aree pubbliche destinati a strade e infrastrutture, al verde pubblico, alle attività sportive e ad altre utilizzazioni;
– gestione e manutenzione del patrimonio immobiliare del comune di Imola;
– gestione delle attività connesse ai servizi cimiteriali.
Quindi, a Imola, anche i cimiteri come beni comuni.
Il terzo risultato è il sito di un laboratorio di sussidiarietà, così viene definito, chiamato “Labsus” che si occupa di mappare e diffondere le esperienze di cittadinanza attiva. L’obiettivo di questa piattaforma è subito esplicitato nella pagina iniziale del sito: “Convincerti che ti conviene prenderti cura dei luoghi in cui vivi, perché dalla qualità dei beni comuni materiali e immateriali dipende la qualità della tua vita. Il tempo della delega è finito. L’Italia ha bisogno di cittadini attivi, responsabili e solidali”.
Ho provato allora a fare un secondo esperimento, utilizzando un programma che analizza con un algoritmo il flusso dei dati prodotto da una ricerca su Google e fornisce le parole più spesso associate a tale ricerca.
2. Inserendo le parole “commons definition” il termine più associato è Ostrom. Ciò non sorprende poiché Elinor Ostrom è la studiosa di commons (di beni comuni) più famosa in ambito internazionale. Nel 2009, a certificarne la fama era giunto il conferimento del premio della banca di Svezia per le scienze economiche – erroneamente chiamato premio Nobel per l’economia – proprio per i suoi studi sulla gestione delle risorse collettive e in particolare per il libro intitolato Governing the commons (1990), tradotto in italiano come Governare i beni collettivi1. Le ricerche di Elinor Ostrom e della sua équipe si sono sviluppate in contrapposizione a una corrente di pensiero molto diffusa nelle scienze sociali americane dagli anni ’60 di cui una delle formulazioni più celebri è il saggio The tragedy of the commons (La tragedia dei beni comuni) pubblicato nel 1968 dall’ecologo statunitense Garrett Hardin2. In realtà, il tema principale del saggio di Hardin era il rapporto sempre più sbilanciato tra crescita della popolazione mondiale e limitatezza delle risorse e quindi sull’opportunità di un controllo demografico della popolazione. Hardin elencava una serie di risorse il cui uso era libero e non regolato, destinate quindi al deperimento poiché, secondo lui, l’azione umana è naturalmente spinta a massimizzare gli utili e collettivizzare i costi. Per esempio, in un pascolo utilizzato da più pastori, ogni pastore sarà incentivato a portare più capi di bestiame possibile, anche a costo del sovra-sfruttamento dei terreni, poiché gli animali nutriti in sovrannumero andranno a suo unico beneficio, mentre le porzioni di pascolo danneggiate dall’eccessivo sfruttamento saranno divise tra tutti gli utilizzatori del pascolo.
Ovvia conseguenza di queste premesse è la conclusione di Hardin: non è possibile attuare una gestione comune delle risorse, ma vanno instaurati nei rigidi meccanismi escludenti. Sono due le strade percorribili per ottenere questo risultato: la privatizzazione della risorsa o un ferreo controllo pubblico su di essa.
Proprio dal tentativo di superare questa dicotomia tra intervento statale e privatizzazione delle risorse hanno preso avvio le ricerche condotte da Elinor Ostrom nel corso degli anni ’80. Per superare il modello monodimensionale proposto da Hardin, basato sulla bipartizione tra beni pubblici (sottoposti a controllo statale) e beni privati, Ostrom propone una duplice classificazione per cui i beni devono essere considerati in base ai criteri di escludibilità e rivalità. “Rivale” è un bene per cui il consumo da parte di un soggetto esclude il consumo da parte di un altro. “Escludibile” è un bene dal cui uso gli individui possono essere esclusi a costi ragionevoli. La combinazione di questi due paramenti permette di individuare – oltre ai già citati beni pubblici e privati – altre due tipologie di beni: quelli di club e quelli comuni. Per Ostrom i beni comuni corrispondono a ogni risorsa, naturale o/e artificiale, sfruttata insieme da più utilizzatori i cui processi di esclusione dall’uso sono difficili e/o costosi, ma non impossibili. Oggetto dell’analisi di Governare i beni collettivi sono le modalità organizzative di alcune comunità che avevano saputo gestire in maniera economicamente ed ecologicamente sostenibile alcuni beni comuni tradizionali (pascoli, zone di pesca, sistemi d’irrigazione) per periodi di tempo molto lunghi. Il risultato di questo confronto aveva permesso all’autrice di individuare alcuni principi organizzativi che permettevano a comunità relativamente piccole (tra le 50 e le 15.000 persone) di gestire collettivamente le proprie risorse in maniera efficiente.
