Un testo di Giuseppe Maria Galanti che era piaciuto a Vincenzo Antonio Formaleoni tanto da farlo suo, a cura di Mario Infelise
Ecco la nostra strenna di fine anno, con tanti auguri per quello nuovo. Pubblichiamo un testo dell’illuminista napoletano Giuseppe Maria Galanti che ebbe la ventura di finire nelle mani del veneziano Vincenzo Antonio Formaleoni. Nella sua introduzione, Mario Infelise ne ricostruisce le vicende editoriali e ne mette in luce alcuni degli aspetti più interessanti. Data la lunghezza del testo, rendiamo disponibile qui di seguito l'introduzione di Infelise e alcuni brani di Galanti (tratti dal capitolo dedicato a Carattere, arti, letteratura, religione, lingua, usi e costumi degli italiani); chi volesse leggere la versione integrale, può scaricare il testo in formato pdf cliccando qui.
Uno sguardo di fine Settecento sull’Italia, di Mario Infelise
Con Internet capitano curiose sorprese. Conoscevo lo scritto che qui si propone come opera di Vincenzo Antonio Formaleoni (1752-1797), romanziere ed editore veneziano di origine piacentina con ampi interessi geografici, che l’aveva anteposta con il titolo enciclopedico di Discorso preliminare sopra l’Italia alla sua Topografia veneta, una dettagliata descrizione geografica dello stato veneto pubblicata nel 1787 a Venezia.
Qualche settimana fa, provando a verificare la correttezza di una citazione latina che non mi convinceva, l’ho inserita su Google books. Con qualche stupore mi sono imbattuto, oltre che nel testo conoscevo, in un altro pressoché identico, ma a nome di Giuseppe Maria Galanti (1743-1806), illuminista napoletano la cui opera mi era tutt’altro che ignota, essendo stata studiata da Franco Venturi, il maggiore conoscitore del riformismo italiano settecentesco. Non mi era però mai venuto in mente di accostare i due testi. Mi ci è voluto poco per comprendere cosa era successo. Galanti – allievo di Antonio Genovesi, avvocato, editore e autore di scritti critici sulla feudalità e le condizioni economiche e sociali delle diverse parti del regno di Napoli – era il vero autore del pezzo che aveva pubblicato a Napoli nel 1782 con il titolo Descrizione storica e geografica dell’Italia, come introduzione a una descrizione geografica d’Italia mai portata a termine.
Formaleoni doveva avere trovato quelle pagine di suo gradimento e pochissimi anni dopo se ne era appropriato. Con qualche scrupolo, peraltro, dato che a rigore non aveva posto il suo nome in testa al testo, anche se certamente aveva espunto quello di Galanti. Fatto sta che d’allora nelle schede bibliografiche lo scritto è stato attribuito al piacentino. D’altra parte, sino al 1840, la proprietà letteraria non era giuridicamente difendibile e casi del genere in Europa erano all’ordine del giorno.
Il testo resta comunque interessante e può essere utile riproporlo, con la considerazione aggiuntiva che uno scritto napoletano sull’Italia poteva passare a Venezia, senza la necessità di particolari adattamenti.
Quali sentimenti poteva suscitare l’Italia alla fine del Settecento, alla vigilia della Rivoluzione? Non v’è dubbio che l’Italia fosse in primo luogo uno spazio geografico dai confini indiscutibili. Era inoltre uno spazio culturale altrettanto ben definito, caratterizzato da una storia, una lingua e una cultura comune. Non era invece uno spazio politico. Benché molte delle sue “sventure” derivassero dal non aver mai costituito un “corpo unito”, l’unificazione non appariva una prospettiva futura e non suscitava neppure alcuna emozioni particolare. Del resto i grandi stati non sembravano in grado di andare incontro ai bisogni primari delle popolazioni, che per l’autore erano la libertà e il benessere, per il raggiungimento dei quali erano necessari una buona educazione e condizioni che non consentissero disparità economiche e sociali troppo marcate. L’Italia era stata unita al tempo di Roma, ma l’impero aveva infranto la libertà originaria e, pur avendo prodotto ricchezza e potenza, aveva alimentato forti disparità, nutrendosi “delle spoglie dell’universo” e “incatenando tutte le nazioni al [suo] giogo”. Ma anche la storia italiana successiva era negativamente contraddistinta dalle disuguaglianze. Mentre le classi dominanti “vivevano lautamente nell’ozio del prodotto delle loro terre”, i contadini che costituivano “la classe la più utile, la più industriosa, la più feconda” erano “indegnamente avvilit[i]”. Citando Machiavelli, ricordava che proprio questa situazione aveva portato alla degenerazione della società comunale e alla caduta “sotto il giogo de’ propri tiranni o di potenze straniere”. L’unica parziale eccezione era costituita da Venezia, dove “il popolo non vi era schiavo”, ma il cui ordinamento istituzionale chiuso impediva l’accesso “agli uomini di merito”.
