di Giannarosa Vivian
Pubblichiamo il testo dell’intervento che Giannarosa Vivian ha tenuto all’incontro pubblico Mai in nome della guerra, organizzato dall’associazione culturale “I Sette Nani” in collaborazione con la Municipalità di Chirignago Zelarino il 15 marzo 2015. Segnaliamo che il testo del discorso di Jane Addams, alla presidenza del Congresso Internazionale delle Donne per la Pace del 1915, sarà pubblicato nelle “pagine di storiAmestre” del prossimo Quaderno dell’associazione, in uscita a fine maggio: seguiranno presto ulteriori informazioni.
Il Congresso dell’Aja
Dal 28 aprile al 1 maggio 1915 si svolse all’Aja il Congresso Internazionale delle Donne per la Pace. L’Europa era in guerra da poco meno di un anno, e di lì a un mese sarebbe entrata in guerra anche l’Italia. Il Congresso, organizzato da donne provenienti tanto da Paesi belligeranti quanto da Paesi neutrali, rappresenta un momento importante della storia del femminismo pacifista – e del pacifismo in generale –, perché fu il primo a essere organizzato a livello internazionale con la guerra in corso, e dopo che i partiti socialisti – tranne quello italiano – si erano schierati a fianco dei rispettivi governi. Benché fosse un momento di angoscia, e per molte delle donne presenti di profondo dolore personale, l’incontro portò un segnale di speranza in un futuro in cui le guerre sarebbero state messe al bando: espresse la convinzione che la barbarie poteva essere contrastata dall’impegno di donne e uomini di pace, e ribadì la fiducia che alla fine la violenza e l’ingiustizia non l’avrebbero avuta vinta sull’umanità e sulla civiltà.
Le fotografie del congresso, conservate presso la London School of Economics, si trovano in parecchi siti. Alla serata d’apertura erano presenti 1136 donne. I Paesi Bassi erano rappresentati da oltre mille delegate, a cui si aggiunsero 6 austriache, 5 belghe, 2 canadesi, 6 danesi, 28 tedesche, 3 inglesi, 10 ungheresi, 1 italiana, 12 norvegesi, 16 svedesi e 47 americane. Nei giorni successivi se ne aggiunsero altre 914, facendo salire il numero delle partecipanti a più di duemila.
Il Palais de la Paix dell’Aja, che in origine avrebbe dovuto ospitare il Congresso, non era abbastanza grande, per cui si rese necessario allestire il salone d’ingresso del giardino zoologico. Questo spiega la presenza delle alte palme che si vedono dietro il palco (come appare infra, ill. 4).
Le attiviste olandesi si assunsero tutti gli oneri di ordine pratico, e in poco meno di otto settimane riuscirono a raccogliere i fondi necessari a coprire le spese richieste dall’organizzazione. Particolarmente costosa risultò la spedizione degli inviti: i tempi stretti e la necessità di contattare persone in tutto il mondo imposero l’invio di telegrammi, i cui costi erano superiori a quelli della posta ordinaria. Questo mezzo tuttavia rese possibile la diffusione del programma preliminare redatto dal comitato organizzatore, e favorì la nascita di comitati di propaganda in Austria, Danimarca, Germania, Gran Bretagna, Islanda, Ungheria, Norvegia e Svezia.
Una tale capacità operativa non sarebbe stata possibile senza la solida rete di relazioni femminili intessuta nel corso degli anni dalle organizzazioni internazionali.
Di certo – disse Emily Hobhouse, una di loro – questa era la dimostrazione che l’IWSA (International Woman Suffrage Alliance) non aveva preparato invano le donne, per anni e anni e in ogni parte del mondo, a tenersi informate e a collaborare l’una con l’altra.
1. Jane Addams, 1915
Fonte: http://en.wikipedia.org/wiki/Jane_Addams
La presidenza del Congresso fu affidata a Jane Addams (1860-1935). Sociologa e femminista, nel 1889 Jane Addams aveva fondato con una ex compagna di scuola, Hellen Starr, un social settlement in uno dei quartieri più degradati di Chicago (Hull House). Dieci anni dopo aveva fatto visita a Tolstoj nella sua casa di Jasnaja Poljana, spinta dal desiderio di discutere con lui le cause della povertà e i modi per combatterla. Lo scrittore russo aveva dimostrato scarso interesse per il suo impegno sociale, e lei ne era rimasta umiliata.
