di Francesca Endrighetti
Presentiamo le prime pagine, tratte dalla Introduzione, del lavoro di Francesca Endrighetti, Un confessionale in pubblico. La «piccola posta» nei settimanali femminili, uscito da qualche giorno, come quattordicesimo titolo della collana “Quaderni di storiAmestre”.
Se si ripercorrono le vicende dell’Italia in quell’arco di Novecento che va dalla fine della seconda guerra mondiale al miracolo economico e quindi al Sessantotto, durante il quale entrano in crisi i tradizionali valori e modelli vigenti in ambito sociale e in particolare dentro la famiglia, si coglie un contrasto tra la quasi totale assenza delle donne nello spazio pubblico da un lato e, dall’altro, la forte presenza femminile nelle copertine e nelle pubblicità dei giornali, nei fotoromanzi (che cominciano a uscire nel 1946) e più in generale nei media. Ma cosa c’era dietro l’immagine della casalinga tutta tacchi e bigodini delle pagine patinate dell’epoca, artefice più o meno consapevole dei cambiamenti a cui la società italiana stava andando incontro?
Ho cercato una risposta a questa domanda da un’angolatura particolare: la cosiddetta «piccola posta» inviata dalle lettrici alle rubriche dei loro settimanali femminili preferiti. Si può dire che questo spazio rappresentasse una sorta di «confessionale pubblico»: in un periodo di crescente secolarizzazione della società italiana, nasceva un nuovo tipo di confessione per le donne, laica e pubblica. Si trattava di un fatto in qualche modo rivoluzionario: per secoli le donne si erano confrontate con il loro confessore in un dialogo a due che avveniva entro uno schema ben codificato di obblighi e penitenze, comportamenti e gerarchie. Fino a questo momento, per regolarsi nella vita, esse avevano fatto ricorso alla precettistica e alla pedagogia religiosa impartite dal sacerdote; non cercavano risposte altrove perché non vi era altro luogo in cui i dubbi potessero essere espressi in modo chiaro e confortante. Affette da un timore reverenziale nei confronti del marito e dei genitori, non vi era per loro un altro spazio o un’altra figura con cui affrontare temi di cui spesso non era bene parlare.
Negli anni successivi alla seconda guerra mondiale le donne cominciano invece a uscire dalla sfera privata e parlano pubblicamente della propria vita scrivendo lettere indirizzate alle redazioni di rotocalchi e fotoromanzi. Qualcuno ora le ascolta, e spesso sono altre donne: giornaliste come confessori laici e femminili dunque, nella veste di amiche che osservano col giusto distacco ma anche con partecipazione.
È vero che nel corso della storia recente le donne italiane avevano vissuto momenti di partecipazione e di presenza sulla scena pubblica. Quando per esempio avevano supplito alla mancanza di uomini durante la prima e la seconda guerra mondiale, oppure avevano ricoperto ruoli importanti nel corso della Resistenza, esse si erano rese visibili in modo forte anche al di fuori dell’ambito domestico. Attività che però si erano largamente esaurite in tempo di pace, con il conseguente ritorno alla sfera privata. Solo negli anni Cinquanta le donne cominciano a costruire la propria cittadinanza nel quotidiano, partecipando attivamente allo spazio pubblico, alla scoperta di altre donne e di se stesse in un confronto alla pari, nato dalla necessità di un nuovo modo di comunicare la propria esperienza e da un nuovo interesse: la conoscenza di analoghe forme di esistenza.
Non sono questi gli anni del neo-femminismo, della lotta perseguita attivamente nelle piazze, dei dibattiti, della contestazione. Sembra piuttosto un periodo di transizione, in cui si avvertono i primi segnali di quanto sarebbe accaduto in seguito in modo manifesto. Sono anni relativamente trascurati dalla storiografia sulle donne, che parla molto di ciò che avvenne prima e di ciò che avverrà dopo tale periodo: su un versante cronologico stanno gli studi sulla costruzione della donna fascista e sul ruolo delle donne nella guerra e nella Resistenza; sull’altro, quelli sul neo-femminismo, la rivoluzione sessuale, gli anni Settanta del referendum sul divorzio, della riforma dello stato di famiglia, della legge sull’aborto.
