di Lucio Sponza
Pubblichiamo il testo della relazione che Lucio Sponza ha presentato durante il primo dei due incontri organizzati da storiAmestre sul tema “beni comuni”. Ricordiamo che le discussioni si sono tenute il 9 e il 16 ottobre 2015 presso la Biblioteca di Marghera.
L’espressione common lands (o anche common land, o più semplicemente commons) letteralmente “terre comuni”, è quella che più si avvicina al nostro concetto di “beni comuni”. Il rapporto tra uso privato e uso pubblico delle terre costituisce una trama ininterrotta nella storia millenaria dell’Inghilterra; una trama che a volte sparisce ma che poi riaffiora, come un corso d’acqua carsico, in momenti cruciali della storia inglese e con modalità diverse – fino alla sua totale metamorfosi.
Processi analoghi si sono avuti in molti altri paesi, forse tutti – almeno in Europa – anche con notevoli conseguenze; basti ricordare che l’interesse di Marx per lo studio delle condizioni economiche della società partì dall’espropriazione dei diritti d’uso dei contadini nelle foreste della Renania. Ma è una caratteristica inglese che questa storia si sia svolta sostanzialmente nello stesso ambito territoriale e statuale, fin dalle sue origini, e che di essa si possa perciò tracciare un profilo sistematico.
1066: prima e dopo
In realtà la vicenda dei commons e dei commoners che ne beneficiavano, affonda le radici oltre la storia inglese. Se, infatti, l’atto di nascita dell’Inghilterra odierna (mi riferisco proprio all’Inghilterra, non alla Gran Bretagna o al Regno Unito) è il 1066 – quando la parte meridionale dell’isola fu occupata dal normanno Guglielmo il Conquistatore – i suoi giuristi si diedero da fare per estendere le foreste reali (per la caccia), a spese dei pre-esistenti diritti d’uso su quelle terre. (Il conflitto tra la popolazione anglosassone e i dominatori franco-normanni è all’origine della semi-leggenda di Robin Hood, che entra anche nel romanzo “storico” di Walter Scott, Ivanhoe.)
Si trattava di diritti di pascolo, di spigolatura, di raccolta di legna, di torba, e d’altro, nelle “terre comuni” (arative, boschive, forestali). Ciò non voleva dire “proprietà comune”; tutte le terre appartenevano al sovrano ed erano gestite o direttamente dai suoi agenti, o assegnate come feudi ad alte autorità ecclesiastiche, a baroni, a cavalieri – i quali pertanto ne erano i conduttori e a loro volta le concedevano ad affittuari grandi e piccoli.
Questi affittuari erano considerati, nonostante i vincoli ai quali erano sottoposti, dei free men (“uomini liberi”), alle cui dipendenze c’erano le masse contadine – i cosiddetti villeins (non c’è bisogno di traduzione), per i quali quei diritti d’uso erano condizione di sopravvivenza, ma che vivevano in condizioni di schiavitù. Alcuni di questi diritti ancestrali erano definiti da documenti scritti; la maggior parte aveva origine nella consuetudine.
Magna Carta (e Carta de Foresta)
Qualche cenno indiretto a questi antichi diritti d’uso è contenuto nella Magna Carta (che risale al 1215 e della quale quindi si celebra quest’anno l’ottocentesimo anniversario). L’articolo 47, in particolare, stabiliva che tutte le foreste piantate durante il regno dell’allora sovrano (Giovanni) dovessero essere immediatamente disboscate, restituendone il terreno ad altri usi, a beneficio dei baroni, cavalieri e vescovi – ma comprendendo anche gli usi marginali di cui godevano i contadini poveri.
Più importante, per il nostro discorso, è quella specie di appendice della Magna Carta che fu la Carta de Foresta, emanata due anni dopo, nel 1217. Essa estendeva il periodo della deforestazione e confermava alcuni diritti specifici dei free men; nel suo ultimo articolo dichiarava che le libertà generiche indicate in quelli precedenti si applicavano a tutti, dunque anche ai villeins. In inglese non esiste – che io sappia – l’espressione “fatta la legge, trovato l’inganno” ma se ne pratica anche in quel paese la sostanza mediante nuove leggi fatte su misura di chi comanda – su questo, però, proprio a proposito del mondo contadino, ricorderò più avanti alcune osservazioni di Edward P. Thompson.
