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Caduto il regime, se ne rifece una specie di copia… Variazioni su 25 luglio e 8 settembre 1943

14/09/2013

di Luigi Meneghello

Sono molto note le pagine dei Piccoli maestri in cui Luigi Meneghello ha rievocato l’8 settembre 1943 (a proposito, lo abbiamo già ricordato: anche per questo libro è un anniversario, il cinquantesimo). La citazione più celebre è forse quella dei soldati protetti dal popolo, o meglio dalle donne: «“Per di qua, alpini!, per di là”: il popolo italiano difendeva il suo esercito, visto che s’era dimenticato di difendersi da sé: non volevano saperne che glielo portassero via. Alla stazione di Vicenza fummo afferrati e passati praticamente di mano in mano finché fummo al sicuro. Le donne pareva che volessero coprirci con le sottane: qualcuna più o meno provò». (Questo è l’inizio del capitolo 3, è da leggere anche tutto il 2.)

Ma abbiamo chiesto a un amico di consigliarci altri passi, altre pagine in cui Meneghello parla dell’8 settembre o, meglio, dei temi dell’8 settembre: rapporti tra autorità e subordinati, tra Stato e cittadini, continuità delle istituzioni e dei costumi, libertà, iniziativa individuale, opportunismo, fascismo e antifascismo. Il nostro amico ha preso in mano i tre volumi delle Carte, usciti (per Rizzoli) tra il 1999 e il 2001, e questo è il risultato, avvisando che l’ultima selezione, la sequenza e la presentazione sono solo responsabilità nostra.

1. «Bisogna tirare dalla nostra il prete» disse Giacomo. «Dobbiamo fare un po’ di politica. Politique d’abord! Ci troviamo alle otto.»

Andando a casa Nane mi chiese «Cosa vuol dire politì da Bor?».

«Che prima di tutto si deve pensare a farci amico il prete.»

«Ah, va bene.»

Ci trovammo al ricreatorio. Eravamo in sei. Io e Giacomo, Nane, i due Bertoldi, don Paolo. Giovane, fresco di Seminario, malato di petto, don Paolo teneva per noi “i contatti col prete”. Giacomo, parlando per primo, disse che ormai il nostro dovere era fare la guerra ai tedeschi. Don Paolo lo interruppe e disse: «Veramente dal punto di vista della legalità non mi pare che la cosa sia chiara» . «Be’»  disse Giacomo un po’ innervosito. «Lasciando stare la legalità formale e guardando alla sostanza…»

«Eh no» disse don Paolo. «Come possiamo lasciare da parte la legalità?»

«E va bene»  disse Giacomo. «Prendiamo la legalità. A me pare, don Paolo, che sia questione di sostanza, non di forme. Ma capisco, capisco. Prendiamo la legalità. Chi è la fonte della legalità? La fonte terrena, ben s’intende. È il re, no? E non è dall’altra parte, il re? Non ha dichiarato guerra ai tedeschi?»

«Ma io  so che disubbidire all’autorità legittima è una cosa grave.»

«Come disubbidire? Ubbidire all’autorità legittima! Ubbidire, caro don Paolo. Ubbidire al re.»

«Ma dove sono gli ordini del re?»

«Come? lei vorrebbe un ordine scritto? Se avesse un ordine scritto si metterebbe il cuore in pace?»

«Ecco, sì…  una cosa precisa, un ordine.»

«Lei vorrebbe che ci facessimo rilasciare una lettera», cominciò Giacomo con la lentezza innaturale che (conoscendolo) so che non promette niente di buono. «Una lettera personale del re che dicesse “Reverendo don Paolo l’autorizzo a disubbidire gli ordini dei tedeschi. Suo, Re”… »

Qui Giacomo lasciò ogni politì e si mise a gridare: «Sa cosa le dico io? Che si vergogni!».

