di Luisa Accati e Renate Cogoy. Con uno scritto di Elisabetta D'Erme
Sulla scia delle discussioni relative al “giorno del ricordo”, la nostra amica Luisa Accati ci manda un breve resoconto, firmato con Renate Cogoy, sulla vicenda di un gruppo interdisciplinare costituitosi a Trieste nel corso degli anni 2000 per studiare i temi “perturbanti” (in senso freudiano) all’interno di un territorio segnato da nazionalismi e pluriappartenenze etniche e politiche. Nel 2007, questo gruppo è sollecitato da un editore tedesco a produrre un libro a più voci, che viene sviluppato intorno al tema delle foibe. Il resoconto parte da una constatazione: pubblicato in Germania e in Slovenia, dove ha ottenuto attenzione (recensioni, interviste agli autori), il libro è apparso in Italia nel 2010 senza ricevere alcuna accoglienza presso il grande pubblico; nemmeno Il Piccolo di Trieste ha ritenuto di pubblicare una recensione già pronta, e questa totale indifferenza è stata riconfermata fino a oggi. Il sito di storiAmestre accoglie questo resoconto insieme alla recensione inedita, contando di suscitare una discussione sull’uso (o non uso) pubblico della storia, nonché sui meccanismi e le ritualità delle commemorazioni pubbliche.
Ci viene in mente, in occasione della giornata del ricordo, che le scelte editoriali e redazionali possono farci intendere come, talvolta, l’uso politico della storia funzioni per inerzia.
La consulente di una casa editrice tedesca Gisela Engel (una storica modernista dell’Università Goethe di Francoforte) chiede alla psicoterapeuta Renate Cogoy che lavora a Trieste come libera professionista e alla storica modernista Luisa Accati che lavora presso la Facoltà di Lettere di Trieste di curare un libro a più voci per l’editore Trafo di Berlino. La richiesta nasce dal fatto che Gisela Engel è informata delle discussioni che da circa due anni si tengono a Trieste in un gruppo di ricercatori di diversa formazione professionale. Il gruppo era composto da due psicologi – oltre a Renate Cogoy, un analista Paolo Fonda (della minoranza slovena di Trieste) –, da tre storici – oltre a Luisa Accati, Giacomo Todeschini, medievista della Facoltà di Lettere di Trieste, e Marta Verginella. storica contemporanea dell’Università di Lubiana –, e da due filosofi – Igor Pribac, della Facoltà di studi umanistici di Lubiana, e Giovanni Leghissa dell’Università di Vienna e di Trieste. Il gruppo si è costituito con l’obiettivo di trovare un tema che potesse essere trattato dalle diverse angolazioni disciplinari. Spesso i singoli statuti disciplinari inchiodano gli episodi dentro a spiegazioni corrette, dal punto di vista della raccolta dei dati, ma del tutto insufficienti sul piano dell’interpretazione dei dati stessi. Chiaramente l’esigenza nasceva dalla particolare complessità della zona di confine italo-sloveno, un confine tormentato da nazionalismi incrociati, da pluriappartenenze etniche e politiche.
Dapprima si è pensato di trattare temi “perturbanti” nell’accezione freudiana del termine, cioè fatti dall’impatto psicologico forte, capace di rendere minacciose relazioni domestiche e familiari e su questa strada ci si è imbattuti, quasi necessariamente, nel tema delle foibe. Alla scelta del resto ha contribuito anche il desiderio di contrastare gli effetti del film Il cuore nel pozzo trasmesso dalla televisione italiana (per la prima volta nel 2005), pieno di mistificazioni.