La mia attenzione è rivolta a ciò che sta nel mezzo, e che consiste per un verso nel riassestamento dell’ordine turbato dalla guerra, per altro verso nella novità del modello di società di importazione americana, e nella progressiva diffusione di una cultura che comincia a massificarsi grazie anche al nuovo benessere economico.
In questo periodo le donne si dotano di strumenti di comprensione che le loro madri non possedevano, trasmettendo poi alle figlie una coscienza diversa e una diversa percezione di sé. In tal senso sono aiutate dalla lettura delle riviste, mezzo utile oltre che piacevole per tenersi informate, che permette, per quanto possibile, di aggirare distinzioni di ceto e tabù familiari nei confronti della modernità.
È difficile stabilire quanto la diffusione dei rotocalchi, oltre a radio, dischi e televisione, abbia aiutato a smuovere realtà apparentemente immobili come certe zone del Paese caratterizzate dall’invisibilità quasi totale delle ragazze. Tuttavia la «piccola posta» appare un fertile luogo d’incontro, ponte tra la dimensione privata e quella pubblica, o meglio di un privato che comincia a farsi pubblico. Le lettere che costituiscono la fonte per la mia indagine rendono partecipi di questa trasformazione in atto: sono scritture private quanto a contenuti, destinate tuttavia a diventare pubbliche perché inserite all’interno di riviste a tiratura nazionale. Esse costituiscono l’esempio di una scrittura di persone comuni che attraverso le proprie vicende offrono un quadro d’insieme che aiuta a comprendere quegli anni della nostra storia. Rendono vivi i desideri, i sentimenti d’amore e di odio, vicende intrise di materialità e pulsioni fisiche, che si distaccano marcatamente dalla storia delle istituzioni e della politica, pur essendone profondamente intrise, perché le autrici sono donne che vivono in un contesto socio-istituzionale con cui devono venire a patti e che molto spesso comincia a star loro stretto.
Le fonti per una ricerca
La prima difficoltà di una ricerca del genere riguarda le fonti: quali riviste scegliere, dove trovare un materiale che le biblioteche di norma non conservano, come rendere il tempo di lavoro necessario compatibile con l’esigenza di concludere un percorso di studi?1 L’idea per aggirare questo ostacolo mi è venuta dalla raccolta Questioni di cuore, pubblicata nel 1994, che contiene le lettere inviate alla rubrica del settimanale Venerdì di Repubblica insieme alle risposte della curatrice, Natalia Aspesi2. Mi sono accorta allora che oltre trent’anni prima, nel 1959, la giornalista Gabriella Parca aveva pubblicato Le italiane si confessano, una raccolta di «8.000 lettere giunte nei tre anni precedenti a due settimanali “a fumetti” pubblicati a Roma e diffusi in tutta Italia. Il loro pubblico femminile, quello che si rispecchia in queste confessioni, è composto di operaie, donne di casa, contadine, domestiche, sartine, piccole impiegate e studentesse. Le categorie che rappresentano il 60 per cento della popolazione femminile italiana»3.
È stato questo libro – che, come spiegherò più avanti, ha fatto storia – a indicarmi una possibile via d’uscita: invece di fare uno spoglio rivista per rivista, di esaminare ogni singola lettera pubblicata, ho preso in esame un corpus di lettere a suo tempo già raccolte e pubblicate in volume. E questo ben sapendo che tale scelta comporta dei grossi limiti: si ragiona non sulla totalità della posta pervenuta in redazione ma solo su un campione selezionato, e si accetta l’intervento di taglio e di rimaneggiamento dei testi che sta a monte della pubblicazione.