Anche se Elinor Ostrom non può essere considerata un’economista pura – appartiene al settore delle scienze sociali americane di cui è difficile proporre un corrispondente nel sistema accademico italiano poiché è una combinazione di antropologia delle istituzioni, economia e sociologia – è chiaro già dalla terminologia adottata che l’autrice è interessata soprattutto a comprendere le dinamiche economiche legate a questi beni. Nel suo libro si fa ampio ricorso ai modelli proposti dalla scuola economica neo-istituzionalista nonché alle teorie dei giochi, come il celebre “dilemma del prigioniero”, per spiegare i comportamenti individuali e le possibilità di orientarli in un sistema compartecipato di gestione delle risorse.
Da queste ricerche condotte sui beni comuni tradizionali, Ostrom e la sua équipe hanno progressivamente ampliato lo spettro d’analisi – anche in seguito ai nuovi temi imposti dalla diffusione delle nuove tecnologie tra anni ’90 e nuovo millennio – ai cosiddetti new commons o beni comuni della conoscenza (internet, la ricerca scientifica, l’informazione ecc.)3.
Vanno a questo punto sottolineati due aspetti di quest’approccio che sono stati considerati, da molti osservatori, i principali limiti della teoria elaborata da Elinor Ostrom. Il primo è che in quest’analisi la dimensione giuridica è considerata solo come una proiezione dell’articolazione istituzionale di cui alcune comunità si dotano per gestire collettivamente alcuni beni.
Il secondo, strettamente collegato al primo, riguarda la scala d’analisi scelta da Elinor Ostrom per le sue ricerche sui beni comuni tradizionali. I casi studiati riguardano beni gestiti da comunità di piccole o piccolissime dimensioni (non oltre le 15.000 persone); e se pure Ostrom indichi come tali comunità, una volta giunte a un sistema ottimale di gestione delle proprie risorse comuni, possano riprodurlo su scala più vasta, attuando a un livello più elevato le pratiche acquisite in ambito locale e creando così una specie di sistema a scatole cinesi della gestione delle risorse, manca un’analisi dettagliata di quest’ulteriore sviluppo. Inoltre, ed è questo un elemento tipico degli studi neo-istituzionalisti, Ostrom non ritiene questo modello di gestione come alternativo o in conflitto con quello statale e di mercato. Ritiene che alcuni beni, per loro specifiche caratteristiche o per come vengono solitamente utilizzati, richiedano dei costi di gestione – o, per usare la terminologia tipica di questi studi, dei “costi di transazione” – ulteriori rispetto ad altri beni che vengono solitamente gestiti dal e nel libero mercato. Una situazione quindi in cui beni pubblici, beni comuni e beni privati sono complementari e a ogni tipo di risorsa e modalità di utilizzo corrisponde la categoria più adatta.
In questo senso, l’attenzione di Elinor Ostrom è concentrata nel comprendere quali meccanismi consentano ai membri di una comunità di gestire correttamente i beni comuni e impediscano comportamenti opportunistici. Rimane inevaso, nella sua analisi, cosa accade se comportamenti di questo tipo siano adottati al di fuori della comunità, cioè se l’appropriazione indebita delle risorse sia effettuata, per esempio, dallo stato o dal mercato.
Paradossalmente, com’è stato osservato, è probabile che il comportamento delle grandi aziende (le corporations) sia più simile a quello del pastore descritto da Hardin, interessato cioè a massimizzare l’utilità immediata a danno della tutela della risorsa sul lungo periodo, rispetto a quello dell’individuo cooperante proposto da Ostrom4.