Abbiamo tentato di leggere questo drammatico episodio guardando oltre ai nazionalismi e agli schieramenti politici, oltre il caso specifico e i fenomeni locali. Ne è uscito un libro che certamente si sforza (non sta a noi dire se con successo) di arricchire l’interpretazione di questo fatto storico, con lo scopo di contribuire a superare i danni morali e sociali che ha causato. Uscito dapprima in Germania (2007), un anno dopo in Slovenia, ha ottenuto recensioni e interviste degli autori e delle autrici, sia in Germania, sia in Slovenia. In Italia appare solo nel 2010, non senza qualche difficoltà. Una volta uscito le curatrici lo inviano al quotidiano Il Piccolo di Trieste. Dopo qualche tempo chiedono come mai il giornale che tratta sempre questi argomenti non abbia fatto nemmeno un accenno e la risposta è che “non se ne può più di trattare questi temi a Trieste. Bisogna cambiare”. Le curatrici obiettano che questo era appunto il tentativo proposto dal libro: trovare un modo di parlarne che aprisse strade nuove alla comprensione e anche all’elaborazione dei conflitti. La redazione assicura che se ne parlerà e commissiona una recensione a Elisabetta D’Erme che la scrive. La accludiamo qui di seguito, ma il Piccolo non l’ha mai pubblicata. Per quali motivi? Perché la specializzazione costruisce dei percorsi a cui gli studiosi si abituano e non hanno nessuna voglia di sforzarsi a pensare diversamente e sono dispostissimi a ripetere nei libri le stesse cose: un modo di rinunciare a gran parte del discorso critico per fornire ai lettori una lettura più semplice, nella convinzione erronea che le persone abbiano poca capacità di elaborare.
Luisa Accati e Renate Cogoy
[La recensione], di Elisabetta d’Erme
In ogni angolo del mondo culture e popoli diversi sviluppano riti per elaborare il lutto e per dare un senso al mistero metafisico della morte. Il rito più diffuso è quello della sepoltura. Per la consolazione dei vivi, a coloro che hanno perso la vita – in pace così come in guerra – deve essere data un’onorevole sepoltura, altrimenti l’anima del defunto vagherà senza pace in eterno. Per questo e altri complessi motivi, nel nostro immaginario le foibe sono diventate la rappresentazione di qualcosa di profondamente inquietante.
“Il pensiero che le persone abbiano trovato il loro ultimo giaciglio nelle cavità carsiche è potuto restare così persistentemente vivo e impressionante perché ogni loro commemorazione è una commemorazione a tomba aperta”, scrive Igor Pribac. E aggiunge: “Le vittime nelle cavità non sono sepolte, l’apertura della loro tomba comune che si spalanca al mondo viola il comandamento della separazione del mondo dei morti da quello dei vivi. […] La voragine aperta delle foibe minaccia incessantemente di risucchiare dentro tutto ciò che è vivo”.
Le foibe dunque come voragini aperte nel “cuore di tenebra” della storia, che ancora oggi mantengono una posizione ambigua nel composito paesaggio dei monumenti commemorativi, da quelli onnipresenti dei caduti della prima guerra mondiale a quelli eretti in memoria dei martiri della Resistenza. Le foibe sembrano non poter rientrare in queste categorie per la loro aberrante natura di ‘tombe aperte’ e non sono neanche lontanamente assimilabili a monumenti al milite ignoto, perché spesso le vittime – pur ‘ignote’ – non appartenevano a nessuna ‘milizia’. Esse non sono ancora “spazi della memoria” destinati all’elaborazione degli orrori e dei crimini commessi in passato, non sono ancora il condiviso “memento” di un “processo di lutto della nostra immagine di sé, che solo può salvaguardare in noi una genuina umanità”: restano dunque l’occasione mancata per la creazione di un luogo necessario per condividere tra gruppi e individui diversi “il dolore e la vergogna” per le colpe del passato (Paolo Fonda, Il perturbante straniero interno, pp. 135-149).