2. In quel paese poco serio, nei confronti di quel grottesco regime, risulta (fatti i conti) che la gente istruita si era comportata all’incirca così: Forse un decimo di loro aveva inventato e sostenuto caldamente il regime; un terzo circa era a favore, ma infischiandosene un po’; altrettanti non pro ma neanche apertamente anti; un 10 o 15 p.c. piuttosto anti, senza impegni; e forse il 5 p.c. molto anti. Le percentuali variano, ma non molto, se si prendono in considerazione delle categorie particolari, i cento avvocati della nostra città, o cento medici assortiti nella provincia, o cento miei conoscenti al mio paese.

3. Gli italiani si erano schierati con un potente alleato che pareva destinato a stravincere, ed erano entrati in guerra a solo scopo di sciacallaggio; ma poi avendo l’alleato inopinatamente cominciato a perdere e perdendo ormai alla grande, gli italiani si erano sganciati da lui (continuando a dichiarare “No, mai! Non ci sganceremo mai!”), anzi per sottolineare meglio la realtà dello sganciamento gli si erano voltati contro. Questa era considerata in Europa una caratteristica collettiva e individuale degli italiani, che tendevano sempre a fare così, circostanze permettendo.

Era emerso a suo tempo tra gli italiani un italiano di cinque piedi e cinque pollici di statura, taglia robusta, che li aveva comandati e illuminati e forgiati per una ventina d’anni; ed essi gli ripetevano in versi e in prosa, e gli cantavano in coro: “Tu sei la luce! Tu sei un grandissimo fabbro ferraio!”. Alla fine però, crollate le cose e cercando lui di riparare oltre confine, in un ambiente lacustre , alcuni giovanotti lo arrestarono in compagnia di una signora che lo seguiva, e strattonatili davanti a un cancelletto, fecero a entrambi le dolenti foglie. 

4. Caduto, cioè sfasciatosi, il grottesco regime, tutti (in pratica) si misero a dirne male; e appena possibile ne rifecero una specie di copia.

5. Passando a piedi per l’alto Lazio, settembre ʾ43, io e Lelio vedemmo su un muro una scritta a carbone: ʍ ITELE. Scritto così il nome della belva adolfa pareva divertente. Il segno di abbasso era stato cancellato da uno striscio, e sotto c’era ora un w. Anche questo era stato però cassato, col resto della scritta, e sotto si leggeva un nuovo messaggio: ʍ LA ROMA. Lelio disse «Vedi? È la lotta politica in Italia».

Oriani veniva qualche volta a ficcarsi nelle nostre teste tra Cuoco e Salvemini. Non riuscivamo – non tutti – a prenderlo sul serio. “Soffrire più in alto”: raccontare balle più in alto. Ci avrebbe fatto piacere che ci fosse davvero, in Italia, una “lotta politica degna del nome”. In realtà ciò che ci fu, quando poi venne la pace, non pareva un gran che: interminabili discussioni e baruffe con amici e nemici: scaldarsi, minacciarsi a vicenda, asserire, smentire… Tutto molto astratto, molto teorico: in pratica andare a tagliare le gomme alle macchie dei monarchici…

In un paese come il nostro (si capiva) non è possibile governare con Cattaneo, ispirarsi a lui e ai pochi altri italiani seri e bravi, specialmente lo splendido Piero Gobetti, perfetto per i miei gusti, tagliente, puntiglioso, concreto. Era commovente sapere che i grandi studiosi lo stimavano, Croce gli badava (come già badava ad un altro giovane, Renato Serra…) dialogava con lui.

Non c’era in Italia la gente adatta a venir governata per queste strade: non avevamo la dannata capacità di mettere le redini alla storia. Non serviva farsi ficcare in prigione, sacrificarsi come Gramsci. Le “forze” (così dicevamo) reali erano quelle che erano. In mezzo a loro il nostro partito nano: un pezzetto di lievito, probabilmente insufficiente. Ci si sentiva esposti, come in nessun altro momento della vita (se non nel ’44 sui greppi, nei rastrellamenti), esposti e insieme dispersi, quasi disseminati sul dorso leggermente bombato della terra.