3. C’è poi un ulteriore aspetto che permette di comprendere meglio la ricezione degli studi di Elinor Ostrom in Italia. Queste ricerche, ma più in generale l’analisi dell’azione collettiva così com’è andata affermandosi in area anglosassone, considera i beni comuni prevalentemente dal punto di vista economico. Le pregresse tradizioni di ricerca sui beni comuni diffuse in Italia, invece, si occupano di questo tema soprattutto dal punto di vista giuridico.
Si noti, per esempio, che la definizione presente sull’enciclopedia Wikipedia sopra citata associa alla definizione popolare di beni comuni proprio quella giuridica, sottolineando la distinzione tra proprietà collettiva e uso civico. Inoltre, mentre la parola più associata a “commons definition” era Ostrom, la ricerca in italiano “beni comuni definizione” è associata al termine “giuridica”. Infine, si noti la scelta di tradurre il celebre volume Governing the commons non come Governare i beni comuni ma come Governare i beni collettivi, termine che individua, nel linguaggio giuridico italiano, una specifica tipologia proprietaria, per esempio quella regoliera diffusa in area alpina.
La ragione di questa scelta sta nella pluralità di significati che il termine common può assumere nella sua traduzione italiana. Infatti, nei paesi anglosassoni come Regno Unito e Stati Uniti vige un sistema giuridico definito del common law in cui i diritti di proprietà sono svincolati in maniera che sia più facile scorporare proprietà e uso del bene. Al termine inglese common inteso come common land corrispondono vari tipi di risorse secondo la classificazione del diritto italiano di derivazione romanistica: terreni demaniali e proprietà pubblica vincolata da usi civili, proprietà collettiva vera e propria.
Per superare questa frammentazione, e data l’attenzione che si stava diffondendo su questi temi sia nella riflessione accademica internazionale sia nel dibattito pubblico, alcuni anni fa (2007-2008) era stata istituita una commissione per la riforma degli articoli del codice civile sul diritto di proprietà conosciuta come “Commissione Rodotà”5.
Rispetto alla suddivisione contenuta nell’articolo 42 della Costituzione per cui “la proprietà è pubblica o privata”, la Commissione Rodotà ha individuato un’ulteriore categoria, quella dei beni comuni che viene così formulata: “le cose che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona. I beni comuni devono essere tutelati e salvaguardati dall’ordinamento giuridico, anche a beneficio delle generazioni future”. Nel testo presentato dalla Commissione Rodotà sono indicati anche alcuni esempi di beni comuni: “i fiumi i torrenti e le loro sorgenti; i laghi e le altre acque; l’aria; i parchi come definiti dalla legge, le foreste e le zone boschive; le zone montane di alta quota, i ghiacciai e le nevi perenni; i lidi e i tratti di costa dichiarati riserva ambientale; la fauna selvatica e la flora tutelata; i beni archeologici, culturali, ambientali e le altre zone paesaggistiche tutelate”.
La proposta di legge-delega presentata dalla Commissione Rodotà non è mai arrivata alla discussione parlamentare, ma la categoria dei beni comuni è stata introdotta de facto nel diritto positivo italiano dopo un pronunciamento della Corte di Cassazione a Sezioni Riunite nel febbraio 2011.
La sentenza riguarda una vicenda relativa alla laguna di Venezia e, in particolare, il ricorso presentato da una società privata interessata a far accertare il proprio diritto di proprietà su una valle da pesca situata in laguna. La sentenza della corte confermava la natura demaniale della laguna di Venezia ma aggiungeva “che, là dove un bene immobile, indipendentemente dalla titolarità, risulti per le sue intrinseche connotazioni, in particolar modo quelle di tipo ambientale e paesaggistico, destinato alla realizzazione dello Stato sociale come sopra delineato, detto bene è da ritenersi, al di fuori dell’ormai datata prospettiva del dominium romanistico e della proprietà codicistica, ‘comune’ vale a dire, prescindendo dal titolo di proprietà, strumentalmente collegato alla realizzazione degli interessi di tutti i cittadini”.