Il racconto delle vicende storiche italiane non poteva trascurare il peso che aveva avuto la Chiesa cattolica. Il potere temporale dei papi aveva inevitabilmente condizionato la crescita civile della penisola e reso difficile ai suoi abitanti identificarsi nelle istituzioni di uno stato, costretti com’erano sempre stati a barcamenarsi tra due poteri, quello religioso e quello civile.
Molto interessanti mi paiono le osservazioni sulla lingua che è indubbiamente ritenuto il classico elemento unificante del paese. Non mancano però a riguardo dubbi e interrogativi, soprattutto quando si raffronta la condizione italiana a quella di altri paesi europei. Per Galanti/Formaleoni (quest’ultimo molto sensibile al tema, avendo sostenuto la necessità di tradurre l’Encyclopédie di Diderot e D’Alembert in italiano poiché era necessaria alla divulgazione delle tecniche) l’Umanesimo, uno dei grandi movimenti intellettuali prodotti in Italia, aveva influenzato molto negativamente la futura evoluzione culturale del paese. Ciò che non si apprezzava era l’attenzione che in Italia era stata sempre rivolta allo studio delle lingue antiche, la quale aveva alimentato la “pedanteria” e il “fanatismo” arrestando nel XV secolo lo sviluppo “del vero sapere”. Era conseguenza di tale atteggiamento se “gli Italiani in vece di coltivare la propria lingua, studiando gli antichi non conobbero altro merito che di sapere il greco e di scrivere in latino”, penalizzando così gli uomini di genio di cui disponevano, come Machiavelli, Guicciardini, Tasso, Ariosto. La cosa era tanto più evidente se si poneva a confronto ciò che era avvenuto in Francia, dove invece si era sempre destinata cura particolare alla lingua volgare: se Pascal, Bossuet, Fénelon, Corneille, Racine avessero scritto in latino “che sarebbe divenuta la Francia?”.
Sono altresì interessanti gli spunti sparsi qua e là sul costume degli italiani, sui loro gusti culturali, letterari e musicali. La condizione femminile non era la stessa dappertutto. A Firenze e a Venezia le donne erano molto più libere che altrove. Era un aspetto questo che non riteneva trascurabile, poiché “si sa che la condizione civile di questo sesso amabile decide sempre de’ costumi di un popolo”. Critiche erano le condizioni della libertà di espressione, che imponevano di non scrivere “quasi mai” quello che si pensava. Il tema della tolleranza era d’altra parte complesso e poteva prestarsi a considerazioni non consuete. Certo l’Inquisizione aveva avuto un peso, ma per l’autore “la libertà di conscienza, vietata dalle leggi, ivi è permessa dai costumi”, al punto da sostenere che se i francesi in quegli stessi decenni discutevano tanto di tolleranza, era proprio perché oltralpe si potevano verificare episodi gravi di intolleranza – quelli su cui aveva insistito Voltaire – che in Italia non sarebbero mai accaduti. Evidentemente il caso di Pietro Giannone, il giurista napoletano inseguito dalle autorità ecclesiastiche e morto in carcere a Torino nel 1748, a trent’anni di distanza, era stato dimenticato e rimosso.
Alle spalle dello scritto c’è una letteratura europea geografica e di viaggio settecentesca molto attenta a questi temi e piuttosto diffusa in Italia. Spunti importanti sono tratti dal celebre Voyage d’un François en Italie dell’astronomo enciclopedista Jérôme de la Lande (1769-1770), dalla Geografia del tedesco Anton Friedrich Büsching, di cui in quegli stessi anni Galanti stava curando l’edizione napoletana (1781-1782) e dalla Description historique et critique de l’Italie dell’abate Jérôme Richard (1766).
Il testo è tratto dalla Topografia veneta, ovvero Descrizione dello stato veneto secondo le più autentiche relazioni e descrizioni delle provincie particolari dello Stato marittimo e di Terraferma (Giammaria Basaglia, Venezia 1787), pp. I-XXXIX. Le varianti con il testo originale di Galanti sono marginali ed essenzialmente ortografiche (sono stati corretti solo alcuni sicuri refusi; nella tabella i conti non tornano né in una versione né nell’altra: non ho mai trovato una tabella settecentesca in cui tornino).