A partire dalla prima guerra mondiale Jane Addams diventò una delle figure più rilevanti del pacifismo internazionale.
Nel gennaio 1915, assieme a Carrie Chapman – presidente dell’IWSA – presiedette a Washington la conferenza da cui sarebbe nato il Woman’s Peace Party. Il nuovo partito esprimeva posizioni femministe: nel suo statuto si faceva riferimento alla “peculiare passione morale di rivolta delle donne contro la crudeltà e la devastazione della guerra, causati da uomini in posizione di potere” e chiedeva che le donne fossero incluse e pesassero al pari degli uomini tanto nella vita pubblica come nella vita privata. Le sue posizioni di netta condanna nei confronti della guerra la portarono a inimicarsi l’opinione pubblica americana, tanto da essere additata come “una delle donne più pericolose d’America”. Nel 1931, pochi anni prima della morte, le fu conferito il premio Nobel per la pace.
Torniamo al Congresso. Completati i preparativi, restava da risolvere il problema di come raggiungere l’Olanda.
A causa degli ostacoli burocratici incontrati per ottenere i permessi di viaggio, ma anche per via della chiusura del mare del Nord al transito di navi passeggeri, il viaggio verso l’Aja non fu affatto facile e non tutte le delegate riuscirono a raggiungere la città. Alle inglesi per esempio fu impedito di imbarcarsi, e solo 3 delle 180 delegate attese furono presenti all’incontro. Non meno difficoltoso fu il viaggio della delegazione americana rimasta bloccata per dieci giorni nel porto di Dover, tanto che a un certo punto le delegate temettero di essere considerate “quasi prigioniere di guerra”.
Ma “la causa della pace non poteva essere rifiutata” – affermò Aletta Jacobs della quale parleremo tra poco – e i lavori del Congresso furono inaugurati regolarmente.
2. Delegate americane a bordo della Noordam
Fonte: http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/b/b6/Noordam-delegates-1915.jpg
Chi non poté partecipare inviò messaggi di simpatia e di sostegno: erano omaggi da parte dell’associazionismo femminile e del pacifismo organizzato. Si sa che dall’Italia e dall’Egitto, allora protettorato britannico, arrivarono ventimila telegrammi. Tutti i messaggi sottolineavano i legami di sisterhood e di motherhood che univano le donne lontane e quelle vicine.
Aletta Jacobs, presidente della sezione olandese dell’IWSA e, al suo interno, del Comitato per gli Affari Internazionali, aveva creduto fin dall’inizio all’importanza di organizzare un incontro internazionale che doveva essere espressione della “differenza delle donne” sulla scena politica internazionale: “Le donne – dichiarava – devono dimostrare che almeno noi conserviamo il sentimento di solidarietà e che siamo capaci di mantenere la reciproca amicizia”.
Ciò che in tempo di pace sembrava a tutti naturale, quasi ovvio – mantenere viva la solidarietà e i rapporti di amicizia – in tempo di guerra si era dimostrato impossibile, eccettuati pochi casi, e il congresso dell’Aja fu uno di questi.
Le partecipanti al Congresso si opponevano alla guerra. Chi invece decise di appoggiare l’azione dei governi – e vengono in mente le suffragette inglesi, ma lo stesso vale per le francesi – giustificò tale scelta con la convinzione che la guerra avrebbe aperto alle donne possibilità nuove in termini di autoaffermazione, soprattutto con l’accesso a lavori fino ad allora appannaggio esclusivo degli uomini. Oltretutto era abbastanza diffusa l’idea che questa adesione avrebbe accelerato il cammino verso la concessione del voto alle donne.
Nell’aprire i lavori, Aletta Jacobs disse che a causa della gravità della situazione le era impossibile dare un benvenuto gioioso alle convenute. Per questo motivo si era deciso di escludere dal programma delle tre giornate tutte le iniziative mondane: non erano previsti infatti né ricevimenti, né serate con concerti, né spettacoli teatrali. Era convinzione di tutte che lo stare insieme avrebbe contribuito più di ogni altra cosa a creare legami di amicizia e di cooperazione.