Sicché la stessa Magna Carta fu oggetto di numerose revisioni, spesso restrittive – oltre che di un tentativo di re Giovanni di abolirla quasi subito dopo che era stato costretto a concederla. Il fatto è quegli antichi “diritti comuni” hanno sempre suscitato dibattiti, polemiche e attacchi da parte di chi intendeva – e intende tuttora, come vedremo – affermare il diritto alla piena disponibilità della proprietà e della conduzione.
Alle origini delle recinzioni
Appena vent’anni dopo la concessione della Magna Carta (nel 1235), quei diritti furono limitati con delle ordinanze. Il cosiddetto Statuto di Merton (dal nome di una cittadina del Devon dove fu stilato) stabiliva che “i grandi uomini dell’Inghilterra” potevano trarre il massimo profitto dalle loro terre a condizione di lasciare sufficienti aree di pascolo ai loro contadini. Non è difficile capire chi dovesse decidere sulla “sufficienza” di quelle aree di pascolo. Nel 1285 fu introdotto un nuovo Statuto (di Westminster) con il quale ai “grandi uomini” fu consentito di recintare “terre comuni”, escludendone dall’uso sia i loro stessi affittuari che i contadini di aree limitrofe che su quelle terre avevano diritto di pascolo.
Sembra che questi due Statuti non siano stati molto utilizzati dai “grandi uomini”, soprattutto perché con il sopraggiungere della Grande Peste, a metà del Trecento, la popolazione contadina fu decimata e le campagne attraversarono un lungo periodo di crisi e di ristagno. La scarsità di manodopera contadina avrebbe dovuto indurre a un aumento, o almeno al mantenimento delle retribuzioni, ma le necessità dell’erario per far fronte alla Guerra dei Cent’anni con la Francia (1337-1453) condussero invece a una loro diminuzione e all’aumento della tassazione. Questa fu la principale causa della cosiddetta Grande Rivolta dei contadini sotto la guida di Wat Tyler, nel 1381 – una ribellione che scosse le fondamenta del potere, ma a cui non pare contribuisse direttamente la questione dei diritti dei commoners.
Comunque, anche se quei due Statuti non ebbero frequente applicazione, il principio della recinzione ebbe allora la sua prima affermazione legale, che sarebbe stata sistematicamente utilizzata e ampliata tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento, quando i crescenti prezzi della lana suggerivano di convertire a pascolo terre coltivate e incolte, su cui i commoners esercitavano i loro diritti.
Occorre aggiungere che i sovrani di allora, i Tudor, contrastarono questa estensione delle recinzioni con due leggi (del 1489 e del 1516), non tanto per difendere i “diritti comuni”, quanto per evitare il collasso dell’economia agraria dei villaggi, che avrebbe causato una riduzione delle entrate per la corona, la diminuzione dei potenziali coscritti e – soprattutto – l’aumento del pauperismo, del vagabondaggio e quindi, si riteneva, della criminalità.
D’altra parte si deve anche ricordare che, nella prima metà del Cinquecento, la Riforma e l’allontanamento dalla Chiesa di Roma, ebbero come conseguenza la distruzione di molti monasteri, di cui Enrico VIII approfittò impossessandosi delle loro vaste aree – e riducendo gli spazi che i monaci concedevano ai contadini per i loro “diritti comuni”. Inoltre l’arrivo di una grande quantità di oro dall’America proprio in quei decenni creava una maggiore circolazione di moneta con conseguente inflazione; per ovviare a questo problema i grandi affidatari di terre si sforzarono di aumentare la produzione… estendendo le recinzioni.
Tra le voci che criticarono questa estensione ci fu quella di Thomas More (Tommaso Moro), che proprio nella sua opera più famosa, Utopia (1516), scrisse – rivolgendosi a un ipotetico interlocutore favorevole alle recinzioni: “Con l’estensione dei pascoli [a scapito dei commons] si potrà dire che le vostre pecore, animali per loro natura [erbivori e] mansueti, diventeranno carnivori – e mangeranno i poveri.”