Il 2011 è stato anche l’anno in cui il tema dei beni comuni è entrato al centro del dibattito pubblico e del confronto politico in Italia grazie al successo della campagna referendaria per “l’acqua bene comune”, ma questo è un tema che richiederebbe un intervento specifico e su cui non mi soffermo.
4. La tutela dei beni comuni per la loro valenza sociale è diventata un dato acquisito del nostro sistema giuridico, anche se vi sono pareri diversi – per non dire opposti – sul valore di quest’acquisizione e soprattutto sulle prospettive che essa apre. Una prima interpretazione, di cui esponenti particolarmente illustri sono lo storico dell’arte e archeologo Salvatore Settis e l’ex giudice costituzionale Paolo Maddalena, tende a privilegiare la continuità tra beni comuni e beni pubblici. In quest’ottica, infatti, l’individuazione di beni sottratti alle logiche di mercato e il cui fine è di favorire l’esercizio dei diritti fondamentali andrebbe a rafforzare anche la categoria dei beni pubblici che con essi condividono tali finalità relative all’utilità sociale, poiché i beni pubblici altro non sono, per Settis e Maddalena, che beni collettivi di una comunità particolarmente vasta, quella dei cittadini italiani. In questo senso va inteso il demanio statale che appartiene non allo stato “persona giuridica” ma allo stato “comunità”, cioè ai cittadini. Per questa visione, i beni comuni offrono la possibilità di rafforzare il ruolo dello stato inteso come comunità di cittadini secondo lo spirito indicato nella Costituzione6.
Di segno opposto è l’interpretazione di chi, come lo studioso di diritto comparato Ugo Mattei, considera la categoria dei beni comuni come alternativa sia al mercato sia allo stato e quindi la indica come fondamento di un percorso costituente in grado, in prospettiva, di permettere un superamento della forma statuale ormai vista come ancella di interessi privati7.
Quello che qui cerco di evidenziare è che anche in ambiti relativamente circoscritti, come può essere quello della riflessione giuridica italiana, i termini “beni comuni” possono prestarsi a usi e interpretazioni molto diverse, ed essere associati a entità e soggetti eterogenei (i fiumi, i boschi, il paesaggio, la cultura, per alcuni anche l’università e il lavoro e così via). La confusione aumenta ulteriormente se dalla specifica situazione italiana si passa al più vasto scenario internazionale: a ogni disciplina e a ogni contesto culturale corrispondono numerose definizioni di beni comuni, di temi trattati e di approcci di studio sull’argomento. Allo stesso modo, è possibile riscontrare un’analoga pluralità di significati se dall’ambito accademico passiamo al dibattito pubblico e politico, dove questi termini non mancano di essere usati e abusati. Basta ricordare che lo slogan dell’ultima campagna elettorale di uno dei principali partiti italiani era, per l’appunto, “Italia bene comune”, oppure che allo stadio San Paolo di Napoli qualche anno fa era comparso uno striscione che recitava: “Cavani bene comune”. Va detto che, in entrambi i casi, lo slogan non ha portato molta fortuna8.
5. Alche osservando i temi che saranno presentati nel corso di queste due giornate di convegno, la domanda può sorgere spontanea. C’è davvero un qualche legame tra esperienze e situazioni così diverse? Tra la gestione dei boschi di montagna nel XVIII secolo e la Venezia di oggi? Tra l’utilizzo delle vie d’acqua in età moderna e quello che viene fatto attualmente dei pascoli della Carnia? Non so dire se c’è una risposta univoca a queste domande e penso che la ricerca di un nesso fornisca sempre delle possibilità per trovarlo secondo la sensibilità individuale di chi lo cerca. Naturalmente, sta a chi ascolta valutare quanto arbitrario sia questo legame.
Un possibile punto d’incontro, un terreno comune appunto, io l’ho trovato in un saggio che ho ripreso in mano qualche tempo fa. È un testo poco conosciuto in Italia poiché non è stato mai tradotto, ma anche all’estero non mi sembra molto noto, anche se è stato scritto da uno degli storici più famosi e influenti del XX secolo: Edward Palmer Thompson. Lo considero poco noto rispetto ad altre opere di Thompson come l’articolo sull’economia morale o il celeberrimo The making of the English working class che in Italia è uscito col titolo Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra.