Ho scelto in tutto quattro raccolte di lettere4 inviate ad alcune riviste settimanali, ovvero: due fotoromanzi romani indicati da Gabriella Parca genericamente come «fumetti»; Noi Donne (risponde alle lettrici la direttrice Giuliana Dal Pozzo); Famiglia Cristiana (tenuta da vari rubricisti, tra cui spiccano le figure di Padre Atanasio e del suo successore don Zilli); Annabella (la rubrica era tenuta da Brunella Gasperini, pseudonimo di Bianca Robecchi).
Sono pubblicazioni contraddistinte da un pubblico differente, cui corrispondono quindi delle lettrici-scriventi di diversa origine sociale e diverso orientamento culturale e politico, con un diverso punto di vista sulla propria condizione di donna e sulla vita in generale. La rivista Annabella era un prodotto pensato per la donna borghese. Il genere fotoromanzo, con l’essenzialità dei suoi contenuti, puntava a un pubblico popolare anche se spesso la sua diffusione risultava più ampia e trasversale alle diverse classi sociali. Famiglia Cristiana era la rivista dei cattolici, venduta per abbonamento o nelle chiese. Noi Donne, rivista nata nel 1944 nell’ambito del movimento femminile antifascista, poi diventata organo dell’Unione Donne in Italia (UDI), si rivolgeva alla donna che voleva tenersi informata sui temi dell’attualità e dei diritti dei cittadini da un punto di vista laico e progressista.
In tre casi su quattro le raccolte contengono anche le risposte alle lettrici. Il periodo che coprono va dalla fine degli anni Cinquanta agli anni Settanta.
La stessa Gabriella Parca, sin dal 1959 e più diffusamente nella prefazione alla nuova edizione del 1973, indicava i limiti di queste pubblicazioni nel restituire l’«autentica» voce delle lettrici: le lettere venivano infatti rimaneggiate. Si procedeva, per ragioni di privacy, a epurarle dei riferimenti diretti alla scrivente (nome, provenienza, eventuali riferimenti troppo espliciti a persone e luoghi…) e, ancor prima, alla «ripulitura» di elementi accessori e perciò inutili al racconto, di eventuali errori ortografici o sintattici e di altri tratti troppo marcatamente epistolari. Su tutti questi aspetti torneremo più avanti.
Pier Paolo Pasolini invece non si poneva questo problema filologico allorché, in una sua breve presentazione aggiunta a partire dal 19605, scriveva: «Osservate la lingua in cui queste lettere sono scritte: è un italiano perfettamente anonimo, corretto, scorrevole, come si impara a scuola (magari con qualche piccolo errore, qualche svista sintattica). Non ho mai visto la lingua italiana media realizzata con tanta precisione e con tanto rilevante valore stilistico»6.
Nell’edizione del 1973 la giornalista tornò su queste parole e osservò leggermente irritata:
qualsiasi linguista per fare un’analisi del genere avrebbe preteso di avere sott’occhio gli originali delle lettere, tanto più che nell’introduzione io stessa avvertivo di aver operato dei tagli e di aver «tradotto» delle parole dialettali, per rendere più agevole la lettura: cosa abbastanza naturale e che anche l’editore aveva voluto, in quanto il libro non si rivolgeva ad un élite di specialisti ma a un pubblico di lettori medi, interessati eventualmente all’aspetto sociologico di un documento, non certo a quello glottologico.
È ovvio che avrei messo volentieri gli «originali» a disposizione di Pasolini: ma nessuno me li chiese, e quando, avvertita in ritardo dall’editore, proposi allo scrittore di vederli, mi rispose che oramai aveva già scritto il suo saggio7.