Siamo allo snodo fondamentale della storia dell’Inghilterra che fu il passaggio da un’economia feudale, relativamente statica, a una economia commerciale dinamica. Si gettavano le fondamenta del capitalismo moderno con “l’inizio della privatizzazione dell’Inghilterra” – per dirla con lo storico americano Peter Linebaugh. (Ed è forse il caso di ricordare che per Max Weber esisteva un forte intreccio fra la Riforma, con la sua “etica protestante”, e lo “spirito del capitalismo”.)
Il Seicento: guerre civili, Oliver Cromwell e Guglielmo d’Orange
Questi mutamenti strutturali ebbero ovviamente importanti conseguenze sulle forme e sugli equilibri del potere. La società inglese fu scossa profondamente verso la metà del Seicento dalla guerra civile, la caduta della monarchia (con la decapitazione di Carlo I) e l’instaurazione della Repubblica puritana guidata da Oliver Cromwell.
Uno dei fattori che esasperarono le tensioni sociali all’origine della guerra civile furono gli abusi delle “leggi della foresta” da parte di Carlo I – spinto a questo dalle difficoltà finanziarie, dalla crescente domanda di legname per la costruzione di navi, e come combustibile per la produzione di ferro (prima che si facesse ricorso al carbone). Una delle prime leggi di Cromwell fu proprio il ripristino delle “leggi della foresta”, anche se l’obiettivo era di favorire i piccoli e medi conduttori piuttosto che i contadini poveri – i quali però trovarono in quegli anni turbolenti i loro difensori in John Lilburne e Gerard Winstanley.
John Lilburne fu l’animatore dei Levellers, che sono stati definiti il primo partito democratico della storia. Una loro petizione al Parlamento (nel 1648), chiedeva – fra altre cose – la rimozione di tutte le recenti recinzioni, contestando il diritto di proprietà e di conduzione a scapito dei diritti comuni. Gerard Winstanley, il fondatore delle colonie dei Diggers, sosteneva che i diritti d’uso nei commons avevano origine divina, e che la terra era un dono di Dio per tutti. I proclami, le petizioni, i discorsi e gli scritti dei Levellers e dei Diggers furono una manifestazione esaltante di ricerca di giustizia sociale in un periodo di rivolgimenti politici, ma essa fu ferocemente osteggiata dagli emergenti ceti mercantili e dallo stesso Cromwell – il quale individuava nei Levellers uno dei grandi nemici della sua rivoluzione (assieme agli spagnoli, ai “papisti” e ai Cavalieri). Ai Diggers non sembra che Cromwell abbia prestato altrettanta attenzione: le esaltate argomentazioni bibliche di Winstanley dovevano apparire meno pericolose delle proposte concrete di Lilburne. Peraltro, un’eco del radicale programma agrario dei Levellers e dei Diggers fu recepito dal parlamento repubblicano, soprattutto per merito di qualche importante seguace di Cromwell (come il colonnello John Pyne, che denunciò la mortificazione dei diritti d’uso nei commons). Ma anche quando ci furono iniziative che limitavano il numero e l’estensione delle recinzioni (come una legge del 1656), lo scopo non era tanto di salvaguardare quei diritti, quanto di evitare il temuto spopolamento delle campagne.
La cosiddetta Restaurazione che seguì la prematura morte di Cromwell (1658) non poteva ristabilire un vecchio ordine ormai obsoleto: a metà degli anni ’80 di quel secolo scoppiò una nuova guerra civile, conclusa con l’arrivo di Guglielmo d’Orange (che depose il suocero, Giacomo II) – fu la cosiddetta Glorious Revolution del 1688, che però di glorioso ebbe ben poco perché Giacomo II scappò quasi subito in Francia. Dopo pochi mesi fu promulgata una legge che stabiliva la supremazia del Parlamento sul trono. (In un libro recente lo storico americano Steve Pincus attribuisce agli avvenimenti di quell’anno una portata ben maggiore di quella riconosciutagli finora. Secondo lui quella del 1688 fu la “prima rivoluzione moderna”, nel senso che gettava le basi della società e dello stato che ci vediamo intorno. Da allora a caratterizzare lo spirito inglese non sarebbero più stati solo la tolleranza, la moderazione e il buon senso, in un sistema economico-sociale prevalentemente agricolo, ma anche la vigorosa spinta all’estensione del commercio transoceanico e alla industrializzazione del paese – l’intreccio fra “etica protestante” e “spirito del capitalismo” avrebbe avuto allora il suo apogeo.)