Il saggio in questione s’intitola Customs, Law and Common Right e affronta, anche se in maniera un po’ caotica, tutti i punti che toccheremo anche noi in queste due giornate9.
Una considerazione preliminare su questo scritto è di carattere biografico. Nella premessa a una recente riedizione del libro dedicato da Thompson a William Morris, un suo ex allievo che aveva vissuto in casa sua durante il dottorato ha ricordato che Thompson si avvicinò allo studio dei beni comuni in seguito al suo impegno per la tutela del paesaggio della campagna inglese10. Mi sembra che il legame tra beni comuni e questione paesaggistica sia un elemento tipico di una certa corrente di pensiero inglese, su cui, credo, saprà darci maggiori informazioni Lucio Sponza col suo intervento.
A parte questi aspetti contestuali relativi alle specificità inglesi e al percorso biografico di Thompson, due mi sembrano gli elementi che permettono una riflessione generale su esperienze così diverse.
Il primo, che si potrebbe estendere a una parte consistente dell’attività di ricerca di Thompson, è la convinzione che la dimensione conflittuale sia da considerare essenziale e niente affatto contingente per comprendere le pratiche di gestione dei beni comuni e i valori a essi associati. Cioè la rivendicazione, o anche solo la riaffermazione, di determinati diritti consuetudinari da parte dei rispettivi attori sociali era attuata con una prassi del conflitto. Era quindi rivendicata l’utilità del confitto.
Quest’aspetto deve far riflettere anche su una lettura che potremmo definire strumentale di tali dinamiche; quella per cui l’elevato grado di conflittualità che contraddistingueva esperienze di gestione collettiva della terra in epoche passate è stato visto come un elemento che denotava la profonda debolezza di tali esperienze. In realtà, in situazioni di gestione consuetudinaria della terra, legate a un sapere empirico e solitamente trasmesso in forma orale, la produzione di fonti scritte avveniva quasi esclusivamente riguardo a dei contenziosi o a controversie. In altre parole, il fatto che noi abbiamo moltissima documentazione riguardante i conflitti sui beni comuni non significa che quei beni fossero perennemente oggetto di dispute anche violente. Significa solamente che solo quelle dispute lasciavano una traccia scritta, mentre è più difficile ottenere una documentazione su molte altre pratiche collegate a questi beni.
Credo che l’analisi delle dinamiche conflittuali sarà un filo rosso che collegherà più d’uno dei nostri interventi, e su cui molto potranno dirci Anna Stagno e Vittorio Tigrino che hanno dedicato particolare attenzione a quest’aspetto nelle loro ricerche.
I beni comuni urbani sono tra gli esempi più interessanti di come questa prassi del confitto permise, in alcuni casi, una maggior tutela di questi terreni. Quando si parla di terre comuni, di common lands, noi siamo abituati a pensare ai pascoli inglesi o ai boschi alpini. Dalla lettura del saggio di Thompson, invece, si scopre che le resistenze più accese al fenomeno di soppressione dei terreni comuni furono proprio quelle che avvennero in ambiente urbano. Molti parchi pubblici per cui è tanto famosa e apprezzata Londra non esisterebbero se non fossero stati difesi, nel corso dell’Ottocento, dalla Commons Preservation Society inizialmente per tutelare i diritti di pascolo delle fasce sociali più deboli, poi per garantire loro possibilità ricreative.
Non dobbiamo pensare che questo fenomeno sia una prerogativa della storia inglese. Come ha recentemente notato il giurista Andrea Di Porto, per tracciare una genealogia del concetto di bene comune nell’Italia unitaria bisogna partire, almeno dal punto di vista giuridico, dalla sentenza della Cassazione (anno 1887) che sanciva il diritto della popolazione romana allo ius deambulandi (il diritto di passeggiare) nei parchi di Villa Borghese che i principi volevano impedire chiudendo i cancelli11. In questo senso sarà interessante un confronto tra il caso inglese presentato da Lucio Sponza e le attuali vicende lagunari analizzate da Luca Pes.