Gabriella Parca prendeva le distanze dal giudizio di Pasolini sotto ogni punto di vista. Lo scrittore friulano aveva scritto nelle prime righe della sua Prefazione: «La prima impressione che si ha leggendo queste lettere è che sono estremamente divertenti: anzi dirò che Le italiane si confessano è stata le più divertente lettura che io abbia fatto in questi ultimi anni…»8. E ora la curatrice commentava:
Ma che cosa lo avrà divertito tanto? La ragazza che pensa di suicidarsi perché ha perduto la sua verginità, o quella che vuole uccidere il suo fidanzato perché gliel’ha fatta perdere? Ogni lettera, oltre ad essere «curiosa» come lui dice, rappresenta un caso umano in cui la condizione della donna emerge in tutta la sua fragilità la sua incertezza, le sue paure. È questo il senso che tutti hanno colto del libro. Come mai un uomo dalla raffinata sensibilità di Pasolini, lo trova invece «divertente»?
Si affaccia il dubbio che nella scelta di questo aggettivo vi sia una punta di disprezzo: non nei riguardi delle illetterate autrici delle lettere, ma dei loro drammi di donne9.
Ma la stessa rilettura fatta da Gabriella Parca a 14 anni di distanza suggerisce che la «piccola posta» fosse considerata da un altro punto di vista, con una serietà che andava ribadita.
Scrittura di sé e cambiamento
Nel corso di questa ricerca, mi è sembrato che lo spazio della «piccola posta» abbia contribuito alla costruzione di un nuovo modo di pensarsi donne. Abbia permesso cioè di conoscere se stesse (scrivere di sé impone che prima si pensi a sé) e di rapportarsi alle altre, scoprendo di volta in volta realtà simili o differenti. Una crescita perciò generata dal confronto. A fare da moderatrici a questi «incontri» su carta stampata c’erano delle giornaliste, voci amiche che, seppur per mestiere, stavano ad ascoltare: il giudizio risultava meno pesante perché a darlo era una persona che non faceva parte della propria cerchia di parenti, vicine di casa, amiche, una persona avvertita come vicina nello spirito ma allo stesso tempo lontana.
Spesso la scrittura ha rappresentato per le lettrici-scrittrici una vera e propria forma di cura10, un momento di riflessione e poi di esposizione, uno stop and go necessario a ridefinire una vita che si voleva nella maggior parte dei casi diversa, come si trattasse di una forma di riappropriazione del vissuto personale.
La forma in cui brani di vita sono raccolti insieme a formare una storia racconta molto della vicenda stessa. È difficile apparire distaccati quando la scrittura riguarda la sfera personale, ma esistono comunque molti modi per esprimere la propria esperienza attraverso la scrittura. La maniera in cui il racconto si articola (e le lettere che analizzeremo in seguito ne sono un esempio) spesso non è la somma dei fatti collocati uno di seguito all’altro in una specie di elenco, ma sono invece episodi selezionati dal punto di vista di chi scrive, che assegna più o meno valore a certi particolari tralasciandone altri, secondo una scala di importanza e una messa in scena spazio-temporale del tutto personale. Tanto che in effetti, nel momento in cui una circostanza viene trascritta, vi è già il passaggio da esperienza vissuta a memoria necessariamente filtrata attraverso la prospettiva di chi scrive.
Per riprendere le parole di Paolo Jedlowski:
Narrare è un’operazione cognitiva. Elementare forse, ma non per questo meno potente. In questo senso ogni autobiografia è un «ri-conoscere», «di nuovo» e «di più», per il fatto stesso di essere un racconto, di disporre di racconti e pensieri secondo una trama. […] Credo che ogni narrazione autobiografica si muova entro due poli: da un lato tende alla presentazione di sé, dall’altro alla ricerca del sé11.
La presentazione del sé richiama esplicitamente il fatto che, se ci presentiamo, dobbiamo tenere in considerazione l’interlocutore cui rivolgiamo le nostre parole, e nel momento stesso in cui ci fermiamo a riflettere su come fermare con la scrittura questa espressione di noi, compiamo anche l’atto di pensarci e una nuova visione si costruisce ogni volta che si mette in atto questo meccanismo: non ricordiamo tutto, diamo importanza a cose che viste dall’esterno non ne hanno, e viceversa.