La grande svolta: il Settecento
Anche per quello che ci riguarda tra la fine del Seicento e l’inizio del Settecento si ha una importante cesura con l’avvio alla rapida estensione delle recinzioni dei campi e alla limitazione dei diritti dei commoners, che continueranno fino ai primi decenni dell’Ottocento. Fino all’inizio del Settecento, infatti, le recinzioni erano promosse da singoli conduttori terrieri e rese possibili dalla decisione di magistrati locali. A partire dal 1709 fu il Parlamento a sancirle, giudicando l’iniziativa favorevole all’interesse nazionale – e da allora le disposizioni di legge miranti a questo scopo arrivarono a cascata.
I commoners non subirono mai le recinzioni senza reagire. Esclusa – pare – la loro partecipazione alla Grande Rivolta del 1381 già ricordata, le recinzioni furono una delle cause di rivolte, come quella del 1549 (intorno a Norfolk), quella del 1607 (nei Midlands), e quelle del 1630-32 (in numerose contee del sud-ovest). Queste ultime ebbero un certo successo nel frenare le recinzioni; nei casi precedenti i protagonisti finirono sul patibolo. Senza che fossero ribellioni sanguinose, le proteste motivate principalmente dall’estensione delle recinzioni e dalle limitazioni agli antichi diritti d’uso dei commoners diventarono molto diffuse nel Settecento. Si trattava di manifestazioni di resistenza e di opposizione sotto forma di petizioni parlamentari, di vigorose espressioni di dissenso (come l’abbattimento di muretti e recinzioni), e di atti intimidatori (lettere di minaccia, e addirittura fucilate a porte e finistre) – azioni che vedevano spesso le donne in primo piano. È stato sottolineato (in particolare da Jane Humphries) che vittime delle recinzioni furono soprattutto le donne e i bambini, perché molti diritti d’uso erano una componente essenziale della vita domestica.
Anche per queste ragioni il Settecento è stato il principale periodo di studio di Edward P. Thompson, che sulla questione dei commons ha scritto cose stimolanti. A essi Thompson ha dedicato in particolare due lavori: Whigs and Hunters – The Origin of the Black Act, e un capitolo di Customs in Common. Il Black Act del primo libro riguarda una legge del 1723 con la quale si inasprivano le pene contro i bracconieri delle foreste reali, fino a prevedere la pena di morte per chi fosse stato trovato in possesso di armi e/o con il volto annerito a guisa di mascheramento (da qui l’espressione Black Act). All’origine della legge era la caccia ai cervi esercitata dal sovrano e dai baroni, che spesso confliggeva con i “diritti comuni”.
Le riflessioni a cui perviene Thompson spiazzano le contrastanti conclusioni degli osservatori contemporanei e degli studiosi dei nostri giorni – di secca condanna o di giustificazione – sulle recinzioni e più in generale sul rapporto tra chi deteneva il potere e i contadini. Il Black Act, sostiene Thompson, era certamente espressione del dominio di classe, ma la legge “ha le sue proprie caratteristiche, la sua propria storia indipendente e la sua propria logica di evoluzione […]. [Essa], nelle sue forme e tradizioni, implica il principio di equità e di universalità che, necessariamente, doveva essere esteso a tutti.” In sostanza, Thompson sottolinea l’importanza del principio dello “stato di diritto” (rule of law), pur di fronte alla sua manipolazione da parte della classe dominante.
