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Il mondo di oggi guardato da un editorialista di ieri. 8

21/11/2013

di Alain, a cura di Giacomo Corazzol

Nuovo appuntamento con il filosofo francese Alain letto e tradotto da Giacomo Corazzol.

Dottrina dell’azione, di Alain

Un certo saggio, il quale coltiva il proprio giardino e parla poco, si vanta di essere riuscito a far stare tutta la dottrina dell’azione in due capitoli, ciascuno dei quali di una sola parola. Capitolo I: Continuare. Capitolo II: Cominciare. L’ordine stupisce ma esprime quasi tutta l’idea. È meglio meditare che discutere. In questo modo i due capitoli si svilupperebbero rapidamente in un grosso tomo. Ecco una sintesi del grosso tomo.

Continuare è il solo mezzo che abbiamo per cambiare. Quando vi viene l’idea di cambiare, è il segno che il vostro mestiere ha smesso di accarezzarvi e comincia a penetrare e a pungere. È il momento della ruvidezza, il momento in cui un uomo viene messo alla prova. Un mestiere che non sia respingente non è ancora diventato un mestiere: fino a quel momento si è dei dilettanti, termine mirabile che contiene la giusta dose di disprezzo. Il dilettante, infatti, si diverte, senza mai oltrepassare il punto in cui cessa il divertimento. È nel momento in cui un mestiere non avanza più per conto proprio che finalmente ci accorgiamo che lo stiamo facendo; è allora che è necessario voltarsi verso di sé e dare del proprio. Finalmente il mestiere non è più gradevole: non resta dunque che farlo bene. L’atleta che sia ricompensato all’inizio della propria carriera rimane ingannato da questa approvazione di fortuna: ciò ch’egli accumula è il contrario del coraggio. Il felice successo gli fa perder di vista la necessità di volere. Nel momento in cui verrà il difficile, il momento in cui è necessario tener duro, proprio allora mollerà la presa e si metterà a cercare un mestiere che scorra via liscio. Ma un mestiere del genere non esiste.

Stendhal racconta che da giovane rimaneva con la penna a mezz’aria in attesa del genio. Non aveva avuto la fortuna, dice, di trovare un amico caritatevole che gli dicesse: «Scrivete venti righe al giorno, genio o no». In questa frase ravviso uno dei segreti dell’arte dello scrivere. Non tirate un frego, continuate: una frase cominciata è meglio che niente. E se la frase è goffa e accidentata, vi sarà di lezione. Sono convinto che non è tanto cambiando quanto impegnandosi a continuare che un poeta ottiene i suoi sorprendenti miracoli. Non dite che ve ne infischiate dell’arte di scrivere: è un’arte necessaria in ogni mestiere, e si perde un sacco di tempo a cancellare e a ricominciare da capo. Tirare un frego non è un modo per risparmiarsi di tirarne degli altri. Al contrario. Perché si prende l’abitudine di scrivere come capita, con l’idea che tanto si potrà cambiare. La brutta copia rovina la bella. Provate l’altro metodo: salvate i vostri errori. Queste osservazioni valgono per tutte le arti e per tutti i lavori. Dicono che il vecchio Calmann-Lévy, il fondatore della dinastia [di editori, NdT], attendesse anche per ore davanti a una cassettina di libri appesa al muro. A mio avviso, la capacità di riuscire nelle cose, tanto comune tra gli ebrei, deriva da una specie di opinione metafisica secondo la quale non siamo al mondo per divertirci.

Il secondo capitolo attende. Cominciare significa mettersi subito al lavoro e ridurre a zero, come mi capita spesso di dire, il tempo della messa in atto. La parolina “Farò” ha condotto interi imperi allo sfacelo. Il futuro ha senso soltanto se è la punta di un arnese. Prendere una risoluzione non significa nulla: è il proprio strumento da lavoro che bisogna afferrare. Il pensiero seguirà a ruota. Riflettete su questo, e cioè sul fatto che il pensiero non può in nessun modo dirigere un’azione che non sia stata iniziata. Non ha senso immaginarsi Boucicaut nell’atto di fondare il Bon Marché [famoso grande magazzino di Parigi fondato nel 1852 e tuttora in attività NdT]: Boucicaut, il Bon Marché, l’ha fatto. Il metodo è completamente diverso. E, nonostante un tenace pregiudizio, le imprese ben concepite non sono mai messe in pratica. L’unica cosa che resta da sapere è in che modo l’aereo è stato inventato. Questi esempi illustrano i due capitoli. Se li consideriamo in riferimento al secondo, dico che, finché non si comincia, è del tutto inutile riflettere su ciò che ci stiamo mettendo a fare. È come inventare un classificatore prima di sapere che tipo di documenti ci si vuole inserire. O, in altri termini, è come voler sapere ciò che si dirà prima di dirlo. Proprio perché sciocco, quest’ultimo esempio è il migliore. Il nostro pensiero non è tale da poter marciare in testa: chi pensa le proprie azioni non agisce mai. Anche il caso di uno scalatore dell’Himalaya può essere istruttivo: se resta a osservare la montagna, non saprà mai per quale varco sarà in grado di passare. «Cammino per sapere da che parte riuscirò a passare». E Goethe termina il suo discorso dicendo: «Bisogna accettare come una legge ciò che il genio della ragione umana suggerisce all’orecchio di ogni nuovo nato, cioè di sottomettere l’azione alla prova del pensiero e il pensiero alla prova dell’azione».

[Doctrine de l’action, in Alain, Minerve ou de la sagesse, Hartmann, Paris 1939, pp. 274-276, traduzione di Giacomo Corazzol.]

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