di Luigi Menardi
È la radio che era stata di mio padre, morto in guerra pochi mesi prima che io nascessi, e che ho usato da ragazzo finché non ho potuto comprarmene una moderna. Era l’unica che c’era in casa, stava in tinello (questa la parola che si usava in casa, oggi i miei nipoti se la sentono si mettono a ridere).
Mia madre aveva i suoi programmi e i suoi riti: i radiogiornali, possibilmente l’operetta; poi la radio andava bene a certe ore e in certe situazioni, non in altre (è una cosa che le è rimasta anche quando, molto dopo e io già non abitavo più con lei, è entrata in casa la televisione, messa accanto al tavolo da pranzo: “durante i pasti – diceva – non si accende”, ma allora la radio era ammessa, radiogiornale sì, telegiornale no). Io invece ci passavo le notti ad ascoltare la musica americana e inglese su Radio Luxembourg: era l’epoca di Elvis, Sam Cooke, dei primi Beatles. Quando andavo male a scuola, mia mamma mi puniva levando una valvola per renderla inutilizzabile. Poi ho cominciato a lavorare, e anche da noi sono arrivati i transistor, la modulazione di frequenza e così finalmente la radio in camera mia, negli ultimi anni prima di sposarmi, nel 1970, quando ho lasciato Mestre per Spinea (e poi il veneziano per il veronese, dove vivo ancora).
Dopo essere stata tanto tempo a prendere polvere in un garage, ora è a casa di mio nipote, che l’ha ripulita e fatta un po’ sistemare, ma senza troppa fortuna: mi dice che si accende ma non capta voci, si sentono solo scariche e fruscii. Però il quadrante illuminato con i nomi delle antiche stazioni trasmittenti – Roma Schenectady Huizen Daventry Zeesen Tirana Monte Ceneri – continua a far sognare.