Un’edizione moderna della Descrizione è nel volume Giuseppe Maria Galanti, Scritti sull’Italia moderna, a cura di Mirella Mafrici, Di Mauro editore, Cava dei Tirreni 2003. Su Galanti sono almeno da vedere Franco Venturi, Giuseppe Maria Galanti. Nota introduttiva, in Illuministi italiani, V, Riformatori napoletani, a cura di Franco Venturi, Ricciardi, Milano-Napoli 1962, pp. 939-985; Maria Consiglia Napoli, Giuseppe Maria Galanti. Letterato ed editore nel secolo dei Lumi, Franco Angeli, Milano 2013.
Discorso preliminare sopra l’Italia (1782-1787), di Giuseppe Maria Galanti (pubblicato da Vincenzo Antonio Formaleoni)
La libertà della stampa è ristretta in Italia: un povero autore è obbligato a spiegarsi conforme vuole il suo revisore. In Venezia e in Toscana il governo permette di stampare ciò che si vuole e per queste due nazioni la stampa è un oggetto di gran commercio.
L’Italia è inondata di libri frivoli e inetti di ogni genere. Quelli di Francia vi hanno molta voga perché sono scritti con libertà e sono più conformi al gusto del secolo. L’arte tipografica ha portato un cambiamento essenziale e notabile nello spirito de’popoli di Europa. Essa non solo ha rendute comuni le cognizioni ed ha diffusi i principi della ragione e della sana morale, ma ha ancora prodotta una facilità grandissima nel commercio della vita: e con moltiplicare i libri di ogni genere ha occupati gli spiriti in un mondo astratto d’immaginazione e d’idee. Si grida contro i libri frivoli, ma forse con poca riflessione. Lo stato attuale di Europa presenta un numero immenso di città popolate opulente e oziose e la letteratura leggiera e frivola fa un grandissimo bene occupando tutte le persone che senza di ciò sarebbero turbolente e faziose. Certi costumi, come la follia delle mode, gli spettacoli, una cicisbea, danno da fare allo spirito inquieto degli uomini e formano la tranquillità dello stato. Ne’ secoli grossolani e ignoranti, gli umori erano feroci, gli animi non si nudrivano che di forti e violente passioni e il tempo si occupava nelle discordie, nelle fazioni, ne’ tumulti. Non tutti comprendono di quale fermentazione sono capaci le passioni umane. Oggi la società è divenuta un teatro di piaceri e questo stato per la politica è assai felice perché gli uomini sono docili e si possono governare con dolcezza.
L’Italia è oggi divisa in molti piccioli stati e, siccome ciascuno ha la sua metropoli che decide del gusto e della maniera di vivere e di pensare, ciò ha prodotto in questi generi qualche differenza. Gli Italiani in generale sono sobri, ma nondimeno concordano tutti nella magnificenza e nello spirito di dissipazione che sono oggi divenute le lor occupazioni, dopo che hanno cessato di essere i padroni del mondo. Ogni città ha i suoi spettacoli fissi come ogni stagione ha i suoi spassi, i suoi giuochi. Le medesime funzioni della religione servono loro di spettacolo. I più celebri sono l’Ascensione di Venezia, la Fiera di Reggio, il Carnovale di Milano, la Settimana santa di Roma, l’Estate di Napoli. L’Italia, dopo essere stata il centro delle rivoluzioni, è oggi divenuta un teatro della società e de’ piaceri.
L’umanità e la dolcezza sono qualità proprie degli Italiani. Tutte le città d’Italia sono piene di stabilimenti pubblici di carità dove trovano soccorsi i vecchi, i fanciulli, le donzelle, i malati, i poveri. La bassa gente vive alla giornata e si contenta di godere del presente senza curarsi molto del futuro. Crede di aver fatto tutto pe’ figli, quando li ha nudriti, e loro ha insegnato un mestiere per vivere.
Gli Italiani, a differenza degli altri popoli, vogliono esser governati con dolcezza. Essi non soffrono un governo duro e si rivoltano contro la barbarie. L’anima umana non è stata mai degradata in Italia come altrove e il governo feudale e il governo ecclesiastico vi è stato meno duro che nelle altre ragioni di Europa. I supplizi atroci non si veggono fra gli Italiani ed essi si rivoltano ad udire quelli delle altre nazioni. Gli Italiani sono governati più dal costume che dalle leggi.