Spesso la scrittura autobiografica è stata utilizzata dalle donne come veicolo per raccontare ciò che precedette la raggiunta presa di coscienza; un famoso esempio, tra i tanti possibili, è Una donna di Sibilla Aleramo (1907). Scrivere a un rotocalco è un’operazione diversa, è scrittura della contingenza, mezzo per esprimere un dubbio del presente che, se risolto, contribuisce alla costruzione di un sé nuovo. Sono fotografie di un cambiamento in atto. Ed è il senso di questo cambiamento che questa ricerca si propone di cogliere.
- Questa ricerca nasce come tesi di laurea triennale. La questione della reperibilità di riviste popolari e, in generale, di materiali catalogabili come «letteratura di consumo» ormai è discussa ampiamente anche in ambito della storia del libro e dell’editoria. Qui mi limito a rimandare al breve diario di ricerca di Silvia Marcon, Il pomodoro nella stampa femminile, «Altrochemestre», 6, 1998, pp. 3-4 che racconta proprio le difficoltà, se non l’impossibilità di trovare collezioni adeguate nelle biblioteche civiche. [↩]
- Natalia Aspesi, Questioni di cuore. Amori e sentimenti degli italiani all’ombra del Duemila, Longanesi, Milano 1994. [↩]
- Cito dall’edizione Gabriella Parca, Le italiane si confessano, presentazione di Pier Paolo Pasolini, prefazione di Cesare Zavattini, Feltrinelli, Milano 1964, p. 14. Il libro era uscito per la prima volta nel 1959, presso l’editore Parenti di Firenze, con la sola prefazione di Zavattini, diventando in breve un «caso»; nel 1960 l’editore aggiunse la prefazione di Pasolini; nel 1962 uscì quella che Parenti definiva la «settima edizione», dove si annunciavano le imminenti traduzioni in francese, tedesco e inglese. [↩]
- Oltre alla già citata raccolta curata da Gabriella Parca, si tratta di: Giuliana Dal Pozzo, Parliamone insieme. Quindici anni di colloqui con le lettrici di «noi donne», Editori Riuniti, Roma 1973; Reverendo padre, a cura di Carmelita Tognetti, Libreria della Famiglia, Milano 1978 (comprendente due volumi: Amore, famiglia e sesso in Italia, con prefazione di Domenico Porzio, e Religione, società e costume in Italia, con prefazione di Silvano Burgalassi); Brunella Gasperini, Più botte che risposte, prefazione di Anna Del Bo Boffino, Rizzoli, Milano 1981 (riedito nel 1997 da Baldini e Castoldi e nel 2004 da Baldini Castoldi Dalai). [↩]
- Vedi nota 3; sia il testo di Pasolini che quello di Zavattini furono riproposti nelle edizioni uscite per Feltrinelli, fino al 1973 quando furono soppressi per volontà di Gabriella Parca (vedi infra, nota 7). [↩]
- Parca, Le italiane si confessano [1964] cit. p. 5. [↩]
- Gabriella Parca, Le italiane si confessano, Feltrinelli, Milano 1973, p. 15. Per questa edizione la curatrice decise di eliminare le vecchie prefazioni di Zavattini e di Pasolini, dato che «mostravano un po’ i segni del tempo» (ivi, p. 11). [↩]
- Ead., Le italiane si confessano [1964] cit., p. 5 [↩]
- Ead., Le italiane si confessano [1973] cit., p. 14. [↩]
- Per questo e altri concetti rimando a Paolo Jedlowski, Autobiografia e riconoscimento, in Vite di carta, a cura di Quinto Antonelli e Anna Iuso, L’ancora del Mediterraneo, Napoli 2000, pp. 209-215. [↩]
- Ivi, p. 211. [↩]