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Avvisi per i posteri. Dalla Prima guerra mondiale. 17

12/09/2014

di Marco Toscano

Nuovo appuntamento con le letture del nostro amico Marco Toscano intorno alla prima guerra mondiale, e alla guerra in generale.

Cari di storiAmestre,

la scheda di Davide Zotto sul Diario di un imboscato di Attilio Frescura mi ha fatto riprendere in mano il libro di Aldo Palazzeschi che racconta la vita militare nelle retrovie. Si capisce perché Due imperi… mancati sia stato rifiutato nel 1920 dalle Edizioni della Voce a cui Palazzeschi l’aveva presentato: gli appelli che si trovano nelle ultime pagine del libro (“Via tutte le barriere!”, “Via tutte le armi!”, p. 183), erano in contrasto con l’entusiasmo con cui quella rivista aveva invocato la guerra. Palazzeschi aveva preso le distanze da quel mondo intellettuale ancora alla fine del 1914, quando aveva pubblicato un articolo per ribadire la neutralità dell’Italia. Poi era arrivata la guerra, e Palazzeschi, già riformato, era stato arruolato nell’agosto 1916, rimanendo fino alla fine (fu smobilitato solo nel settembre 1919) “uomo di fureria e di magazzino”, come si definisce nel romanzo (p. 86).

Il libro – che mette assieme elementi autobiografici, realistici e visionari – parte dalla premessa che la pace appena raggiunta non portava a niente di buono se non si cambiava il modo di raccontare la guerra. “Seguitate a predicare guerra su guerra, a fabbricare armi su armi, fate crescere in questa atmosfera le nuove generazioni e in meno di cinquant’anni voi avrete fatto del mondo una caserma” (p. 35). Nessuna concessione quindi al nazionalismo: “Non c’è buco sopra la terra che non sia il mio paese, io posso avere se mai una speciale tenerezza per la poca terra che circondò la mia culla, ma che questo non diventi una mania, che non appanni per un istante solo la lucentezza della mia anima universale” (p. 30).

“I giorni della mobilitazione erano orrendi”, scrive Palazzeschi (p. 89). Le colpe erano di tutti gli Stati. “Questi signori sono tutti ugualmente colpevoli, non ci sono dei lupi e degli agnelli come ci avrebbero voluto far credere, essi ci hanno saputo molto bene dimostrare di essere solamente dei lupi tutti” (p. 21). Il ricordo di quegli eventi gli causava “angoscia” (p. 28). Non solo chi comandava, ma tutti erano entusiasti della guerra, compresi “tutti i luminari delle scienze, delle arti, della politica e delle industrie”. Il socialismo, che avrebbe potuto operare “il miracolo”, era naufragato; e anche il papa era “uscito malconcio”. Eppure la chiesa cattolica avrebbe potuto fare molto, per esempio “uscire dal Vaticano colla croce nelle mani, colla tiara e il piviale, andare alle regge, sui campi di battaglia, sulle piazze, per le strade”; e in caso d’insuccesso: “Si scomunicano i combattenti, si maledicono gli eserciti, si vietano i cappellani, si fa tutto quello che è ancora possibile di fare al proprio posto, si fa sentire l’appoggio di questo grande potere morale, tutto quello che ancora possa valere anche se inutile, ci si fa ammazzare, come Cristo, se necessario, se la cristianità cade ignominiosamente, si salva lo spirito di essa del quale il Papa deve essere il geloso tesoriere” (pp. 27-28). E invece no: tutti, “ad ogni costo”, volevano la guerra. “Non c’era più ragione che valesse, la follia aveva preso la mano” (p. 31).

Romanzo delle retrovie, si è detto: prima a Firenze, città dell’autore (la “città meno militare di questa terra”, p. 96), e poi a Roma, “la grande fucina della guerra, il cuore del mostro” (“e parevi leggere sulle facce di tutti: la guerra è bella, basta non la fare”, p. 110). I soldati incontrati dall’autore nelle caserme e negli ospedali hanno paura di essere mandati al fronte. Uno gli raccontò di essere stato disertore, in prigione, e di essersi fatto un’iniezione di petrolio in una gamba per essere riformato: e poi “si dette a narrare cose della vita di guerra, della linea del fuoco, che io ricordo insieme, braccia gambe crani occhi saltati, brandelli di carne che venivano lasciati o raccattati, membra umane che si rimescolavano senza armonia senza coesione più, senza vita, il ricordo del sogno orrendo di una notte di delirio febbrile” (p. 42). All’ospedale del Maglio di Firenze i soldati speravano di trarre dalle malattie un periodo di licenza o addirittura la riforma. In quegli ambienti, “i veri malati soffrono vicino a malati falsi che soffrono più di essi e che sono anche più compassionevoli” (p. 93). E tutto questo in un mondo in cui il soldato non riusciva mai ad avere “una risposta, non dico garbata, ma umana”, ma solo urla, offese e disinteresse, tra privilegi, raccomandazioni e “qualche pezzo di carta sperduto sopra i tavoli degli uffici” (pp. 81, 83). Anche dopo Caporetto i comandi militari continuavano a essere interessati alla tenuta in ordine della divisa e al saluto dei subalterni secondo l’etichetta. Risultato: “arrangiarsi”. “Ecco la grande parola d’ordine della vita militare ‘arrangiatevi!’; cioè dormite o vegliate, mangiate o digiunate, rubate, rosicchiatevi l’anima gli uni cogli altri, crepate se non ne potete più, ma non seccate i furieri o i comandanti che sono i vostri capi di famiglia” (p. 82).

