a cura di Piero Brunello
Giulio Bresin è di Pordenone e lavora come agente per un’azienda che produce accessori di qualità per mobili: come ci spiega lui, è “il made in Italy che ancora tira e ancora si vende”. Da qualche anno si occupa del mercato orientale: Russia, dal 2005, e dalla fine del 2012 anche Ucraina. I legami economici con quei paesi, cominciati negli anni Novanta, si sono intensificati e sviluppati molto negli ultimi dieci anni. I suoi viaggi sono stati molto frequenti, fino al luglio scorso. Gli abbiamo chiesto di raccontarci la sua esperienza e di riferirci le cose viste e sentite, le impressioni che ha ricavato negli ultimi viaggi, compiuti quando la crisi in Ucraina era già in corso. Il risultato è questa intervista, scritta via mail, cominciata il 7 agosto e conclusa il 1° settembre.
D. Quando hai cominciato a frequentare la Russia e l’Ucraina?
R. Sono stato per la prima volta in Russia nel 2000, come studente universitario di lingue. Trascorsi un mese a San Pietroburgo presso una famiglia di russi. Sono tornato a San Pietroburgo per studio altre due volte, nel 2001 e nel 2002, sempre vivendo presso la stessa famiglia. Dal 2005 viaggio in Russia ogni mese per lavoro. Da San Pietroburgo alla Siberia centrale e al Caucaso ho girato molto per tutto il territorio.
Sono stato in Ucraina per la prima volta nel dicembre del 2012, in occasione di un viaggio di lavoro a Odessa. Sempre per lavoro, nel 2013 ci sono stato sette o otto volte, girando tutto il paese da ovest a est, inclusa la penisola di Crimea a sud; nel 2014 altre due volte, una settimana a Kiev a fine maggio, e qualche giorno a Odessa a metà luglio.
D. Hai detto lavoro: che tipo di lavoro?
R. Lavoro da circa dieci anni presso un’azienda dell’area di Pordenone che produce accessori per mobili di fascia medio-alta. L’Italia è il secondo esportatore di mobili in Russia dopo la Cina. I produttori italiani operano soprattutto nella fascia alta e altissima, dove l’incidenza dei dazi doganali influisce relativamente poco sul prezzo finale di acquisto. Considera che circa cinque o sei anni fa la Russia ha alzato in maniera molto significativa i dazi su mobili finiti e accessori di importazione, in particolare sui primi. È stata sostanzialmente una misura protezionistica per favorire lo sviluppo del mercato interno russo. Come diretta conseguenza, molti produttori italiani di mobili operanti nel segmento medio hanno perso importanti quote di mercato a favore dei produttori locali e delle aziende asiatiche. Ma sulla fascia alta la questione è diversa.
Tieni presente anche che i rapporti commerciali tra Russia e Italia sono sempre stati molto buoni in vari settori come quello energetico, metalmeccanico, l’abbigliamento, l’arredamento e fino a pochi giorni fa anche quello alimentare. L’Italia è il quarto partner commerciale di Mosca, il secondo all’interno dell’Unione europea. Nel novembre del 2013, nel corso del summit italo-russo tenutosi a Trieste, sono stati siglati 28 accordi atti a favorire ulteriormente lo sviluppo dei rapporti commerciali tra i due paesi. Nessuno avrebbe potuto prevedere gli sviluppi degli ultimi giorni…
D. Ti ricordi il tuo primo viaggio per lavoro in Russia?
R. Sì, feci il primo in viaggio in Russia per lavoro nel novembre del 2005. Andammo a Mosca per visitare la fiera Mebel’, l’evento più importante di tutto il settore del mobile in Russia, anche se non ha niente a che vedere con manifestazioni imponenti del calibro di Milano o Colonia.
Ci sono tornato regolarmente. Nel corso degli ultimi nove anni credo di aver trascorso mediamente una settimana al mese a Mosca, o in qualche altra città compresa tra San Pietroburgo e la Siberia centrale e il Caucaso a sud. Questo mi ha dato modo di conoscere meglio il mercato russo, la mentalità diffusa e il modo di operare, almeno per quanto riguarda il mio settore.