Accanto alla questione della conflittualità, vi è un secondo elemento che accomuna queste diverse esperienze. Cito ancora da Thompson; non dall’articolo che ho indicato prima, ma dall’introduzione al volume in cui è contenuto:
“Se dovessi nominare gli elementi della cultura popolare che richiedono maggiore attenzione oggi, indicherei bisogni e aspettative. La rivoluzione industriale e quella demografica sono alla base della più grande trasformazione della storia; essa ha rivoluzionato i bisogni e distrutto l’autorità delle aspettative consuetudinarie. Questo è quello che distingue ciò che è preindustriale o tradizionale dal mondo moderno. […] Se abbiamo bisogno di un’apologia utilitaristica per la nostra ricerca storica sulle consuetudini – e io credo che non ne abbiamo bisogno – potrebbe essere trovata nel fatto che questa trasformazione, questo rimodellamento del ‘bisogno’ e questo innalzamento della soglia delle aspettative materiali (insieme con la svalutazione delle soddisfazioni culturali tradizionali) continua con una spinta irreversibile oggi, accelerata ovunque dall’universale pervasività dei mezzi di comunicazione”12.
Si tratta, in altre parole, del tema della sostenibilità. Alla base di qualsiasi considerazione sulle pratiche di utilizzo collettivo di una risorsa, o di più risorse, è necessaria una valutazione sul suo grado di sostenibilità intesa nelle sue tre componenti: quella ambientale, quella economica e quella sociale.
Su questo credo che sarà interessante un confronto tra gli interventi di Claudio Lorenzini e Nadia Carestiato. Entrambi riguardano l’area alpina della Carnia, ma in epoche molto diverse: la relazione di Lorenzini intende analizzare le modalità di valorizzazione dei boschi carnici nella seconda metà del XVIII secolo, quella della Carestiato esamina lo stato attuale dei terreni collettivi della montagna friulana. Non è mia intenzione proporre improbabili parallelismi, date le immense differenze che intercorrono tra i due periodi storici. Forse però, accostare queste due immagini così diverse di uno stesso scenario può essere utile per interrogarsi sul rapporto tra popolazione e risorse, su quali siano i parametri per valutare un uso sostenibile delle risorse da parte della popolazione e su come l’idea stessa di sostenibilità sia cambiata nel tempo. Oggi, infatti, facciamo un uso convenzionale della definizione sviluppo sostenibile; la formulazione più comunemente citata è quella proposta nel celebre rapporto della commissione Brundtland del 1987 per cui uno sviluppo sostenibile è quello che prevede il soddisfacimento dei bisogni presenti senza compromettere la possibilità delle future generazioni di sopperire ai propri. È una definizione che nasce all’interno di uno specifico contesto ideologico ed è stata spesso criticata, pur essendo, a oggi, la più diffusa. Basti dire che per molti il binomio “sviluppo sostenibile” è da considerare un ossimoro. Qui è interessante ricordare che il termine sostenibilità trova le sue origini nella selvicoltura tedesca del ‘700 e nasce come risposta a un dibattito di portata europea sui pericoli del disboscamento, in particolar modo quello montano, sulle sue conseguenze per gli approvvigionamenti energetici e di legname da costruzione delle città, e sul suo legame con il dissesto idrogeologico13. Questo dibattito è stato dettagliatamente analizzato per il contesto italiano da Bruno Vecchio che ha mostrato come le classi colte dell’epoca individuassero nelle comunità di villaggio che vivevano in prossimità dei boschi i principali responsabili del degrado boschivo14.
Visto in prospettiva storica, il concetto di sostenibilità risulta allora decisamente più problematico. Non è così scontato capire quali siano i bisogni del presente e a chi spetti individuarli e quantificarli. Tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo, la crescente domanda di legname da fuoco e da opera delle aree urbane fu garantita, attraverso l’imposizione di norme forestali sempre più severe e restrittive, a scapito nelle necessità delle comunità alpine di utilizzare in vario modo le risorse forestali per il loro sostentamento.