Il capitolo da cui ho scelto alcuni brani mette assieme più temi: una netta presa di distanza, spesso sarcastica, dalla tradizione letteraria italiana incarnata da D’Annunzio; il fastidio per la retorica militarista per le celebrazioni di fine guerra; l’invito agli italiani ad abbandonare le pose belliciste e a riconoscersi positivamente nello stereotipo di un popolo di “mandolinisti”. Prima di lasciarvi alla lettura, aggiungo solo che Aldo Palazzeschi (1885-1974) tra le due guerre visse a Firenze, con qualche soggiorno a Parigi. Nel 1941 si trasferì a Roma; dal 1951 alla morte, quasi novantenne, visse tra Roma e Venezia.

Nel ringraziarvi per l’ospitalità, vi saluta il vostro

Marco Toscano

Il mandolino è mille volte superiore al cannone, di Aldo Palazzeschi

Tutto quello che c’è di deleterio in Italia è del d’Annunzio. Raccoglie egli la fiaccola lasciata a terra da quella vecchia chitarra del Carducci, che a sua volta la raccoglie da quell’altro trombone sfiancato dell’Alfieri. È un posto che non può rimanere vacante, a costo di prostituire il meglio di sé e far galleggiare il sudiciume, la tentazione è grande, uno ci anderà.

[…]

Gabriele D’Annunzio apre e chiude la malaugurata stagione della guerra. La guerra d’Italia come fu fatta senz’altro non è che una spacconata d’Annunziana senza senso, senza abilità senza profitto.

E ve l’ha guarnita per tutti i suoi giorni, infiorata, incoccardata, di inni, odi e canzoni, orazioni, invocazioni, imprecazioni, inaugurazioni, commemorazioni e avventure d’ogni specie; sulla terra e per l’aria sotto e sopra l’acqua, come si fosse trattato di una grande partita ginnastica, un torneo nel quale tutta la gioia dei muscoli e dei polmoni dovesse avere a pieno il loro sfogo.

Senza neppur domandarsi che razza di guerra fosse mai quella che si doveva combattere, senza curarsi come fossero gli uomini ai quali veniva imposta, nulla. Colla testa alta, e avanti! Vedono ancora, tali uomini, i popoli come le plebi di migliaia di anni fa, e vivono nell’ebbrezza di risuscitare Leonidi, e guerre puniche, centauri, aquile romane, ali di vittorie, rottami di grandezze estinte, come se i secoli, se i millenni non fossero passati su questa umanità.

Quelli di essi che si credono all’avanguardia si spingono a cantare la gigantesca bellezza del cannone o la genialità bizzarra della mitragliatrice, gonfi di ebbrezza per la strada compiuta dal vecchio randello di Caino.

Raspategli bene addosso, e sapete che ci troverete in fondo? Un ufficiale di cavalleria.

Creature viventi fuori della realtà e della vita, creatori del vuoto. […] La realtà non esiste e non li tocca, sono fuori di essa.

E cantano, cantano. […]

Vi siete avuti a male perché vi hanno detto mandolinisti.

Il mandolino non è certamente il più superbo degli strumenti musicali e chi lo suona fa un po’ l’effetto di uno che si gratta la pancia, ma è mille volte superiore al cannone, senza confronto. Siate mandolinisti, non rinnegate il vostro strumento e sarete più grandi del re di Prussia.

[…] Popolo pieno del buon senso vero della vita, di naturale equilibrio e di logica, al quale neppure governo, poco governo, sa governarsi bene da sé, una buona sana educazione piuttosto. Poco mangione, un buon bicchiere di vino e un mezzo sigaro; una vestitina leggera e leggiadra, tante belle giornate, un po’ d’amore semplice e sano e musica, musica in quantità, quella senza economia, organi, organini, mandolini, violini, chitarrini, pianoforti, naccere e caccavèlle, tromboni campane e campanelli.

[…] E se quando avrete trovato questo giusto equilibrio della vita, avrete creato questa felicità atmosferica, molti e da molte parti verranno per goderne un po’, accoglieteli con garbatezza e dignità, senza falso orgoglio e senza servilismo, finiranno per imparare molto da voi e molto invidiarvi.

Nota. Aldo Palazzeschi, Due imperi… mancati, a cura di Marino Biondi, Mondadori, Milano 2000, pp. 165-174. La prima edizione uscì presso Vallecchi, Firenze 1920. (m.t.)

Le puntate precedenti:

16. Romain Rolland, Opinioni di Albert Einstein sulla guerra in corso

15. Simone Weil, La società attuale è un’immensa macchina di cui nessuno conosce i comandi

14. Andreas Latzko, Malato io? 

13. Józef Wittlin, I misteri della subordinazione militare

12. Elias Canetti, Inni nazionali e facce stravolte dall’odio

11. Karl Kraus, Davanti a una bottega di barbiere

10. Jaroslav Hašek, Quale Ferdinando, signora Müller?

9. Virginia Woolf, Togliere dai cuori degli uomini l’amore delle medaglie e delle decorazioni

8. La rivolta della Catanzaro, da Plotone di esecuzione 

7. Emilio Lussu, Un episodio di decimazione 

6. Corina Corradi, La scena si faceva sempre più spaventosa

5. Helena M. Swanwick, Il senso dell’onore è causa di guerre 

4. Romain Rolland, Ciascuno ha il suo Dio e combatte quello degli altri

3. Guglielmo Ferrero, Cesarismo, burocrazia, esercito

2. Bertha von Suttner, La storia insegna l’ammirazione per la guerra

1. Kurt Tucholsky, Una lettera ai posteri

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