D. Dunque questi viaggi sono una vera abitudine…
R. Incontro i miei clienti molto spesso. Mediamente viaggio due settimane al mese, la metà esatta del mio tempo lavorativo. Definirei quasi obbligatorio questo tipo di approccio per tutte le imprese che si confrontano con l’export. L’azienda per cui lavoro ha questa filosofia: “vogliamo che il venditore sia sempre presente dal cliente, fosse anche per bere un caffè”. In altre parole, il prodotto va accompagnato da una costante assistenza e le relazioni tra venditore e cliente sono fondamentali. Un ragazzo italiano di buona presenza che parla un ottimo russo colpisce immediatamente l’interlocutore, che compra così non solo un oggetto ben fatto e ben disegnato, ma, a suo modo di vedere, anche un elemento, un tratto di uno stile di vita a cui lui aspira o che comunque apprezza incondizionatamente. Io gli vendo un articolo stampato in lega di zinco, prodotto fisicamente da stampi attivi nel bresciano, il mio cliente compra anche Celentano, le temperature miti, la mozzarella di bufala, la campagna toscana o il campanile di piazza San Marco. Spesso si instaura un rapporto di simpatia o addirittura di amicizia che ovviamente si rivela sempre molto utile all’interno di una relazione commerciale. Quando il rapporto personale tra le due parti è buono e sincero, qualsiasi tipo di problematica o difficoltà può essere facilmente risolta.
Considera anche che si tratta di un mercato ancora giovane, più aperto a novità e innovazioni di quelli occidentali, proprio perché si tratta di realtà industriali recenti e ancora non sviluppate come quelle dei produttori europei. È più facile proporre accessori nuovi, anche quando questi comportano la necessità di ripensare progetti, modi di fabbricazione, linee di produzione: sono questioni che in Russia sono facilmente superabili visto che buona parte delle strutture sono di tipo semi-artigianale, i macchinari relativamente semplici e c’è tanto lavoro manuale, quest’ultimo molto più economico che in Europa. Inoltre, buona parte dei miei interlocutori russi ha un’esperienza abbastanza limitata, difficilmente ho trovato qualcuno che operi nel settore o nella stessa azienda da più di dieci anni. Sono quindi più sensibili alla novità, all’esclusività e alla diversità.
Resta comunque fondamentale il servizio che il venditore riesce a offrire al cliente. La logistica, il trasporto, lo sdoganamento della merce sono passaggi che devono essere seguiti da figure professionali esperte e qualificate, preferibilmente che conoscano lingue e mentalità diverse dalla propria. Una cosa è spedire merce all’interno dell’Unione europea, altra cosa è spedirla al di fuori.
D. In tanti anni si fanno amici? Succede per esempio di andare a pranzo o a cena con i clienti? O ci si incontra solo nelle fiere o situazioni simili?
R. Dipende sia dalle singole persone che dai paesi, mentalità, usi e costumi. In nove anni di viaggi in Scandinavia credo di avere cenato insieme a clienti un paio di volte. Ci sono motivazioni di natura pratica, tipo l’orario di lavoro che nella stragrande maggioranza dei casi termina alle quattro del pomeriggio, rendendo così poco naturale un invito a cena dopo una giornata lavorativa. Ma sicuramente c’è anche una componente di riservatezza, un cortese distacco, che regolamenta i rapporti sociali di quei paesi. Sono per natura una persona socievole e affabile, ma dopo quasi un decennio di trasferte nei paesi del nord non posso dire di avere stretto alcun rapporto di amicizia con i clienti che visito regolarmente. Simpatia reciproca, rispetto, cortesia, collaborazione, ma non rapporti che intacchino seppur minimamente la superficie della formalità.
Situazione completamente diversa nell’Europa dell’est invece. In Ucraina, Russia e Kazakistan (relativamente alle mie esperienze) il senso di ospitalità è molto forte. L’invito a pranzo o a cena è la norma cui non è dato sottrarsi. Pena arrecare un’offesa pressoché indelebile presso il cliente di turno.