Il volume raccoglie i contributi (già pubblicati in Germania nel 2007 e in Slovenia nel 2009, ora tradotti in italiano) di un gruppo di storici, filosofi e psicoanalisti attorno al tema delle foibe. Gli storici Luisa Accati (Vittime e carnefici fra giustizia e impunità), Marta Verginella (Tra storia e memoria. Le foibe nella pratica di negoziazione del confine tra l’Italia e la Slovenia), Giacomo Todeschini (L’infamia di chi sta all’esterno e la sua genesi nell’Occidente cristiano), i filosofi Giovanni Leghissa (Il confine come metafora. Appunti sull’identità italiana in una prospettiva postcoloniale), Igor Pribac (Considerazioni, ricordi e immagini dalla Slovenia) e lo psicoanalista Paolo Fonda (Il perturbante straniero interno) rileggono questo spinoso capitolo di storia patria da prospettive diverse, nel tentativo di proporre un approccio interdisciplinare per analizzare in maniera più articolata le dinamiche della storia, dei meccanismi mentali che la producono e dei loro effetti nel tempo sia sui singoli individui sia – più in generale – nella collettività.
Per comprendere la natura del debito in sospeso con i fantasmi senza nome delle foibe, le curatrici sono ricorse al concetto psicoanalitico freudiano di unheimlich (perturbante). Come spiega Renate Cogoy (Il perturbante e le foibe: una introduzione), “unheimlich è l’antitesi di heimlich (confortevole, tranquillo, da Heim, casa), e di heimisch (patrio, natio). L’aggettivo tedesco heimisch indica qualcosa di ‘familiare, abituale’, mentre la parola heimlich ha un duplice significato; oltre a quello di ‘noto’ comprende anche l’accezione di ‘nascosto, segreto, misterioso’. Quindi, “in opposizione a quanto ci è noto, familiare, abituale, il perturbante è vissuto come qualcosa di minaccioso e sconcertante. […] Ogni affetto rimosso si trasforma in angoscia”.
Per Freud l’esempio più tipico del perturbante è da cercare nella nostra relazione con la morte, perché “l’idea della nostra stessa mortalità ci è fondamentalmente estranea”. Per gestire queste esperienze angoscianti la psiche mette in atto una serie di “meccanismi di difesa come la rimozione, il diniego, l’identificazione proiettiva o la razionalizzazione e i processi di scissione”.
“Il sottosuolo carsico è diventato per me uno dei principali modelli dell’inconscio”, scrive Igor Pribac, ed è la prospettiva psicoanalitica a rendere decisamente originale queste analisi, perché è solo grazie alla corretta comprensione del significato psicologico e simbolico del carattere occulto della foiba che se ne può comprendere la portata e le sue conseguenze sull’immaginario collettivo.
Particolarmente interessante è il testo, denso e appassionante, di Paolo Fonda, specie per l’analisi dei comportamenti individuali e collettivi di fronte a un pericolo che – da una cosiddetta posizione “depressiva” – regrediscono a quella “schizo-paranoide, più adeguata alla difesa, alla guerra o alla conquista per la sopravvivenza”. Fonda tenta di dare una risposta alla domanda: “Quanta parte delle immagini di sé, traumaticamente ferite durante la Seconda Guerra Mondiale, attendono ancora di essere elaborate?”, e, applicando il concetto di perturbante alla psicologia sociale, descrive due tipologie di contenuti perturbanti: a. il perturbante che si ricollega alla presenza dello “straniero interno”, cioè a elementi rimossi della propria identità etnico-nazionale; b. la perturbante scoperta di una immagine di sé, o del proprio gruppo-nazione, ben diversa da quella di cui si è pienamente consapevoli: “È l’immagine di sé deturpata dai crimini commessi durante la guerra, che era stata relegata in parti scisse del proprio sé”.
Da questa impasse non si esce con una “forma paranoide del lutto”, scaricando le colpe sui “cattivi” perché, come scrive Marguerite Duras in Il dolore (1985), la vittima del nazifascismo non si può ridurre al prodotto di un “conflitto locale”. La risposta per un tale crimine è “trasformarlo nel crimine di tutti. Condividerlo. Come si condivide l’idea di eguaglianza, di fraternità”.