3. Aletta Jacobs
Fonte: http://nl.wikipedia.org/wiki/Aletta_Jacobs
Parlando della morte di migliaia e migliaia di giovani uomini, “noi donne – disse – giudichiamo la guerra differentemente dagli uomini”. Per gli uomini si trattava di una perdita calcolabile in termini economici e di potere, per le donne era invece una perdita descrivibile in termini di umanità: era la perdita degli altri – mariti e figli, padri e fratelli –, ma anche di se stesse. Si trattava di un concetto condiviso da tante donne e in Paesi diversi, se troviamo nel giornale delle donne socialiste italiane di pochi mesi prima l’espressione: “La guerra annienta l’anima prima di distruggere il corpo” (“La difesa della donna”, 6 dicembre 1914).
Per Aletta Jacobs era centrale che la voce delle donne si facesse sentire proprio in quel momento, affinché esse – con le loro intrinseche doti di conservazione e di pace – potessero avere l’opportunità di assistere gli uomini nella condotta degli affari del mondo. Per questo, per la “santità” della vita umana, le donne dovevano avere voce in capitolo nelle decisioni dei governi di tutti i Paesi.
E ribadì che la questione del suffragio era centrale, nonostante le critiche di quanti pensavano che un Congresso di pace – giudicato comunque inopportuno con la guerra in corso – non avrebbe dovuto occuparsi della questione. Al contrario – sosteneva lei – un incontro internazionale che si proponeva di discutere modi e mezzi per impedire guerre future non poteva prescindere dalla questione del suffragio femminile: fintanto che non avessero fatto sentire la loro voce nei parlamenti, le donne non avrebbero avuto la possibilità di prevenire eventi catastrofici come la guerra, e di promuovere la risoluzione dei conflitti con i mezzi diplomatici della conciliazione e dell’arbitrato.
4. Il palco del Congresso
Fonte: http://www.vrouwenbelangen.nl/cms/wp-content/uploads/2012/12/WILPF-1915-platform-jokeS2.jpg
Al tavolo della presidenza (fotografie sono disponibili in parecchi siti) erano sedute 13 leader del movimento femminista. Da sinistra: Mme Thoumaian (Armenia), Leopoldina Kulka (Austria), Laura Hughues (Canada), Rosika Schimmer (Ungheria), Anita Augspurg (Germania), al centro è seduta la presidente del Congresso Jane Addams (Stati Uniti), alla sua sinistra Eugénie Hamer (Belgio), Aletta Jacobs (Olanda), Chrystal Macmillan (Gran Bretagna), Rosa Genoni (Italia), Alla Kleman (Svezia), Thora Daugaard (Danimarca), Louise Keilhau (Norvegia).
Di Jane Addams ho fatto una rapida presentazione. Di Aletta Jacobs anche. Vorrei ora dire qualcosa sull’unica delegata italiana, Rosa Genoni.
Rosa Genoni
Fonte: http://www.moda.san.beniculturali.it/wordpress/?protagonisti=genoni-rosa
Rosa Genoni (1867-1954) nativa di Tirano, in provincia di Sondrio, era una giovane ragazza di montagna quando a diciotto anni si era trasferita a Parigi per seguire da vicino le sfilate di moda, copiare i modelli degli abiti e poi, tornata a Milano, confezionarli per la sartoria presso cui lavorava. Si mise a lavorare in proprio e diventò una modista di successo. Era convinta della necessità di fondare una tradizione originale italiana, svincolata dalla sartoria francese che fino ad allora aveva dettato legge in fatto di moda. Scriveva per il giornale socialista “Avanti!”. Insegnò presso la Società Umanitaria di Milano, e in qualità di attivista contro la guerra partecipò al Congresso dell’Aja (la vediamo sul palco, è la quarta partendo da destra). In seguito, fece parte della commissione capeggiata da Jane Addams e Aletta Jacobs che incontrò i ministri degli esteri di numerosi Paesi europei, per proporre che fosse istituita una commissione di esperti per la cessazione negoziata del conflitto. La prospettiva naufragò nel 1917 con l’entrata in guerra degli Stati Uniti: su questo punto torneremo più avanti.
Terminati i tre giorni di lavori, il discorso conclusivo che doveva presentare i punti salienti emersi dalla discussione toccò alla presidente del Congresso.