Molto spesso, per motivi di ordine economico e pratico, i professionisti si spostano secondo la formula del mordi e fuggi. Si arriva in un dato posto, ci si incontra con il cliente di turno, si riparte. Il cliente di turno è consapevole che tu a Cheboksary (Repubblica Chuvaka, circa 650 km a est di Mosca) non ritornerai tanto facilmente dopo aver tenuto un seminario o dopo aver fatto una visita presso il produttore locale di soggiorni; la sua missione personale è quella di farti non solo conoscere ma soprattutto farti apprezzare le bellezze e le particolarità della sua città, anche se magari il tutto si riduce alle rive erbose del Volga e poco altro. C’è sempre questa situazione in cui l’ospite ti ricopre di attenzioni, di cibo e di iniziative, il tutto partendo dal presupposto che siccome queste cose piacciono a lui, per forza dovranno piacere anche a te.
D. Quando hai cominciato a frequentare l’Ucraina?
R. Sono stato in Ucraina per la prima volta nel dicembre del 2012. In occasione di una fiera del nostro settore a Pordenone, tenutasi nell’ottobre dello stesso anno, avevo conosciuto il titolare e i rappresentanti di un’azienda grossista di Odessa. Nel corso della loro visita presso il nostro stand in fiera avevo presentato loro la nostra azienda e la nostra gamma di articoli che aveva favorevolmente impressionato gli ucraini. Successivamente ci eravamo scritti e sentiti per telefono per organizzare una visita da loro a Odessa.
D. E com’è andata questa prima volta? Parlavi in russo? E i tuoi clienti?
È andata bene. Io mi aspettavo la tipica città che si può trovare nella provincia russa, un insieme di stradoni che si incrociano al centro dei quali c’è una piazza con la statua di Lenin. In realtà mi sono trovato in un posto ricco di arte e di storia, in cui si mescolano diverse culture quali quella russa, turca, ebrea, europea e ucraina. A Odessa convivono pacificamente tutti i principali culti religiosi.
Anche dal punto di vista professionale è andato tutto bene. Si è instaurato subito un bel rapporto con il cliente che di lì a poco ha fatto un ordine importante. Tutt’ora la relazione si può considerare molto buona, per quanto lo consenta la situazione di mercato di un paese in guerra.
Io parlavo in russo, così come i miei clienti. Relativamente alla mia esperienza, fino a pochi mesi fa la lingua parlata prevalentemente in tutta l’Ucraina era il russo, fatta eccezione per le regioni occidentali al confine con la Polonia, dove si parla appunto l’ucraino. Nel corso dei due viaggi fatti a Odessa nessuno mi si è mai rivolto in ucraino, nemmeno le guardie di frontiera al momento del controllo del passaporto.
D. Quando hai cominciato a sentire tensioni in Ucraina tra filo-occidentali e filo-russi? Ricordi qualche episodio che ti ha colpito?
R. A dicembre dello scorso anno feci due viaggi consecutivi in Ucraina. Uno nella ragione orientale del Donbas (attualmente teatro di guerra) e in Crimea, l’altro la settimana successiva nella parte occidentale, nell’area al confine con la Polonia.
Mi ricordo che visitammo un’azienda di Simferopol, nel sud della Crimea, non distante da Sebastopoli, dove c’è un porto di importanza strategica per la flotta russa, visto che le garantisce lo sbocco sul Mar Nero. A seguito del referendum tenutosi nel marzo di quest’anno, la Crimea è stata annessa alla Russia. Al tempo del mio viaggio si chiamava Repubblica Autonoma di Crimea, giuridicamente parte dell’Ucraina pur avendo il proprio parlamento e godendo di una certa indipendenza da Kiev.
