di Davide Zotto
Come ci aveva annunciato qualche giorno fa, il nostro amico Davide Zotto ci manda la sua lettura del libro di Gilberto Forti, A Sarajevo il 28 giugno, pubblicato da Adelphi per la prima volta nel 1984 e da poco riedito.
All’inizio una foto: l’uniforme insanguinata che Francesco Ferdinando indossava il giorno dell’attentato, conservata al museo militare di Vienna, che mi fa venire in mente le camicie rosse garibaldine conservate nei musei del Risorgimento italiani.
Poi undici personaggi immaginari raccontano Francesco Ferdinando: la sua vita, il suo matrimonio, i contrasti con la famiglia, le passioni, le manie, le debolezze, l’attentato. L’arciduca descritto da diversi punti di vista, così come viene raccontato da diverse angolazioni l’attentato di Princip. Francesco Ferdinando, spietato cacciatore ed eccelso giardiniere, tratteggiato in dieci “storie in versi”; l’undicesima, raccontata da un fantomatico medico serbo, è dedicata a Gavrilo Princip: narra la sua prigionia dopo l’attentato, e la sua morte e si conclude con alcune domande espresse dal narratore: fu eroe o assassino? la guerra sarebbe scoppiata lo stesso?
La struttura e la tecnica narrativa usate da Forti sono le stesse che già aveva sperimentato nel suo precedente Piccolo almanacco di Radetsky, uscito nel 1983, di cui vi avevo già scritto in un commento a una lettura di Marco Toscano. Ogni capitolo/storia in versi liberi è corredato da note che esplicano le fonti da cui l’autore ha tratto le informazioni, in questo caso su Francesco Ferdinando e Princip. Gli undici personaggi immaginari si impossessano di questi documenti reali e ci restituiscono un quadro vivo e realistico della corte degli Asburgo e del clima creato dall’attentato.
Concludo riportando un esempio, tratto dal capitolo dedicato all’attentatore: L’itinerario di Gavrilo Princip. Ripercorso con Kosta Vasić, medico.
[…] Qui il ragazzo,
dopo aver fatto fuoco con la Browning,
fu assalito e percosso da ufficiali
del seguito, gendarmi e cittadini.
Poi, sottratto al linciaggio e trascinato
a forza nell’emporio, vi trascorse
pochi minuti, pressoché incosciente,
col viso sanguinante. Adesso, al posto
dell’emporio c’è un piccolo museo,
e laggiù c’è una lapide, murata
a gloria imperitura, che dichiara:
«È questo il luogo storico nel quale
Gavrilo Princip proclamava al mondo
la libertà. Era il 28 giugno
del ’14, il giorno di San Vito».
[…]
Eppure una volta si diceva
di lui che fosse un altro Miloš Obilić,
l’eroe della rivolta contro i turchi,
o un erede del principe guerriero
il nostro leggendario Marko Kraliević.
Il più grande dei serbi, si diceva…
Un pazzo criminale, altri dicevano.
[…]
Era un eroe o solo un assassino?
Io sono assai prudente nell’usare
parole come eroe, martire, santo,
e non credo alla gloria imperitura.
[…]
Eroe o assassino, egli conobbe
la miseria e la fame, egli sperò
appassionatamente di giovare
ai suoi fratelli oppressi e derelitti.
A me sembra innegabile che in lui
ci fosse una forte idealità,
anche rozza, anche ingenua, alimentata
dai canti popolari, dall’esempio
del Piemonte, dai libri di Mazzini.
Era un ragazzo, e forse sì, qualcuno
avrà usato di lui, ma lui credeva
nella causa per cui sparò e uccise.
Di lui si è detto che con l’attentato
aprì le porte alla carneficina.
Forse è vero, ma forse no. E poi
io non voglio discutere le origini
della guerra mondiale o ricordare
tutti gli errori, le omissioni, le frodi
che commisero gli uomini di Stato
tra il luglio e l’agosto del ’14.
Forse il ragazzo offrì l’esca, ma i grandi
della Terra, i sovrani, i presidenti,
i cancellieri, i generali, tanto
più esperti di lui e più avveduti
usarono quell’esca. Essi la usarono,
senza capire, senza immaginare
quale incendio sarebbe divampato.