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“In culo a Cecco Beppe”. Dal diario di Carlo Emilio Gadda

09/12/2014

di Davide Zotto

Il nostro amico Davide Zotto ci manda alcune note prese leggendo il Giornale di guerra e di prigionia di Carlo Emilio Gadda.

Carlo Emilio Gadda, classe 1893, si arruolò volontario e venne nominato sottotenente nella milizia territoriale nell’agosto del 1915 (p. 9). Aveva già presentato domanda in marzo: credeva in quella guerra, la considerava una guerra d’indipendenza. “Io odierò il nemico prepotente, che vuole in mano sua il mondo, e lo combatterò finché potrò” (p. 327). La prima destinazione fu Edolo, dove al “Bazar Edolo” acquistò un quaderno (p. 8). Cominciò così a prendere note e appunti.

Gadda scrisse in tutto sei quaderni durante la guerra e la successiva prigionia. Sono stati pubblicati in tempi diversi (prima da Sansoni nel 1955, poi da Einaudi nel 1965), tranne uno (il Giornale di guerra: ottobre 1916-1917), andato smarrito durante la battaglia di Caporetto: “Se avessi lontanamente previsto ciò che stava per succedere gli avrei fatto recare della mia roba dalla mia cassetta e soprattutto il mio diario di Torino-Clodig il più prezioso oltre che per notizie per apprezzamenti ecc.” (p. 288). In un metodico elenco degli oggetti lasciati in mano al nemico “per forza maggiore”, scrive: “il prezioso diario del 1917 (Torino, Carso, Clodig), con la storia delle mie speranze e delle mie sofferenze” (p. 444). 

Il quaderno relativo a Caporetto (Diario di Caporetto) fu l’ultimo a essere pubblicato, nel 1991, molti anni dopo la morte dell’autore, avvenuta nel 1973; per l’occasione i quaderni furono riediti ripristinando i passi eliminati dalla edizioni precedenti per volontà di Gadda: un’autocensura che aveva lo scopo di non ferire la suscettibilità di alcune persone citate.

Nel primo periodo della guerra Gadda prestò servizio a Ponte di Legno (Pons Daligni nelle sue annotazioni) dove svolse attività di esercitazione e di formazione delle nuove reclute. Poi nell’agosto del ’16 fu mandato, dietro sua esplicita richiesta, al fronte; sull’altipiano di Asiago e in seguito comandato sull’Isonzo, dove dopo la sconfitta di Caporetto fu fatto prigioniero e internato prima nel campo di prigionia di Rastatt, nel Baden, e poi a Celle, vicino ad Hannover. Fu liberato all’inizio del 1919.

Quello che colpisce subito è la precisione, quasi maniacale, con la quale descrive ciò che gli sta attorno e ciò che gli accade, dalla prima pagina, con la nota sul luogo dove comprò il quaderno, alle ultime, dove elenca gli oggetti persi a causa della cattura: per esempio un sacco a pelo del governo e uno di sua proprietà. Le due anime di Gadda, quella tecnica e quella umanistica, si ritrovano in tutto il diario, ogni parola è soppesata e il linguaggio rigoroso, una ricerca di precisione costellata di numeri, e quando questo non basta aggiunge un disegno esplicativo: piantine, sezioni, oggetti, edifici vengono riprodotti con schizzi rapidi e precisi. Le descrizioni sono intercalate da considerazioni intimiste: “Questo mio diario va avanti come un asino frusto e digiuno; gli è che anche il mio spirito mi pare una barca scucita in un angolo di cattivo porto, dove la risacca sciaguatta ogni cosa.” (p. 81) Talvolta sorprende utilizzando un registro inaspettato: “Diario del Gaddus. Sempre in culo a Cecco Beppe” (p. 86).

Gadda, come molti altri volontari, aveva un’opinione negativa degli alti comandi: “In questi giorni ebbi nuove ire contro i generaloni, persone certo poco capaci. Raramente visitano il fronte, il fronte vero; e soprattutto non conoscono affatto la montagna.” (p. 32)
Se l’immagine della ritirata di Caporetto in genere denota uno sbandamento e una confusione generale, con i soldati che abbandonano tutto per potersi allontanare dal fronte il più in fretta possibile, il tentativo di ritirata di Gadda avviene in ordine, con una scrupolosità assoluta. 

Poco dopo egli tornò con un altro, recandomi l’ordine di ritirarmi dalla posizione, il più presto possibile. – Quest’ordine mi fulminò, mi stordì: ricordo che la mia mente fu come percossa da un’idea come una scena e riempita da un lampo: «Lasciare il Monte Nero!»; questa mitica rupe, costata tanto, e presso di lei il Wrata, il Vrsic<;> lasciare, ritirarsi; dopo due anni di sangue. Attraversai un momento di stupore demenziale, di accoramento che m’annientò. Ma Sassella incalzava: «Signor tenente bisogna far presto, ha detto il tenente Cola di far presto», e incitò poi per conto suo gli altri soldati. Mi riscossi: credo non esser stato dissimile dai cadaveri che la notte sola copriva. Diedi l’ordine a Remondino, il vecchio alpino piemontese (cl. 90 o 91) che rimase pure percosso, addolorato «Ma qui c’è qualche tradimento» esclamò, «ma non è possibile.» Poi andai nell’altra caverna e pure là diedi l’ordine. –
Meticoloso come sono, volli curare che tutto fosse raccolto e portato via: e in ciò persi del tempo: la caverna era stretta e buia, il materiale (fucili, invogli, cassette coi pezzi di ricambio) la ingombrava: i fucili, i cappotti, le maschere, gli elmetti, tascapane, giberne, borraccia ingombrano estremamente il nostro soldato(Dipingere)<;> i fucili col mirino si attaccano alle sporgenze rocciose: nella fretta poi nasce sempre un po’ di confusione. Ero attonito: i soldati erano pure costernati. Come potei raccolsi tutta la sezione, e a uno a uno li feci partire: Sassella chiamava. – Io mi misi in coda col cuore spezzato, con la mente fulminata dall’orribile pensiero della ritirata, e andammo. Cola m’attendeva impaziente: la 3.a Sezione era già radunata: essa era però all’aperto e il ritirar le armi le costò meno lavoro che noi al buio, nella stretta e dolorosa caverna. Cola m’accolse irritato: «fai schifo» mi disse «scusa se te lo dico ma fai veramente schifo… Gandola è già pronto da un pezzo.» Gli risposi a mia volta e lo feci tacere «Ma fammi il favore», come un ebete può rispondere a un pazzo: tacque. Io non potei percepire che per un solo istante l’ira di queste parole: più tardi me ne risentii: più tardi ancora l’ho perdonato, attribuendole alla crisi del temperamento nervoso, subita in quei tragici momenti. […] Noi eravamo ordinatissimi e non ostante i nostri soldati recassero a spalle le pesante mitragliatrici, sorpassavamo gli altri. (pp. 292-293)

Dopo vari tentativi di attraversare l’Isonzo gli uomini al comando di Gadda finiscono fra le maglie dell’esercito nemico e sono costretti ad arrendersi; questo è l’amaro finale del Memoriale sulla Battaglia dell’Isonzo scritto durante la prigionia: “Finiva così la nostra vita di soldati e di bravi soldati, finivano i sogni più belli, le speranze più generose dell’adolescenza: con la visione della patria straziata, con la nostra vergogna di vinti…” (p. 308).

Nota. Ho usato l’edizione Carlo Emilio Gadda, Giornale di guerra e di prigionia [con il «Diario di Caporetto»], Garzanti, Milano 2002 (444 p.). (d.z.)

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