Nel corso di quel viaggio ebbi a che fare con diverse decine di persone e tenni almeno tre seminari, il tutto in lingua russa. Si iniziava a parlare del movimento di Maidan, che vuol dire piazza, e appunto la piazza principale di Kiev era già stata occupata da manifestanti pro-Unione europea. (A questi poi si sono aggiunti attivisti le cui idee erano diametralmente opposte rispetto a quelle dei dimostranti che contestavano la scelta dell’allora presidente in carica Yanukovich di aver abbandonato il tavolo delle trattative con la UE per rimanere sotto la sfera d’influenza di Mosca.) In alcune zone dell’Ucraina occidentale c’erano stati scioperi e altre manifestazioni relativamente pacifiche. Il titolare dell’azienda di Simferopol, di etnia russa, mi aveva confidato la sua speranza che l’Ucraina sarebbe entrata a far parte dell’Unione europea, così sicuramente sarebbe migliorata la situazione relativa alla corruzione, così come gli standard di vita. A pranzo aveva bevuto abbastanza – nel caso in cui i poliziotti lo avessero fermato avrebbe risolto la situazione con qualche banconota appoggiata sul tesserino della patente di guida…
Avevo percepito, pur rimanendo molto distante sia da Kiev che dalle regioni occidentali, un’aria diversa, carica di indefinite speranze e aspettative per un futuro migliore. Bisogna anche precisare che questo tipo di situazione stava già iniziando a influire sui consumi: la fase di incertezza suggeriva a molti di attendere lo svolgersi degli eventi prima di fare acquisti importanti.
La settimana successiva ero stato a L’vov, Chernovtsy e Ivano-Frankovsk, città non distanti dal confine polacco. Per la prima volta nel corso di un anno intero di viaggi e spostamenti in Ucraina avevo finalmente sentito parlare l’ucraino. A L’vov la gente si esprimeva esclusivamente nella lingua ufficiale, rispondeva alle mie domande in russo malvolentieri. Ricordo che a Chernovtsy tenni un seminario con altri professionisti del mio settore e in quel caso alcuni parlavano in ucraino, altri in russo in un contesto perfettamente bilingue dove a domanda formulata in russo la risposta veniva data in ucraino e viceversa, senza alcun problema.
In occasione di quel viaggio notai che moltissime automobili esibivano una bandiera ucraina, in alcuni casi insieme a quella dell’Unione europea. A Ivano-Frankovsk più di qualcuno si rifiutò di parlarmi in russo, preferendo esprimersi in un inglese stentato.
Al di là di questi episodi, non percepii alcuna tensione tra le diverse etnie allora.
D. Puoi spiegare meglio questa frase, a proposito dei primi manifestanti in “piazza Maidan” pro Ue “ai quali in seguito si sono aggiunti attivisti le cui idee erano diametralmente opposte rispetto a quelle dei dimostranti”?
Certamente. Le proteste nate sotto il nome, anzi l’hashtag, Euromaidan erano incominciate nel novembre del 2013, nel momento in cui il presidente eletto Yanukovich aveva abbandonato il tavolo delle trattative con la Commissione europea per discutere il decreto di associazione con la UE. Alcuni commentatori ritengono che Yanukovich non avesse alcuna intenzione di siglare l’accordo ma avesse partecipato al meeting solo per poter successivamente “alzare il prezzo” della trattativa con il Cremlino, in particolare per quanto riguardava un prestito da 15 miliardi di dollari e l’abbassamento delle tariffe del gas, che Kiev importa da Mosca per i 2/3 del proprio fabbisogno. Il 21 novembre 2013 il leader del partito di opposizione Patria, Arsenij Yatsenjuk, invita via Twitter i suoi concittadini a radunarsi in piazza Indipendenza, in ucraino maidan Nezalezhnosti, universalmente semplificato in Maidan.
I protestanti, tra cui figurano molti studenti, chiedono che il processo di avvicinamento all’Europa vada avanti. Seguono manifestazioni a cui la polizia reagisce anche duramente. Io mi ero trovato appunto in Ucraina nelle prima due settimane di dicembre. Il cliente di Simferopoli ci aveva detto di aver avuto problemi con l’approvvigionamento del materiale perché il suo fornitore di pannellame di L’vov (Ucraina occidentale a 30 km dalla Polonia) era rimasto chiuso per lo sciopero dei dipendenti, che solidarizzavano con quanto accadeva a Kiev in quei giorni. Molti studenti e padri di famiglia partivano da quelle regioni, storicamente ostili a Yanukovich e al suo partito, per partecipare alle proteste di Maidan.