6. Io e i miei compagni volevamo una cosa da nulla, rifare l’Italia. In verità una nuova Italia stava già emergendo per conto suo dalla confusione della guerra. Non era però quella di cui si parlava nei discorsi “politici” sui giornali e dai balconi, a volte per ordinaria retorica, bolsaggine congenita della mente, altre volte con l’intento di contrabbandare certe sopravvivenza dell’Italia di prima. Quanta parte della vecchia ciurma era ancora presente, con berretti di fortuna, sulla tolda riverniciata dell’Italia nuova!

Naturalmente alcuni cambiamenti c’erano: scomparso il Duce, scomparso il suo “stato totalitario” (la variante ridicola che aveva attecchito da noi), non più divise e uniformi del Partito, non più saluti “romani” (aule) o “fascisti” (lettere ufficiali) o “al Duce” (adunate oceaniche), tornare a dare del “lei” alla gente, scordare le date dell’Era Fascista… Cose marginali, superficie, scorza. Sotto la scorza c’era una polpa di interessi, pregiudizi, subordinazioni, superstizioni, che al fascismo non si opponevano, ma lo alimentavano. Ora nasceva il sospetto che rimosso il cartone e il gesso, le aquile di legno compensato, i fasci di cartapesta, le scuri friabili, stesse riemergendo più o meno intatta la sostanza di prima. Usciva il libro di Carlo Levi sulla Lucania, pareva il più significativo libro del mondo (non è certo un libro da poco, benché forse non avesse proprio tutte le virtù che gli attribuivamo): una rivelazione sconvolgente e piena di forza morale sulla realtà di quella parte del nostro paese.

Quanti erano in Italia gli analfabeti, regione per regione? Come si lavorava al Nord e al Sud la terra? Come erano le case? Le farmacie, le scuole? Le usanze, le credenze? Il contrasto fra i fatti che Levi illustrava e ciò che eravamo abituati a pensare sul nostro Mezzogiorno e sulla civiltà di cui noi italiani siamo portatori e che a un certo punto eravamo andati a distribuire in Africa, appariva grottesco, quasi incredibile. 

7. Com’era la favola? Ai margini del paese un arcaico contadino (erano tutti arcaici) si era addormentato sotto un olmo, e mentre dormiva con la bocca aperta, arriva un serpente e va dentro a vedere: era nero, e lungo quanto l’anno della fame, e quando fu disceso a metà il contadino si svegliò con un senso di peso allo stomaco, e avvistando il mezzo serpente che gli pendeva dalla bocca, dopo aver tentato invano di tirarlo fuori (la pelle zigrinata bloccava), lo tagliò coi denti: l’altro mezzo si sistemò all’interno, forse ricrebbe un po’ dalla parte della coda, e si riadattò al nuovo ambiente.

Così il popolo italiano aveva fatto col fascismo, tagliandolo in due, o piuttosto così avevo fatto io che spesso mi confondevo col popolo italiano.

8. La realtà storica di ciascun paese, improvvisamente alla fine della guerra mi resi conto che c’era. La cosa più semplice pareva di provare a definirla in termini italiani: la realtà storica italiana. Mi informai rapidamente, un po’ alla buona ma non male, sulle strutture portanti del nostro paese, e entro qualche settimana conclusi: «Stiamo freschi!».

Note.

Brano 1. Le Carte, I, Rizzoli, Milano 1999, pp. 78-79, sotto la data 22 luglio 1964.

Brano 2. Le Carte, II, Rizzoli, Milano 2000, p. 546, sotto la data 30 settembre 1979.

Brano 3. Ivi, pp. 574-575, sotto la data 23 dicembre 1979.

Brano 4. Ivi, p. 546, sotto la data 30 settembre 1979.

Brano 5. Le Carte, III, Rizzoli, Milano 2001, pp. 12-13, sotto la data 26 gennaio 1980.

Brano 6. Ivi, pp. 16-17, sotto la data febbraio-marzo 1980.

Brano 7. Ivi, p. 26, sotto la data febbraio-marzo 1980.

Brano 8. Ivi, p. 69, sotto la data 15 gennaio 1981.

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