È opportuno aggiungere che il Settecento rappresenta un discrimine significativo, per quanto ci riguarda, anche sul piano ideologico e giuridico. Fino all’inizio di quel secolo prevaleva il concetto medievale di “proprietà” (soprattutto terriera) circoscritto e limitato dal dettato divino, dal sovrano, dalla Chiesa, dai baroni, ecc.. Nel corso del Settecento il concetto di “proprietà” diventò assoluto e categorico, legittimato o da un diritto naturale (in particolare da John Locke e da Adam Smith), o dal principio di utilità (per esempio da David Hume e da Jeremy Bentham). Ciò era un risultato della secolarizzazione della società, ma senza vantaggio per i commoners, se alla fine di quel secolo il Decano dell’Abbazia di Westminster poteva porre la domanda, per lui retorica: “Non hanno forse i ricchi il diritto di uso e anche di abuso delle loro ricchezze?”.
L’Ottocento: dalle proteste contadine alla grande metamorfosi
La resistenza e l’opposizione alle recinzioni e alla limitazione dei diritti d’uso nei commons si inserivano sempre più al margine di altri motivi della protesta contadina – che sorgeva per il peggioramento delle condizioni di vita a causa di carestie e di regole più dure sul lavoro, ma anche per l’introduzione della severa legge sui poveri, del reclutamento forzato nella milizia, e altro. Nella prima metà dell’Ottocento furono numerose le proteste nelle campagne, che in alcuni casi diventarono sollevazioni – come avvenne con i cosiddetti moti di “Captain Swing” e i “Rebecca Riots” (rispettivamente nel 1830-32 e 1842-44). Ma nell’ondata di agitazioni più vigorosa e duratura – quella del Cartismo (1837-48) – i malumori delle campagne ebbero poco peso. I momenti di conflitto e di scontro nascevano ora piuttosto nel mondo cittadino degli artigiani, dei piccoli commercianti e degli operai industriali.
Nel corso dell’Ottocento i common rights residui si limitavano ai pascoli di montagna e alle poche aree marginali delle pianure – e quell’espressione si trasformò gradualmente nel diritto al godimento della campagna, a beneficio della ormai prevalente popolazione urbana. (La popolazione impegnata in agricoltura, che nel 1801 rappresentava il 36% di quella attiva, nel 1901 si era ridotta al 9% – in Italia, nello stesso 1901, era oltre il 60%.) Ma neppure questo cambiamento avvenne senza controversie – quando i vecchi diritti non erano ancora considerati estinti, e i nuovi stavano lentamente emergendo.
Prendiamo il caso dei dintorni di Londra, dove esistevano commons con antichi diritti d’uso che nel corso dell’Ottocento subivano il mutamento al quale ho accennato. Scelgo un caso particolare: quello della Foresta di Epping (a nord-est di Londra). Padrone di buona parte di questa foresta era un certo Lord Mornington che da parecchi anni erodeva i diritti d’uso comune con recinzioni. Nel 1866 una famiglia contadina si ribellò: il padre e due suoi figli forzarono le recinzioni per raccogliere della legna – e furono imprigionati. Si seppe poi che uno dei giudici che li condannarono aveva ricevuto in dono da Lord Mornington un appezzamento all’interno dell’area recintata. Intanto uno dei figli morì in carcere di polmonite.
La vicenda suscitò grande scalpore e mobilitò la Società per la Conservazione dei Commons (Commons Preservation Society), che era sorta l’anno prima e fra i cui membri c’erano John Stuart Mill, William Morris e Octavia Hill (una riformatrice e promotrice di edilizia popolare, seguace di John Ruskin). La Società avviò un’azione legale contro Lord Mornington, ma ci volle una decina d’anni perché fosse fatta giustizia: le recinzioni, che intanto erano continuate, furono dichiarate illegali; Lord Mornington dovette pagare il salatissimo costo del lungo percorso giudiziario e, fatto più importante, fu costretto a cedere i suoi possedimenti nella foresta alla Corporation of London (che è l’ente di governo della City di Londra, considerato l’ultimo comune medievale rimasto in Europa). Qualche anno dopo, nel 1882, la Regina Vittoria fu presente alla cerimonia nella Foresta di Epping in cui il Lord Mayor della City destinò la foresta a uso perenne del pubblico.