Dal canto suo, la storica Marta Verginella – dopo aver ricostruito il terreno su cui si sviluppò l’intolleranza fascista verso i tratti più tradizionalmente cosmopoliti, multietnici e multilinguistici della città di Trieste e del suo hinterland – sottolinea come sia stata operata una censura sull’operato degli italiani durante il Ventennio, ovvero nei decenni in cui sloveni e croati dovettero soccombere a una sorta di pulizia etnica perpetrata in nome di una “superiore” civiltà italiana. Una “civiltà” che negava la dignità dell’Altro sin nella sua espressione più vitale: la lingua. In Italia, con l’affermazione di forze (mediatiche) reazionarie, in questi ultimi due decenni la storiografia ufficiale ha continuato a fingere di ignorare le vere ragioni del fenomeno delle foibe e del fatto che le persone in esse scomparse, per la maggior parte, non furono uccise perché italiane, ma per aver commesso crimini in nome del fascismo o per essersi macchiate di collaborazionismo e di spionaggio a favore degli invasori tedeschi. In Istria – scrive ancora Verginella –, tra i vertici politici del movimento di liberazione “prevalse l’opinione che gli eccidi e le violenze furono causate dal vuoto di potere verificatosi dopo l’armistizio dell’Italia e dall’esplosione incontrollata di rancore e rivalsa da parte di coloro che per più di un ventennio avevano subito i torti e i soprusi fascisti”. La sua visione di storica è confermata dallo psicoanalista Paolo Fonda: “L’8 settembre del 1943 è stato per gli italiani un crollo catastrofico. Dal sentirsi parte di un impero, che aveva consentito loro di identificarsi con un arrogante ruolo di grande potenza, sono precipitati in una situazione di totale impotenza, in balia dei partigiani sloveni e croati, che spostando il confine verso occidente, separavano centinaia di migliaia di italiani dalla propria patria e minacciavano di vendicarsi per tutto quello che avevano subito nei venticinque anni precedenti. Credo che ciò abbia prodotto negli italiani un ‘terrore senza nome’, un trauma psichico catastrofico difficile da elaborare e che si è depositato nella psiche collettiva”.
Oltre che degli strumenti della psicoanalisi, del concetto di “infame” in uso nel Medioevo (Todeschini), e di ambigue rappresentazioni simboliche create dalla Chiesa cattolica nel corso del Novecento (Accati), i contributi del volume si avvalgono anche della rilettura della controversa fiction televisiva Il cuore nel pozzo di Alberto Negrin, fortemente voluta da Alleanza nazionale, e (come spiega Giovanni Leghissa) tassello di un più ampio processo di revisionismo storico. La pellicola, che andò in onda nel febbraio del 2005 e rappresenta gli italiani “brava gente” vittime innocenti della violenza slava e comunista, è una lettura parziale e storicamente discutibile del dramma delle foibe e dell’esodo dall’Istria, che priva lo spettatore di informazioni fondamentali per comprendere i fatti e collocare gli eccidi in un più ampio contesto storico-politico. Igor Pribac illustra come la fiction televisiva sia riuscita ad avere effetti revisionistici anche nella vicina Slovenia.
Il problema di questa deriva revisionista viene centrato da Luisa Accati che, nel suo saggio affronta anche la questione del “privilegio dell’impunità”, risultato di una sedicente politica riparatrice perseguita da vari governi dal dopoguerra a oggi: “L’esclusione dei nazi-fascisti dalla scena politica aveva proprio il senso di una punizione per la loro condotta criminale, ed è la loro condotta criminale che viene perdonata, archiviata. 'Pacificazione' significa dunque revoca della punizione, ricomposizione del privilegio dell’impunità”. Ancora più inquietante risulta in questo contesto il ruolo giocato dalla Chiesa: “La funzione sacralizzante del perdono (papale) ha restituito alla destra postfascista l’autorità perduta e questo ha dato luogo a uno spostamento fondamentalista nel sacro dell’intero quadro politico”.
Il volume solleva inquietudini e dubbi ed è quindi vitale, perché – come scrisse Margarete Mitscherlich, “La rimozione del passato, l’incapacità di confrontarsi con la propria colpa è al contempo anche un’incapacità di percepire il presente in maniera realistica, di affrontare i problemi attuali in modo più aperto e libero”.
Maria Teresa Sega dice
molto interessante, propongo presentazione-discussione