Il discorso di Jane Addams
La presidente espresse anzitutto la propria ammirazione per le donne giunte all’Aja da paesi in guerra – “un atto di eroismo” – e ricordò le difficoltà affrontate nel viaggio anche da quelle che provenivano da paesi neutrali. Era una ferita aperta per tutte aver dovuto dissentire dall’idea imperante che sosteneva l’intervento in guerra, tanto più se questa era l’opinione di persone care, e dover vivere una specie di lotta interiore tra sentimenti patriottici e adesione all’internazionalismo.
Nonostante i precedenti tentativi di creare una forte organizzazione internazionale al di sopra delle parti – e si riferiva alle precedenti Conferenze dell’Aja che, prima nel 1899 e poi nel 1907, avevano discusso il principio della risoluzione negoziata dei conflitti – una sorta di “congestionamento emotivo” aveva portato all’esasperazione dei sentimenti nazionalistici e alla conseguente esaltazione della guerra. Il presente Congresso si ricollegava idealmente a quei tentativi messi in atto nel recente passato, e sperava di contribuire ai lenti progressi verso relazioni internazionali più giuste, nel solco del pensiero di Grozio, Kant e Tolstoj, i quali in epoche diverse avevano cercato di sostituire la legge alla forza.
La guerra in corso era spietata: tutti ormai erano a conoscenza dei dettagli più raccapriccianti. Quegli stessi strumenti di civiltà che per decenni erano serviti a unire i popoli – commercio, canzoni e romanzi, giornali fotografie e cinema – erano ora impiegati per rivelare al mondo l’orribile realtà della guerra.
“All’ombra di questa conoscenza intollerabile – continuò Jane Addams – noi donne del Congresso Internazionale ci siamo riunite per esprimere la nostra solenne protesta contro ciò che veniamo a sapere”.
L’organizzazione del mondo lungo percorsi di pace aveva fatto troppo affidamento sulla ragione e sul senso di giustizia: ma la ragione è solo una parte della natura umana. Esistono, a completarla, anche i sentimenti, gli impulsi profondi. Si tratta di quelle “sollecitazioni umane primitive” che sostengono la vita e inducono a proteggere i deboli, istinti di aggregazione sociale che gli uomini condividono con gli stessi animali: aspetti della sfera emozionale che avrebbero dovuto espandersi anche nella sfera politica, e di cui gli studiosi più preparati avrebbero dovuto servirsi a scopo di pace, anziché impegnarsi nell’elaborazione di sempre più sofisticate tecniche di guerra.
Il discorso si conclude con l’immagine dei giovani soldati feriti che, indifesi e disperati, invocano la loro madre. Alle infermiere dicono: noi non possiamo fare altro che guarire e aspettare di essere rimandati in trincea, ma voi? perché non fate qualcosa per fermare la guerra? Le donne dovevano affermare quindi “con chiarezza e coraggio la santità della vita umana, la realtà dello spirito”, così da non essere accusate, un giorno, di inerzia e viltà per aver rifiutato la sfida, in un momento in cui la devozione agli ideali del patriottismo avevano spinto gli uomini a impugnare le armi.
Quasi a voler dar corpo all’affermazione di una funzione femminile materna, di cura intesa come antidoto al veleno della violenza, le donne olandesi decisero simbolicamente di inviare un carico di tulipani ai soldati feriti ricoverati negli ospedali da campo. Le duecento scatole di fiori che a causa della distanza non raggiunsero mai l’Austria-Ungheria, né la Russia e neppure altri fronti a est e a sud dell’Europa, arrivarono negli ospedali di guerra di Gran Bretagna, Germania e Paesi Bassi.
Le Risoluzioni
Anche se tra le delegate erano emerse diversità di opinione talvolta profonde, il Congresso si concluse il primo maggio 1915 con l’elaborazione di una piattaforma da cui il presidente Woodrow Wilson avrebbe tratto ispirazione per il discorso che tenne al Senato degli Stati Uniti d’America l’8 gennaio 1918, noto come i “Quattordici punti”, un discorso in cui esponeva i suoi propositi riguardo il futuro ordine mondiale a guerra conclusa.
Le delegate al Congresso dell’Aja votarono 20 Risoluzioni, che ruotano intorno a tre punti focali.