Successivamente sono però entrati in scena personaggi legati alle formazioni neonaziste di Pravij Sektor (Settore Destro) e UNA-UNSO (acronimi per Assemblea Nazionale Ucraina e Autodifesa del popolo Ucraino) che hanno assunto la guida militare delle proteste di Maidan. Si tratta di formazioni in cui sono confluiti neo-fascisti, ultras tifosi di squadre di calcio e in alcuni casi (neanche troppo isolati) personaggi che hanno alle spalle anni di esperienza in conflitti militari di una certa complessità. Emblematica in questo senso la figura di Oleksandr Muzychko, in arte Sashko Bilyi, coordinatore di Pravyj Sektor nell’Ucraina occidentale, mercenario in Cecenia negli anni Novanta contro i russi, al pari dello stesso segretario del partito, Dmitrij Yarosh. Muzychko/Bilyi è morto in circostanze poco chiare (la versione ufficiale vuole che si sia sparato ben due colpi al cuore pur avendo le manette ai polsi) dopo essere stato arrestato dalla polizia ucraina alla fine di marzo di quest’anno a Rivne, in Ucraina occidentale. Aveva da poco minacciato apertamente di morte (“vado a Kiev e lo appendo come un cane”) il neo-ministro degli interni Avakov, del partito di Yulia Timoshenko Bat’kivshchyna, fino a poco prima suo alleato in piazza. Quella di Musychko/Bilyi è una figura veramente inquietante (su youtube ci sono diversi filmati in cui il mercenario minaccia apertamente con mitra, pistole e coltelli gli esponenti politici locali dopo la fase caotica succedutasi alla caduta di Yanukovich) che ha ricevuto onorificenze dai leader ceceni per essersi distinto nella guerra contro i russi avendo ucciso e torturato decine di soldati.
Bene, queste formazioni che hanno preso la guida logistica e organizzativa di Maidan non erano assolutamente favorevoli all’associazione con l’Unione europea, anzi. Il loro obiettivo politico è quello di avere uno Stato ucraino indipendente a maggioranza etnica ucraina.
D. A dicembre hai notato la separazione, linguistica e politica, tra le due comunità, per semplificare tra filo-occidentali e filo-russi. Da allora che cosa è successo? E che conseguenze ci sono state per il tuo lavoro?
R. La protesta di Maidan ha preso corpo, attirando diverse persone dalle regioni centro-occidentali. C’è stato un periodo di pausa durante le festività natalizie. Poi a gennaio il parlamento ha varato una legge speciale “anti-proteste” che ha fatto nuovamente scendere in piazza migliaia di persone. Il 18 febbraio c’è stata una sparatoria che ha causato la morte di 26 persone (secondo i dati forniti dal Ministero della Salute, a fine marzo il computo totale delle vittime relative ai moti di Kiev sarà di poco superiore alle 100 persone). La dinamica della sparatoria è ancora tutta da chiarire. La versione ufficiale addossa tutte le responsabilità ai tiratori delle forze speciali Berkut, vicine all’ex presidente Yanukovich. Esistono altre ricostruzioni secondo le quali in piazza in quei giorni c’erano cecchini stranieri (principalmente polacchi, georgiani, scandinavi addestrati nei campi Nato) che avrebbero sparato sia sulla folla che sulle forze dell’ordine, un atto deliberatamente organizzato per far crescere la tensione, addossando le responsabilità della strage al presidente, che si è effettivamente dimesso pochi giorni dopo.
Esistono testimonianze e prove a sostegno di entrambe le versioni principali. Quella di Maidan è una delle azioni di guerra o guerriglia più video-documentate di sempre. C’è un eccesso di informazioni in questo senso. Esistono decine di ricostruzioni fatte sulla base di singoli filmati in cui un’inquadratura, un’angolazione, un elemento secondario come un casco, un indumento o un’arma, che vengono utilizzati per sostenere tesi particolarmente articolate e diametralmente opposte tra di loro. Mille tinte e mille sfumature che contrastano l’una con l’altra per poi confondersi impercettibilmente.