Gli Italiani passano presso gli stranieri per gelosi, mentre tutte le donne di condizione hanno de’ cicisbei. Questo costume è molto incompatibile colla gelosia. Le donne italiane sono meno belle degli uomini, ma al pari di essi sono sagaci e spiritose. Amano il ballo, la musica, gli spettacoli, i piaceri. Molte sono quelle che coltivano le scienze e le arti con ogni successo Un tempo vivevano ristrette come tutte le altre femmine di Europa, ma oggi godono di una piena libertà e sono esse che animano la società e l’abbelliscono. Le loro case cominciano a divenire tante scuole di politezza e di decenza. Esse sono più libere a Venezia ed Firenze: quivi possono andar sole per le strade, al teatro e dove vogliono. Non usano belletto né alterano il loro viso come fanno le donne francesi. Le donne veneziane hanno però cominciato a praticare questo pessimo costume.
L’Italia è piena di nobiltà che non ha parte al governo che nelle sole Repubbliche. Vive nella magnificenza e le sue maggiori prerogative consistono negli ordini di cavalleria, nel comparire nelle sale delle Corti e in fare brigate esclusive. Nelle famiglie nobili sono di un uso generale i titoli i maggiorascati, le primogeniture. L’imperator Federico III, nel soggiorno che fece in Italia, gli Aragonesi e i Catalani misero in voga i titoli in Italia e vi fecero gran mercato di carte onorifiche e così v’introdussero la vanità, il fasto, la vita folle e oziosa. I cadetti delle case nobili s’impiegano nelle milizie o nel godimento de’ benefici ecclesiastici, che in Italia sono assai numerosi e per lo più sono stati fondati da loro maggiori a quest’uso. I monasteri sono popolati di donne nobili che a nessuna condizione una volta s’inducevano a sposare un uomo di condizione inferiore. Oggi i costumi della nobiltà sono più ragionevoli.
I cittadini sanno rendersi eguali alla nobiltà per ricchezze per cariche e per onori. Di questa classe sono per lo più coloro che governano lo stato ad eccezione delle Repubbliche. In Genova e in Venezia la nobiltà non disdegna il commercio. I contadini generalmente non sono proprietari de’ terreni, ma non sono schiavi. Essi per lo più somministrano a signori proprietari la metà del prodotto delle loro fatiche. Questa costituzione è di pregiudizio a’ progressi dell’agricoltura, per cui le leggi civili sono poco favorevoli alla sua perfezione.
Lo stato della repubblica di Venezia è senza feudi e il commercio vi è florido e felice. La Lombardia è meno feudale dello stato della Chiesa, del regno di Napoli, della Sicilia, della Sardegna e i popoli vi sono meno miserabili, più copiose e floride sono le manifatture, il contadino è meno povero e sfortunato.
Ma tale è la fertilità del suolo dell’Italia, la benignità del suo cielo che con una infelice costituzione civile le arti e le manifatture in alcune contrade fioriscono in tutta la loro perfezione. I Genovesi e i Veneziani si distinguono ancora per il commercio.
La religione dominante d’Italia è la cattolica eccetto tra i Valdesi nelle valli del Piemonte. I Greci stabiliti in Italia riconoscono l’autorità del Papa e sono ridotti a poca cosa. Gli Ebrei sono tollerati a Roma, a Livorno, a Venezia. Il clero vi è numeroso come i monasteri. Vi sono più vescovadi in Italia che in tutto il resto della Terra. Le chiese e i monasteri vi posseggono grandi beni e ricchezze per cui i vescovi e gli abati sono in gran considerazione. Quasi da per tutto i tempi sono magnifici. Tutto ciò che le arti hanno prodotto di più grande e di più perfetto, tutto ciò che il gusto ha saputo immaginar di più bello, di più nobile: tutte le ricchezze delle quattro parti del mondo sono impiegate alla pompa e alla decorazione de’ tempi. Lo spettacolo esteriore della religione è grande e augusto in Italia e il servizio divino vi si esercita con gran decoro e magnificenza.