Primo punto. Sotto il titolo Women sono raccolte le risoluzioni nelle quali si rivendica la volontà delle donne di essere presenti e contare nella vita pubblica, e di vedere riconosciuto un proprio posto nei governi per condividerne la responsabilità. Non era più sufficiente che le donne si accontentassero di esercitare sugli uomini – e quindi, indirettamente, sulla politica – la propria influenza, per quanto forte. Era tempo che le donne esercitassero direttamente il potere di gestire affari nazionali e internazionali. Questa esigenza si avvertiva ora più che mai: le donne si sentivano responsabili della guerra in atto, ma non potevano intervenire nelle scelte politiche che avrebbero potuto fermarla.
Secondo punto. Il titolo Peace Treaties (Peace Settlement), Arbitration mette in evidenza il binomio “donne-pace”. Assieme al riconoscimento alla cittadinanza, le donne rivendicavano un posto nelle future trattative di pace, e si battevano per la promozione della pace, fondata sul concetto di giustizia e sulla creazione di un organismo internazionale al di sopra delle parti.
Anche se con difficoltà – erano presenti in sala delegate provenienti da Paesi ritenuti aggressori e anche da Paesi ritenuti vittime – il Congresso chiese di fermare la guerra e di aprire un negoziato che conducesse a una pace “magnanima e onorevole” senza vincitori né vinti.
Perché si potesse lavorare alla costruzione di una pace duratura, vennero riaffermati alcuni principi.
Una pace giusta doveva prevedere che nessun territorio dovesse essere trasferito senza il consenso di chi lo abitava, e perciò nessun diritto di conquista fosse riconosciuto; che a tutti i popoli fosse riconosciuta l’autonomia di governo e un parlamento democratico; che le dispute internazionali fossero risolte attraverso l’arbitrato o la conciliazione; che sui Paesi che in futuro avessero comunque fatto ricorso alle armi dovevano essere esercitate pressioni economiche, sociali e morali; che la politica estera fosse soggetta al controllo democratico e non lasciasse spazio ad accordi segreti tra governi e diplomazie.
Terzo punto. Oltre a una proposta di lungo periodo sulla necessità di educare le giovani generazioni alla pace, era urgente un’iniziativa immediata: i paesi neutrali dovevano indire una Conferenza e offrire una mediazione continua, al fine di accogliere le richieste dei paesi belligeranti e avanzare proposte ragionevoli per la pace. La delegazione statunitense prefigurò la nascita di quell’organizzazione internazionale che in seguito avrebbe preso il nome di “Società delle Nazioni” con il ruolo di garante. Per ottenere una pace costruttiva, tale organismo avrebbe dovuto favorire l’istituzione di una Corte internazionale permanente di giustizia – con il compito di risolvere le controversie relative ai trattati e alle divergenze scaturite dalle leggi nazionali –, e di una Conferenza internazionale permanente avente lo scopo di indire incontri periodici, aperti anche alle donne, al fine di promuovere la cooperazione tra gli Stati, nel riconoscimento dei diritti dei grandi come dei piccoli Paesi.
Accanto alle risoluzioni di carattere politico, il Congresso adottò una risoluzione volta a definire le future attività pubbliche delle delegate dell’Aja. Anzitutto un nuovo Congresso di donne (venti delegate e dieci supplenti per ciascun Paese) da tenersi contemporaneamente alla Conferenza di pace. In vista dell’organizzazione del futuro incontro, e per promuovere le Risoluzioni votate all’Aja, si decideva di formare un comitato internazionale – l’International Committee of Women for Permanent Peace – e, accanto a questo, comitati nazionali impegnati nella diffusione dei principi fondamentali del Congresso dell’Aja (voto parlamentare alle donne e soluzione dei conflitti attraverso mezzi pacifici) e nella raccolta di fondi necessari per le iniziative future.
Nei primi mesi di attività, il risultato più importante e visibile dell’ICWPP fu quello di preparare una missione diplomatica presso i governi dei Paesi sia neutrali che belligeranti. Compito delle inviate era portare a conoscenza dei capi di Stato le risoluzioni votate all’Aja e sottoporre loro un piano per far cessare il conflitto.