Ho scelto il caso della Foresta di Epping anche perché, nella prima metà dell’Ottocento, vi esisteva un manicomio privato che vide tra i suoi pazienti volontari – negli anni 1837-41 – il poeta-contadino John Clare, che lamentò lo stravolgimento delle campagne a causa delle recinzioni. Mi limito a due degli ottanta decasillabi in rima baciata di cui si compone la poesia intitolata, The Mores: “…con le recinzioni si calpestò la tomba del / diritto al lavoro e il povero fu reso schiavo…” (…Inclosure came and trampled on the grave / Of labour’s rights and left the poor a slave…).
Il Novecento: riflessioni storiche e mobilitazione continua
Ritorniamo alla prosa ed entriamo nel XX secolo, all’inizio del quale la vicenda dei commons incominciò a suscitare l’interesse degli storici. John e Barbara Hammonds (The Village Labourer. 1760-1832, pubblicato nel 1911) sostennero che le recinzioni sancite dal Parlamento dall’inizio del Settecento avevano condotto al dominio della grande conduzione capitalista, riducendo i piccoli possessori e i commoners a salariati industriali con peggioramento delle loro condizioni di vita. La tesi fu ripresa e contrastata qualche decennio dopo da chi argomentò che, innanzitutto, anche prima delle recinzioni “parlamentari” i contadini avevano perduto molti diritti d’uso sui commons; e che, in secondo luogo, la maggiore produzione e la maggiore produttività rese possibili dalle recinzioni e dai limiti imposti a quei diritti finivano per beneficiare gli stessi contadini, compensandoli con salari che consentivano di condurre una vita meno disagiata e più sicura.
Non è il caso di entrare nel vecchio e inconcluso dibattito intorno alle condizioni di vita del proletariato contadino o industriale durante il passaggio dalla “rivoluzione agraria” alla “rivoluzione industriale”, ma è interessante notare che questo argomento è stato ripreso negli ultimi decenni da studiosi che hanno condotto una rigorosa analisi di fonti locali in passato trascurate. La maggior parte di loro (compreso E.P. Thompson) rivaluta l’argomentazione degli Hammonds, sostenendo non solo che le recinzioni causarono un impoverimento dei contadini, ma che esse non stimolarono significativamente lo sviluppo industriale, perché la maggiore produttività non sarebbe stata tanto dovuta a un impiego più intenso e più razionale della manodopera e degli strumenti agricoli, quanto alla forte diminuzione della popolazione attiva in agricoltura. E questo sarebbe stato dovuto a sua volta in parte alla trasformazione di quella popolazione in proletariato di fabbrica, e in parte alla sua espulsione dalle campagne, trasformando molti vecchi commoners in vagabondi sradicati.
La già ricordata Società per la Conservazione dei Commons si fuse nel 1899 con un’analoga istituzione, la Società Nazionale dei Sentieri (The National Footpaths Society) e ne nacque la Società per la Conservazione degli Spazi Aperti e dei Sentieri (The Open Spaces and Footpaths Preservation Society). Le parole sono significative perché rivelano che ormai non si trattava più di difendere gli antichi e controversi diritti d’uso agricolo dei commons ma di assicurare alle classi urbane, sia medie che popolari, il godimento di spazi verdi nelle grandi città e nelle campagne. La metamorfosi si fa completa nel corso del XX secolo, tanto che si finisce quasi per perdere la memoria di quella storia millenaria. Agli inizi del Novecento, infatti, la storia dei commons, se non la loro pratica, era ancora tanto viva che a essa l’Enciclopedia Britannica (ed. 1910) dedicava ben 5 fitte pagine. (Autore della voce era l’avvocato – e baronetto – Robert Hunter, che aveva difeso i diritti comuni dei contadini nella controversia della Foresta di Epping.) Nella più recente edizione, del 2010, quella voce si riduce a un unico paragrafo di 15 righe.
