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«Abbiamo contro anche i giapponesi». L’8 settembre di Hugo Pratt e di suo zio Ruggero

10/09/2013

di Hugo Pratt

Riprendiamo alcuni dei ricordi che Hugo Pratt (1927-1995) pubblicò per la prima volta nel 1971. L’8 settembre 1943 Pratt si trovava al Collegio premilitare di Città di Castello. Pochi giorni dopo, rientrato a Venezia, accoglie lo zio Ruggero, marinaio scappato appena in tempo, mentre i tedeschi prendevano il controllo dell’Adriatico.

Se per il collegio il 25 luglio fu uno scossone, l’8 settembre fu il terremoto: scapparono tutti. Lasciati soli, noi ragazzi del collegio potemmo finalmente giocare a fare gli uomini. Ricordo che firmai le licenze per tutti e compilai i fogli di viaggio. Consegnammo poi ai carabinieri le armi che si trovavano nella scuola. Vennero anche dei tedeschi, ma se ne andarono subito. Penso ora che in effetti non devono neanche aver capito chi fossimo. […]

Settembre 1943: trascorsero per gli italiani i più bei giorni del secolo. C’era nell’aria una disperata allegria. Escluso mio nonno e pochi altri incancreniti tutti erano tragicamente contenti. Vibrava nell’aria una travolgente risata trattenuta. Poteva succedere tutto. In quei giorni ogni italiano fece una sua pace separata, ognuno si mise secondo la propria disposizione in pace col mondo: dal re all’ultimo dei soldati ciascuno fece per sé. Quello che è stato scritto intorno all’8 settembre è una colossale bugia di convenevole: nessuno si sentì tradito, tutti si sentirono liberi. 

Gli italiani non si aspettano niente dall’organizzazione, dal potere, dallo Stato: li subiscono e basta. Gli italiani hanno inventato i tribuni della plebe duemila anni fa, lo sanno da un mucchio di tempo come va avanti il mondo. Se c’è una crisi di potere l’italiano non si abbatte come abbandonato a se stesso, ma si esalta e attua meravigliose avventure, come mio zio Ruggero che arrivò a casa in mutande, con un paio di scarpe legate al collo: era tornato a nuoto. Mi è sempre stato simpatico questo zio marinero. Mi insegnò a nuotare e fu lui che mi comprò le prime braghe. Mia madre avrebbe voluto una bambina al posto mio, così a cinque anni mi metteva ancora le vestine e non mi tagliava i capelli, mi pettinava a boccoli. […] Così mio zio una volta che tornò da un lungo viaggio su una nave mercantile e mi trovò ancora combinato come Achille che non vuole andare alla guerra di Troia, diede in scalmane. Mi tirò su e mi portò dal barbiere. Poi mi comprò le prime braghe. Mi chiamò per sempre «Bucoli».

Ero in casa quando appunto sentii chiamare dalla strada: «Bucoli, Bucoli».

Mi affacciai e rimanevo lì un po’ scaturito a guardare questo sportivo con le scarpe al collo.

«Dai Bucoli, verzi la porta, boiagiuda!» saltellava sul posto come se il suo problema fosse venir su presto perché doveva far pipì. Questo pensai. Quando fu su, ci abbracciammo. Ed erano talmente tante le cose da dirci che stavamo zitti e ci guardavamo sorridendo.

«Mollato tutto, Bucoli» diceva. Di barena in barena. A piedi.

«Abbiamo contro anche i giapponesi, Bucoli». Mi disse che i giapponesi non riuscivano a capire cosa fossimo riusciti a combinare l’8 settembre. Superava la loro immaginazione.

«Bucoli, i fucilieri da sbarco del battaglione San Marco che si trovavano a Tien Tsin in Cina sono stati fatti prigionieri dai giapponesi. Sai cosa ne hanno fatto? Li hanno messi in un campo di concentramento con gli inglesi. Tutti contro, Bucoli». Mi raccontò che nell’Adriatico i tedeschi avevano già ripreso in mano la situazione. Lui aveva appena fatto in tempo a tagliar la corda.

Sempre stato simpatico questo zio Ruggero, bel tipo di marinero. Ce la saremmo passata bene insieme ad aspettare la fine della guerra, se non fosse stato per mio nonno. Si risentì subito il fondatore dei Fasci di Combattimento appena che a Venezia tedeschi e fascisti si rifecero vivi. Rendeva a tutti la vita dura. A me e a mia madre diceva che non aveva dovere a mantenerci; qualsiasi quattro chiacchiere che si volessero fare, veniva sempre fuori il pane a ufo. A zio Ruggero invece proibiva di ascoltare Radio Londra. […] Ma mio nonno poi la pagò.

Nota. Brani tratti da Hugo Pratt, Aspettando Corto, a cura di Antonio De Rosa, Editori del Grifo, Montepulciano 1987, pp. 42-44 (prima edizione: Le pulci penetranti, a cura di Antonio De Rosa, Alfieri, Venezia 1971). La presentazione editoriale avvisa che il testo “è il primo, l’unico romanzo di Hugo Pratt e si muove tra la finzione letteraria e l’autobiografia”.

Il nonno materno di Hugo Pratt era Eugenio Genero (1875-1947), uno dei fondatori dei Fasci di combattimento a Venezia, che tra gli anni Venta e Trenta pubblicò alcune raccolte di poesie in dialetto veneziano. Di seguito al brano che abbiamo presentato, Pratt racconta che un anno e mezzo dopo, all’indomani della fine della guerra, fu lo zio a spedire il nonno in cucina: “«Lei ha perso la guerra» gli dava del lei, «quindi, in cucina. In salotto oggi mangiamo noi. Donne e fascisti via in cucina»”. Mentre il nonno “neanche aveva più voglia di strillare”.

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