Nell’arco di due mesi, tra il 7 maggio e l’8 luglio 1915, una delegazione composta da sette delle principali protagoniste del Congresso dell’Aja (Jane Addams e Aletta Jacobs in testa) fu ricevuta dai primi ministri in 13 capitali europee. In un Manifesto steso a conclusione del viaggio si rendeva noto che le visite ufficiali erano state 35, e numerosissimi i contatti non ufficiali con parlamentari, leader politici, giornalisti, senza contare gli incontri pubblici e i seminari organizzati dalle sezioni locali aderenti all’ICWPP.
Terminata la missione, le protagoniste tornarono in patria e ripresero ognuna la propria attività, incontrando sempre maggiori difficoltà sia che il Paese fosse neutrale sia che fosse in guerra.
Le donne ritratte nelle foto del Congresso dell’Aja sembrano vecchie ma viste da vicino non lo sono poi tanto. È la moda del tempo – l’acconciatura dei capelli e la foggia dei vestiti – e la preoccupazione che si legge nei loro occhi per la gravità del momento, a farle sembrare più nonne che mogli, madri, sorelle. È una generazione di donne che farà in tempo ad assistere negli anni a venire all’ascesa del fascismo e del nazismo e, alla fine degli anni Trenta, allo scoppio di un’altra guerra mondiale.
Nel 1935, vent’anni esatti dopo il Congresso Internazionale delle Donne per la Pace tenutosi all’Aja, il segretario di un’associazione antifascista inglese chiese a Virginia Woolf di fare qualcosa per prevenire la guerra e per contrastare l’avanzata del fascismo in Europa. Nell’arco di due anni, tra il 1936 e il 1938, l’ormai famosa scrittrice londinese pubblicò un pamphlet in cui, sotto l’artificio retorico di voler contribuire alla causa dell’antifascismo e del pacifismo donando tre ghinee, dimostra il legame inseparabile esistente tra opposizione alla guerra e libertà femminile.
Letture
Maria Grazia Suriano, Donne, pace, non-violenza fra le due guerre mondiali. La Women’s International League for Peace and Freedom e l’impegno per il disarmo e l’educazione, tesi di dottorato, tutor Maria Malatesta, Università di Bologna, Bologna 2007, cap. I (senza indicazione di pagine), accessibile online all’indirizzo http://amsdottorato.unibo.it/623/1/Suriano-Tesi_Dottorato_XIX_ciclo.pdf (ultimo accesso 26 febbraio 2015).
Bruna Bianchi, “Militarismo versus femminismo”. La violenza alle donne negli scritti e nei discorsi pubblici delle pacifiste durante la Prima guerra mondiale, “DEP. Deportate, esuli, profughe. Rivista telematica sulla memoria femminile”, numero monografico Genere, nazione, militarismo. Gli stupri di massa nella storia del Novecento e nella riflessione femminista, 10 (2009), pp. 94-109; accessibile online all’indirizzo: http://www.unive.it/media/allegato/dep/n10-2009/Ricerche/BianchiB.pdf (ultimo accesso 26 febbraio 2015).
La guerra e la degradazione delle donne. Intervista a Jane Addams, aprile 1915, a cura di Bruna Bianchi, ivi, pp. 189-198, accessibile online all’indirizzo: http://www.unive.it/media/allegato/dep/n10-2009/Documenti/Bianchid.pdf (ultimo accesso 26 febbraio 2015).
Jane Addams, i miti della “madre nutrice” e la pace (1922), a cura di Bruna Bianchi, “DEP. Deportate, esuli, profughe. Rivista telematica sulla memoria femminile”, 20 (2012), pp. 163-170, accessibile online all’indirizzo: http://www.unive.it/media/allegato/dep/n20-2012/Documenti/13_Addams_Pane_e_pace.pdf (ultimo accesso 26 febbraio 2015).
Simona Mafai dice
molto interessante; utilizzeremo parte delle notizie nella preparazione del numero del giornale “Mezzocielo” (Palermo), che uscirà ad ottobre, proprio sul tema “Donne e guerra”,
eugenia Paulicelli dice
Grazie per l’articolo. Vorrei segnalarle il mio libro: Rosa Genoni. La moda è una cosa seria. Milano Expo 1906 e la Grande Guerra. (Deleyva editore: 2015)