Negli ultimi cento anni c’è stato anche un ulteriore adeguamento lessicale alla metamorfosi subita dai commons: gli antichi common rights sono sostituiti dal right of way (diritto di accesso) e dal right to roam (diritto di girovagare). A sancire questi “nuovi diritti” ci ha pensato innanzitutto una legge del 1925 (Property Law Act), ma solo un’azione di massa nel 1932 contro l’opposizione di proprietari terrieri ne ha reso effettiva l’applicazione. A regolare la materia fu istituita circa vent’anni dopo una Commission on Common Lands (1955), che promosse la creazione di un registro dei commons, da completarsi entro il 1970. Non ci riuscirono, ed ecco la nuova legge del 2000 (The Countryside and Rights of Way Act) che richiedeva alla agenzia governativa Forestry Commission (fondata nel 1919) di compilare carte dettagliate dei luoghi e dei percorsi dove si potevano esercitare quei diritti. Non bastava; una legge successiva (The Commons Act, 2006), mirava a proteggere quei diritti da abusi e a riaprire la questione della registrazione, che non era stata ancora completata.
Fine della nostra storia? Macché. Quando, nel 2010, sono ritornati al governo i conservatori dopo tredici anni – e in coalizione con i liberal-democratici – è stata promossa un’iniziativa intesa a ridurre i poteri della Forestry Commission a vantaggio di interessi commerciali, ma David Cameron è stato costretto a fare marcia indietro per la reazione dell’opinione pubblica. Il governo ha allora istituito una Commissione indipendente per le foreste (Independent Panel on Forestry) che ha fatto conoscere il risultato del suo lavoro nel luglio del 2012 – e che è giunta a conclusioni poco gradite a quel governo: la raccomandazione di estendere le aree boschive e forestali dal 10 al 15% entro il 2060. Ciò è stato di stimolo per l’opinione pubblica che rimane sempre vigile e decisa, perché le contestazioni da parte dei proprietari continuano con modalità e tempi diversi. Solo qualche mese fa (l’11 luglio) un editoriale del Guardian era dedicato a questa continua battaglia e aveva come titolo: “Il diritto di girovagare è una libertà preziosa. Difendetela bene”.
Osservazioni finali
Due osservazioni finali – una particolare e una generale. Quella particolare è che nella trasformazione dei commons da realtà economico-sociale a categoria socio-culturale si innesta e si sviluppa la “nostalgia” degli inglesi per i campi, le colline e le foreste – che sono soprattutto nella loro immaginazione, ma che sono anche diventati parte integrante della loro identità nazionale. L’osservazione generale è che risalire ai common lands medievali per arrivare al tentativo del primo governo Cameron di ridurre gli spazi di boschi e foreste rinvia alle tensioni di fondo nella storia – non solo inglese – fra legge e consuetudine, fra giustizia e libertà, fra diritto e potere, fra privato e pubblico, fra individuo e comunità.
Bibliografia selezionata
Robert C. Allen, Enclosure and the Yeoman, Clarendon Press, Oxford 1992.
Jean Birrel, Common Rights in the Medieval Forest: Disputes and Conflicts in the 13th Century, “Past & Present”, 117 (1987), pp. 22-49.
David Carpenter (ed.), Magna Carta, Penguin Books, London 2015.
Andrew Charlesworth (ed.), An Atlas of Rural Protest in Britain: 1548-1900, University of Pennsylvania Press, Philadelphia 1983.
Jane Humpries, Enclosures, Common Rights, and Women: the Proletarization of Families in the Late 18th and Early 19th Centuries, “The Journal of Economic History”, 50, 1 (1990), pp. 17-42.
Peter Linebaugh, The Magna Carta. The Manifesto. Liberties and Commons for All, University of California Press, Berkeley 2008.
Jean M. Neeson, Commoners: Common Right, Enclosure and Social Change in England, 1700-1820, Cambridge University Press, Cambridge 1993.
Steve Pincus, 1688. The First Modern Revolution, Yale University Press, New Haven-London 2009.
Leigh Shaw-Taylor, Parliamentary Enclosure and the Emergence of an English Agricultural Proletariat, “The Journal of Economic History”, 61, 3 (2001), pp. 640-662.
Edward P. Thompson, Whigs and Hunters. The Origin of the Black Act, Breviary Stuff Publications, London 2013 (prima ed. 1975; tradotto in italiano con il titolo: Whigs e cacciatori: potenti e ribelli nell’Inghilterra del 18° secolo, Ponte alle Grazie, Firenze 1989).
Edward P. Thompson, Customs in Common (cap. 3: “Custom, Law and Common Right”, pp. 97-184), The Merlin Press, London 2010 (prima ed. 1991).