Un elemento esterno utile a comprendere parte dello scenario in cui si sviluppano le proteste di piazza Indipendenza, è fornito dalla telefonata intercorsa nel dicembre del 2013, quasi tre mesi prima della caduta di Yanukovich e soltanto tre settimane dopo le prime proteste di piazza, tra il portavoce del Dipartimento di Stato USA Victoria Nuland e l’ambasciatore americano a Kiev Geoffrey Pyatt. Tutti i giornali riportarono quel “Fuck the EU!” esploso da Nuland ma ne ignorarono colpevolmente il contesto. Nel corso della conversazione, poi confermata come autentica, Nuland sostanzialmente impone Arsenij Yatsenjuk (chiamato affettuosamente “Yats”) come futuro primo ministro del governo ucraino che succederà a quello allora in carica. Pyatt vorrebbe riservare un ruolo di rilievo all’interno del governo per l’ex pugile Vitalij Klitshko, ma si piega docilmente ai desideri dell’ex collaboratrice di Cheney. A fine febbraio “Yats” diviene primo ministro mentre “Klitsch” verrà eletto sindaco di Kiev a fine maggio.
Per le persone comuni questo scenario politico produce sostanzialmente insicurezza, nei confronti delle istituzioni e del proprio futuro in generale. La valuta locale, la grivnia, si è sensibilmente deprezzata rispetto a euro e dollaro (con picchi del 50%), provocando forti rincari in tutti i settori, a cominciare dalla benzina che ora costa quasi il 50% in più rispetto a otto mesi fa. Questa situazione di forte incertezza provoca immediatamente un blocco dei consumi. La gente non compra un’auto o una cucina nuova se non sa cosa aspettarsi di qui a un mese. Alcuni clienti si lamentavano del fatto che i negozi fossero vuoti, c’era un clima di attesa.
Il settore in cui opero ha subito una flessione generale di oltre il 30%. Avremmo dovuto esporre a una fiera a Kiev a metà marzo, ma all’ultimo momento gli organizzatori l’hanno spostata per motivi di sicurezza all’ultima settimana di maggio, e questo è stato il primo viaggio che ho fatto in Ucraina dal dicembre del 2013.
D. A fine maggio come hai visto la situazione a Kiev: sia politica sia relativa al tuo lavoro? I tuoi clienti volevano conoscere la tua opinione? Ti vedevano in qualche modo legato alla politica europea e americana? Hai visto amicizie o rapporti personali rompersi? E la guerra aveva acuito il nazionalismo? hai notato qualche esempio?
R. Sono atterrato a Kiev il giorno successivo l’elezione di Petro Poroshenko a presidente della repubblica. La gente comune aveva fiducia nella figura di Poroshenko in virtù dell’opinione che, essendo un oligarca miliardario non entrava in politica per rubare. In quei giorni si è intensificata l’escalation militare contro i separatisti di Novorossija, in particolare nell’area di Donetsk. Ufficialmente si parlava di operazione anti-terroristica. Elicotteri bombardavano zone abitate e da subito si sono registrate perdite tra i civili inermi.
Relativamente al mio lavoro devo dire di avere trovato una situazione inaspettatamente positiva. La fiera si è poi rivelata un successo di pubblico, il nostro stand è stato letteralmente preso d’assalto dai visitatori. Era tangibile il desiderio di normalità da parte degli operatori del settore, la necessità di concentrarsi su aspetti concreti, persino banali, pur di evadere dall’angosciosa sensazione che può causarti una guerra nei paraggi di casa tua.
Alcuni clienti cercavano di non parlare di politica (è una delle regole d’oro del business, specialmente se non ci sono relazioni particolarmente profonde o datate), altri mi esponevano le loro idee. Soltanto un tassista mi ha chiesto cosa pensassi della situazione ucraina, ma solamente dopo avere risposto a una sfilza di domande che gli avevo posto. Non posso dire di avere assistito alla rottura di amicizie, ma ho visto persone che si conoscevano e rispettavano da diversi anni discutere tra di loro in maniera molto animata. Alla fine la conversazione si era chiusa in maniera civile, ma solo per una questione di rispetto dei ruoli.