Quindi, i due elementi individuati da Thompson mi sembrano attualissimi. Se noi prendiamo il contesto italiano vediamo come il tema dei beni comuni emerge sempre all’interno di vicende conflittuali. Il caso più celebre è sicuramente quello della campagna referendaria per “l’acqua bene comune” che nasceva in risposta a un tentativo di imporre le privatizzazioni del servizio idrico, ma altri casi celebri sono quelli relativi all’impatto ambientale e/o sociale di grandi opere infrastrutturali come nel caso del TAV.
Inoltre la riflessione storica mostra come ogni possibile valutazione sulla sostenibilità passi inevitabilmente per un’analisi dei conflitti a essa legati.
Oggi attorno all’idea di sviluppo sostenibile c’è molta retorica, vaghi riferimenti funzionali a far credere che sia in corso una dematerializzazione dei processi produttivi e che tutti i problemi saranno risolti grazie alla green economy.
Se invece ancoriamo queste riflessioni ai conflitti ambientali che ogni giorno avvengono a livello territoriale per l’accesso o l’utilizzo dei beni comuni emergono tutti i nessi tra questioni ambientali e questioni sociali. Credo che la ricerca di una sostenibilità che sia assieme ambientale e sociale debba partire dai tanti territori e dalle tante periferie dove si può vedere – per citare la prefazione scritta da Marco Armiero a un bel libro intitolato L’ecologia dei poveri – che non solo un altro ambientalismo è possibile, ma c’è già15.
- E. Ostrom, Governare i beni collettivi, Marsilio, Venezia 2006. [↩]
- G. Hardin, The tragedy of the commons, “Science”, 162 (1968), n. 3859, pp. 1243-1248. [↩]
- E. Ostrom, C. Hess (a cura di), La conoscenza come bene comune. Dalla teoria alla pratica, Bruno Mondadori, Milano 2009. [↩]
- U. Mattei, Il benicomunismo e i suoi nemici, Einaudi, Torino 2015. [↩]
- Le definizioni di beni comuni che seguono sono entrambe tratte da M.R. Marella (a cura di), Oltre il pubblico e il privato. Per un diritto dei beni comuni, Ombre corte, Verona 2012, pp. 161-184. [↩]
- S. Settis, Azione popolare, Einaudi, Torino 2012; P. Maddalena, Il territorio bene comune degli italiani, Donzelli, Roma 2014. [↩]
- U. Mattei, Beni comuni. Un manifesto, Laterza, Roma-Bari 2011. [↩]
- P. Cacciari, La rivoluzione dei beni comuni [online], democraziakmzero.org, 29 ottobre 2013, url: http://www.democraziakmzero.org/2013/10/29/la-rivoluzione-dei-beni-comuni-2/#_edn2 [ultimo accesso 5 ottobre 2015]. [↩]
- E.P. Thompson, Customs in common, Penguin Books, London 1993 (I ed. 1991), pp. 97-184. [↩]
- P. Linebaugh, Foreword to 2011 Edition, in E.P. Thompson, Romantic to Revolutionary, Spectre Classics and Merlin Press, Oakland 2011, pp. VII-XLVII. Su questo e altri aspetti della biografia di Thompson cfr. P. Brunello, A cinquant’anni da “The Making of the English Working Class”, di Edward P. Thompson (1963-2013), storiamestre.it, 21 giugno 2013, url: https://storiamestre.it/2013/06/ept/ [ultimo accesso 5 ottobre 2015]. [↩]
- A. Di Porto, Res in usu publico e «beni comuni». Il nodo della tutela, Giappichelli, Torino 2013. [↩]
- Thompson, Customs in common cit., p. 14. [↩]
- R. Hölzl, Historicizing Sustainability: German Scientific Forestry in the Eighteenth and Nineteenth Centuries, “Science as Culture”, 19 (2010), n. 4, pp. 431-460. [↩]
- B. Vecchio, Il bosco negli scrittori italiani del Settecento e dell’età napoleonica, Einaudi, Torino 1974. [↩]
- M. Armiero, Un altro ambientalismo è possibile. Anzi, c’è già, in J. Martínez Alier, L’ecologia dei poveri. La lotta per la giustizia ambientale, ed. it. a cura di M. Armiero, Jaca Book, Milano 2009. [↩]