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Caso, destino, responsabilità. Una lettura sul Vajont

07/10/2013

di Maria Giovanna Lazzarin

Dopo aver ascoltato l’autore a Mestre, il 17 settembre 2013, Maria Giovanna Lazzarin ci scrive a proposito dell’opuscolo di Luigi Rivis, La storia idraulica del “Grande Vajont” rievocata da un addetto ai lavori… (2012). La lettura di Lazzarin mostra come le coincidenze della vita s’incrociano con le previsioni di un modello idraulico, rassicuranti finché non vengono tragicamente smentite dalla realtà, e di conseguenza con un certa idea di sviluppo e di tecnica.

“Venerdì 20 luglio 1714, a mezzogiorno, il più bel ponte di tutto il Perù si spezzò, facendo precipitare nell’abisso sottostante cinque viaggiatori”. Così comincia il romanzo Il ponte di San Luis Rey, di Thornton N. Wilder (sottotitolato La misteriosa complicità di caso e destino nell’edizione Demetra, Verona 1994; l’originale americano e la prima traduzione italiana risalgono alla fine degli anni Venti). L’autore, attraverso l’artificio del manoscritto ritrovato, vi racconta la ricerca fatta da Fra Ginepro intorno alle vite delle cinque vittime per capire la misteriosa complicità di caso e destino: come mai proprio quelle persone si erano trovate lì al momento del crollo?

Questo libro mi è tornato in mente mentre leggevo per la prima volta La storia idraulica del “Grande Vajont” rievocata da un addetto ai lavori che allora c’era (pubblicato nel 2012 da Momenti AICS Editore, Belluno, 96 pagine), di Luigi Rivis, vice capo della centrale elettrica di Soverzene all’epoca della tragedia e scorrevo velocemente le pagine in cui l’autore descrive la progettazione e la costruzione della diga del Vajont dal 1940 al 1962 per arrivare a scoprire la sua vicenda personale nel disastro, una vicenda che sembra legata al caso o al destino.

“Per la direzione del reparto di Soverzene, fino al tardo pomeriggio del 9 ottobre 1963, è stata una giornata di lavoro come le altre”.

Così Rivis comincia a raccontare quella giornata, ma poco dopo continua: “Diagrammando lo spostamento della frana [del Vajont] avevo notato un notevole incremento dello stesso. Così mi accordai con Rossi [responsabile del cantiere del Servizio Costruzioni Idrauliche del Vajont] che lo avrei chiamato nel pomeriggio. Nel pomeriggio, nel confermarmi che l’incremento continuava, mi ha anche riferito che, a volte, si vedeva o si sentiva cadere del materiale nel lago. Commentando con Bertotti [capo reparto della centrale elettrica di Soverzene] si convenne che il momento di caduta della frana si avvicinava sempre di più e che, con la sua caduta, sarebbero finite le preoccupazioni. Così anche il Vajont sarebbe entrato nella normalità dell’esercizio” (p. 73-74).

È quindi in tutta tranquillità che Bertotti con tre tecnici si reca quella sera al Vajont per coordinare gli eventuali interventi. Tra quei tecnici poteva esserci anche l’autore del libro, ma preferì restare a Soverzene perché il giorno dopo aveva una lezione all’ITIS di Belluno e voleva finire di prepararsi. Nessuno di quelli che salirono al Vajont ritornò.

Quell’anno frequentavo la terza media a Belluno. La mattina del 10 ottobre arrivò in classe il nostro insegnante di disegno terreo in volto: la sera prima era a cena a Longarone e si era salvato solo perché non stava tanto bene ed era tornato prima a casa. Nei giorni successivi corsero di bocca in bocca racconti di altre persone sommerse o salvate per caso o per destino.

