di Filippo Benfante
Questa cornice dovrebbe contenere un orologio da polso da uomo. La cassa era placcata in oro (non credo fosse oro massiccio) e – se ricordo bene – all’interno del quadrante, in basso al centro, c’era un quadrante più piccolo per i secondi. Il cinturino era stato cambiato tante volte, come del resto il vetrino. Ma di recente ho fatto qualche ricerca in internet, le immagini che ho visto potrebbero avermi influenzato. Le uniche cose che ho davvero ben presenti sono il colore beige del quadrante con lancette e segnali dorati, e la scritta della marca: “Eberhard & co.”.
Anche certi oggetti perduti meriterebbero un museo, invece di restare a ingombrare solo la memoria. L’orologio era appartenuto al marito di mia mamma: una delle sue pochissime cose tornate da Longarone, dove fu travolto il 9 ottobre 1963. Era un geometra della Sade, poi Enel, in servizio presso la diga del Vajont proprio nei giorni della catastrofe. Non so per quale motivo, nell’elenco delle vittime si dice che era residente a Longarone (così vedo nella seconda edizione de Il Grande Vajont, a cura di Maurizio Reberschak, edita da Cierre nel 2003, e ora nello speciale online del Corriere delle Alpi/la Repubblica, che probabilmente riprende la stessa lista). Non è così: stava a Mestre, in via Fagarè, insieme a mia mamma. S’erano conosciuti al lavoro – anche mia mamma lavorava alla Sade, poi Enel, presso la sede di Venezia –, e poi sposati gli ultimi giorni di aprile del 1962. Nel 1963 festeggiarono il primo anniversario di matrimonio, il venticinquesimo compleanno di mia mamma e il suo trentunesimo. Ancora qualche settimana e, ai primi di novembre, sarebbe nato un figlio, mio fratello, che a quel punto prese lo stesso nome del padre, ma chissà quali erano state le discussioni fino al 9 ottobre.
Pensandoci ora, mi sembra che il Vajont abbia sempre occupato molto spazio in casa, anche se non è che ci si facesse sempre caso, anzi. Niente memorie sacre, men che meno giri per i luoghi o visite al cimitero (non so nemmeno se la salma fu ricomposta, credo ci sia una sepoltura al cimitero di Mareno di Piave, perché la sua famiglia veniva da quelle parti; mia mamma, che aveva perso il papà in mare durante la guerra, diceva che era abituata a pensare ai suoi morti senza una tomba). Mettici anche l’aiuto di una tranquillità economica costruita anche sulla pelle viva dei risarcimenti accettati – altre possibilità per una dipendente Enel assunta come orfana di guerra, vedova a 25 anni, con un figlio? Insomma, per tante cose – e tra queste anch’io –, la vita era andata avanti. Altrimenti perché rimettere in uso quotidiano l’orologio superstite debitamente restaurato, per di più al polso del figlio arrivato dieci anni dopo?
L’ho perso un’estate, quando avrò avuto 16 o 17 anni. Ero andato a giocare a tennis con un amico, gli oggetti appoggiati su una panchina a bordo campo; di tanto in tanto una pausa e uno sguardo all’orologio perché all’ora in punto bisognava lasciare libero il terreno. Quando sono rientrato a casa mi sono stupito di non averlo al polso, una corsa a ritroso: niente né per strada né sulla panchina. Chiedi al gestore dei campi, su e giù un paio di volte: magone. Quando gli dissi che l’avevo perso, mio fratello rispose: “Non importa”. Ma non c’è una regola per sapere se i vivi parlano più dei morti.