Gli stranieri suppongono essere intollerante la religione in Italia per gli effetti dell’Inquisizione ne’ paesi ov’è stabilita. Ma il popolo italiano come si è veduto non è crudele né ha mai imitate le nazioni che passano per le più polite ne’ loro furori. I casi di Calas e del Cavaliere de la Barre non sono credibili in Italia. Non sa concepire un italiano come queste avventure sieno succedute in Francia nel XVIII secolo in mezzo a suoi spettacoli, alle sue arti, a’ suoi romanzi. Né il clero, né i magistrati inquietano alcuno in Italia per motivi di religione. La libertà di conscienza, vietata dalle leggi, ivi è permessa dal costume. L’Italia è piena di case protestanti forestiere stabilite per ragion di commercio. Perché il Governo venga a punire gli errori di un cittadino è necessario che siano delitti ch’è quanto dire disturbino la società. Si trattano dal clero medesimo con indulgenza quelle cose che in Francia sarebbero purgate colla ruota. I Francesi parlano molto di tolleranza, ch’è quanto dire di ciò di cui sentono avere maggior bisogno.
La lingua italiana è nata dalla corruzione della lingua latina che vi operarono i diversi gerghi de’ popoli barbari. Essa fu perfezionata come si è veduto dal genio di Petrarca, di Dante e di Boccaccio. Sebbene non si possa agguagliare alla greca e alla latina in bellezza e in perfezione, è tuttavolta la lingua meno difettosa di Europa, dopo che si è cessato di parlare la latina. Essa è ricca, sonora, regolare nella sua forma, varia nelle sue modificazioni, piena di forza, di grazie, di amenità. Tutti questi vantaggi li deve alla latina e agli organi dilicati degli Italiani. Le altre lingue di Europa hanno conservato più durezza di accenti e più espressioni grossolane de’ popoli guerrieri e feroci che vi hanno dominato. Sulle lingue influisce ancora l’asprezza del clima e quello dell’Italia ha un vantaggio sopra il clima degli altri paesi di Europa. I francesi, dopo Francesco I, hanno addolcita l’asprezza della pronuncia e l’hanno conservata nello scrivere.
Gli stranieri come tutti coloro che giudicano solamente ottimo quello ch’è del loro uso non vogliono riconoscere alcuna preferenza nella lingua italiana. Ma una lingua veramente felice è una lingua armonica, una lingua che sia adattata alla musica e alla poesia. I Francesi che per difetto della loro lingua non hanno musica né poesia e che non possono dissimulare questo vantaggio nell’italiana si ristringono a dire che la lingua italiana è adattata alla musica e alla poesia, ma la loro regna nella prosa. Questa differenza è ben singolare. Una lingua eloquente in versi non lo sarà in prosa? Oggidì per noi è sconosciuto quel genere di eloquenza sublime capace di commuovere vaste assemblee e che la libertà dettava sopra le tribune. Oggi dee parlare la ragione e la verità; deve istruire e dilettare più che agitare gli spiriti e le lingue moderne sono formate in tali disposizioni. Le lingue si perfezionano colla società, colle arti e col commercio. La lingua francese, meno abbondante, meno maneggevole, meno energica dell’italiana è divenuta generale per aver meglio coltivata la società delle donne che Francesco I chiamò alla sua Corte, per la sua facilità nata dall’uniformità della sintassi, per li suoi libri piacevoli. “È una moneta – dice Voltaire – più corrente delle altre, sebbene manca di peso”. I Francesi deggiono pure la fortuna della loro lingua, alla perfezione che hanno dato al teatro ed essi sono riusciti a perfezionarlo solo perché hanno coltivata la loro lingua.
Noi abbiamo osservato quanto i latinisti d’Italia sono stati di pregiudizio alla perfezione e fortuna della lingua Italiana. I Toscani la coltivarono da pedanti e ne fecero un arsenale ridicolo di parole.
L’Italia ha diversi dialetti popolari, ma da per tutto s’intende e si scrive l’italiano puro e corretto. Nella maggior parte della Lombardia, nelle Calabrie e nella Basilicata il popolo parla un gergo grossolano. A Venezia i nobili e i plebei parlano un dialetto ch’è loro particolare ed è grazioso. Il dialetto di Genova è barbaro, quello di Napoli è goffo, ma espressivo. La lingua italiana è meglio parlata in Toscana ed è meglio pronunziata a Siena.
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Giovanni Levi dice
Un ritratto troppo bonario specialmente sul ruolo del cattolicesimo nel creare i difetti dell'Italia; ma chiarisce bene, mi pare, il poco rispetto per le regole e le istituzioni senza volerlo attribuire alla compresenza di due poteri, stato e chiesa. Mi domando perché Formaleoni ne sia stato tanto entusiasta da volerselo attribuire. Che poi il dialetto di Genova sia barbaro mi pare una barbarie degna di "Genova per noi" di Paolo Conte. Buon anno
Rosanna Trolese dice
Veramente interessante e divertente grazie grazie