Ma il libro di Luigi Rivis racconta anche un’altra storia: la storia di un ente orgoglioso della propria capacità tecnica, la storia di un grande Vajont costruito per depositare i deflussi dei bacini del Piave e dell’alto Cellina e regolarli sulle esigenze di produzione elettrica della centrale di Soverzene e dell’irrigazione della pianura, la storia di una frana rilevata dagli addetti ai lavori tre anni prima, in attesa della quale si era già preparata una galleria di sorpasso per mantenere il collegamento tra i due bacini e continuità al corso del torrente Vajont.

Così dopo questa prima lettura viene spontanea una domanda: come mai Bertotti e i suoi si sono incamminati tranquillamente verso il disastro, quasi sollevati all’idea che tutto sarebbe finito?

Per questo bisogna tornare a rileggere le pagine tecniche “dell’addetto ai lavori che allora c’era”, pagine documentate e precise che anche chi non è addetto ai lavori riesce a capire. Raccontano che già a fine ottobre 1960 era comparsa una lunga fessura perimetrale che tendeva ad allargarsi lungo il monte Toc e il 4 novembre c’era stata una prima frana senza conseguenze. “Il livello del lago venne subito abbassato e l’allargamento della fessura cessò” (p. 25).

Una persona ignorante di idraulica e frane come me avrebbe subito pensato: teniamo il livello del lago più basso!

La SADE era allora proprietaria di tutto il complesso di dighe e centrali idroelettriche del Piave e dell’Alto Cellina, nel 1957 aveva varato il progetto definitivo del Grande Vajont, da cui si aspettava finanziamenti a fondo perduto dallo Stato. Come spiega Rivis, decise di mantenere il progetto, programmare la costruzione della galleria di sorpasso frana e cercare di conoscere quali effetti idraulici la caduta della frana avrebbe potuto provocare nel bacino del Vajont. Venne così ricostruito a Nove (TV) un modello idraulico a scala 1:200 della vallata del Vajont con inserita la diga e fu affidata all’Istituto di Idraulica dell’Università di Padova, diretto da Augusto Ghetti, la conduzione degli esperimenti di simulazione della caduta della frana. 

Nella relazione conclusiva del luglio 1962 era scritto: “Sembra pertanto potersi concludere che, partendo dal serbatoio al massimo invaso, la discesa del previsto ammasso franoso solo in condizioni catastrofiche, e cioè verificandosi nel tempo eccezionalmente ridotto di 1-1,5 minuti, potrebbe arrivare a produrre una punta di sfioro dell’ordine di 30.000 mc/s ed un sovralzo ondoso di 27,5m. […] Diminuendo la quota dell’invaso iniziale questi effetti di sovralzo e di sfioro si riducono rapidamente e già a quota di 700 m s.m. può considerarsi di assoluta sicurezza nei riguardi del più catastrofico prevedibile evento di frana” (pp. 28-29).

Quel 9 ottobre 1963 Rivis, Biadene e gli altri tecnici sapevano che la quota del lago era a circa 700 m s.m. perché avevano seguito le operazioni di abbassamento. Dunque nessun problema.

E invece in 20-25 secondi precipitarono nel lago oltre 200 milioni di mc, “facendo tracimare nella profonda forra ad imbuto del Vajont un volume d’acqua dell’ordine dei 25-30 milioni di mc” (p. 42).

Commenti a questa storia ne sono stati fatti tanti e Rivis non ne fa, preferisce far parlare i dati e i fatti. A pagina 29 presenta un grafico che è il racconto dell’interrelazione nel tempo tra il livello dell’acqua nella diga e la frana. Mi ha colpito osservare come la frana, abbassando il livello d’acqua nella diga, quasi si fermasse e invece riprendesse a procedere con l’innalzamento dell’acqua. 

Lo riporto a memento su possibili scelte diverse che dai responsabili non furono fatte.

Fig. 25 a p. 29: diagrammi comparati tra il livello del lago e il movimento franoso rilevato nella zona del monte Toc (ripreso da E. Semenza, Storia del Vajont raccontata dal geologo che ha scoperto la frana, K-flash, Ferrara 2005, p. 133).

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