Uno degli aspetti che subito mi ha colpito una volta arrivato a Kiev, è stato il fatto che il funzionario doganale mi avesse posto alcune domande di rito in ucraino. Nel corso dei miei precedenti viaggi ero sempre stato approcciato in russo dal personale addetto ai servizi di controllo. Anche in centro a Kiev, dove non avevo mai sentito parlare in ucraino, mi è capitato di ascoltare la lingua ufficiale, ma solo qua e là.
Un altro aspetto significativo era la massiccia presenza di bandiere gialloblu, i colori nazionali. Tantissime automobili avevano una o più bandierine che sporgevano dai finestrini. Tutti i canali televisivi presentavano in un angolo dello schermo la bandiera nazionale, in molti casi con lo slogan (in ucraino ma anche in russo) “Un’unica patria”. Tutti segni esteriori inesistenti fino a pochi mesi prima. Ho notato anche l’insorgere di un forte sentimento anti-russo, in particolare nei confronti di Putin, da molti definito come “nuovo Hitler”. La cosa mi aveva molto colpito, tanto che avevo domandato se sei mesi prima i miei interlocutori pensassero esattamente le stesse cose. Con un certo stupore essi stessi avevano riconosciuto di non aver avuto alcun sentimento anti-russo prima del precipitare degli eventi e dell’inizio della guerra.
D. E adesso? Come vedi la situazione? Che cosa temi? Hai in programma nuovi viaggi? [Nota: la domanda è stata fatta il 20 agosto, la risposta è arrivata il 1° settembre]
R. Ho aspettato volutamente qualche giorno prima di rispondere, per vedere se era possibile per le parti in questione trovare un accordo politico. Purtroppo questo non è successo. Oggi, primo settembre, c’è stato un incontro tra i rappresentanti di Novorossija e Kiev a Minsk, in Bielorussia. Gli esponenti delle repubbliche di Lugansk e Donetsk richiedono in sostanza il riconoscimento da parte di Kiev di uno status particolare, che include anche l’integrazione con l’unione doganale di Mosca-Minsk-Astana. Dubito che questa richiesta verrà accolta da Kiev. Per Poroshenko significherebbe ammettere davanti al paese di avere perso la guerra, quella guerra che è costata un grandissimo spargimento di vite umane e di risorse economiche. Si parla di almeno duemila civili e alcune fonti quantificano in addirittura ventimila i soldati caduti. Soltanto per l’ultimo rifinanziamento dell’esercito sono stati stanziati circa 3 miliardi di dollari.
Io credo che la situazione sia estremamente pericolosa. Un aspetto molto preoccupante è rappresentato dalla totale mancanza di obiettività da parte dei media, quasi volessero preparare l’opinione pubblica al peggio. Evitando di fare analisi e considerazioni tecniche che lascio volentieri ai commentatori di mestiere, nel corso degli ultimi viaggi ho riscontrato una situazione economica molto difficile nel paese. Come ho già detto, la grivnia si è indebolita moltissimo rispetto all’euro e al dollaro provocando un forte aumento del costo della vita (soprattutto benzina, gas, elettricità). Perciò gli stipendi sono diventati più bassi, e c’è meno lavoro per tutti: alcune tra le aziende più grandi del paese hanno chiuso. È opportuno ricordare che le regioni attualmente devastate dal conflitto sono le aree che producevano una grossissima fetta del pil ucraino. Se per gli oligarchi coinvolti questo scenario può sicuramente fornire le condizioni per incredibili arricchimenti a costo zero una volta terminato il conflitto, per la gente comune questa situazione comporterà un lungo periodo di crisi e di instabilità. Al momento non ho viaggi in programma, come ho detto il mercato è calato di oltre il 30%, qualche cliente è stato bombardato o si è visto costretto a spostare magazzino e stock in aree attualmente più sicure. Soltanto otto mesi fa questo era uno scenario inimmaginabile.