Valentina Marcella intervistata da Elena Iorio
Elena Iorio, socia e membro del direttivo di storiAmestre, ha intervistato la sua amica, Valentina Marcella, che dagli ultimi giorni di maggio partecipa, a Istanbul, alle manifestazioni in difesa di un parco cittadino. Il Gezi Park è diventato un simbolo della salvaguardia del paesaggio urbano, della resistenza a decisioni imposte dall’alto e in base a calcoli economici, a scapito della vita quotidiana dei cittadini, e della libertà di manifestare: in Turchia, ma non solo.
Valentina Marcella è un’amica e compagna di studi che da poco più di un anno ha deciso di trasferirsi definitivamente a Istanbul, città dove aveva già vissuto in passato, per periodo più brevi, e che ormai conosce bene, anche per il fatto di parlare correntemente il turco. Valentina sta per concludere una tesi di dottorato in storia su satira ed esercito in Turchia negli anni Ottanta.
Una settimana fa, appena è arrivata in Italia la notizia degli scontri a Istanbul, le ho scritto per sapere se era stata coinvolta, se stava bene e se mi poteva dare qualche informazione sui fatti, dato che la stampa europea non ne parlava granché. Le ho quindi chiesto di rispondere ad alcune domande per aiutarci a capire meglio cosa sta succedendo. Le sue risposte, che qui pubblichiamo, sono arrivate lunedì 10 giugno, prima quindi dei violenti scontri di martedì 11. Nel frattempo la situazione è precipitata. La polizia ha attaccato la folla sparando gas lacrimogeni, granate assordanti e proiettili di gomma, caricando con il manganello e dando vita a cacce all’uomo; ha fermato un certo numero di manifestanti con l’accusa di terrorismo e arrestato i loro legali. Dall’inizio delle manifestazioni si contano almeno cinque manifestanti uccisi in Turchia. Nonostante questo, Valentina ha continuato a mandarmi qualche email per rassicurarmi, scrivendomi per esempio: “Polizia a parte, la gente è serena e rilassata, si respira un’aria nuova come se finalmente tutti fossero usciti da un muro di oppressione”.
Insieme al testo dell'intervista, pubblichiamo alcune foto scattate in vari momenti delle manifestazioni (purtroppo non siamo in grado di fornire didascalie e date più precise). Gli autori sono: Valentina Marcella; un amico di Valentina, Patrick Adams; Massimo Maso, che vive a Istanbul con la moglie (anche lei italiana); le foto di Maso ci sono state mandate da Maria Luisa Peraro, una lettrice del nostro sito.
(e.i.)
Cos’è successo il 30 maggio? Ci puoi raccontare cosa hai visto tu?
È necessario innanzitutto fare un passo indietro e ripercorrere gli eventi giorno per giorno fino a sabato 1 giugno. Tutto ha avuto inizio la notte tra lunedì 27 e martedì 28 maggio quando le prime ruspe sono arrivate al Gezi Park per cominciare l’opera di abbattimento degli alberi. Nonostante l’operazione sia partita – non a caso – di notte, la notizia è giunta in fretta all’associazione Taksim Gezi Park (TGP) che da mesi promuove eventi (concerti, manifestazioni, raccolta firme) per sensibilizzare i cittadini alla questione di questo parco urbano, adiacente a piazza Taksim, destinato a scomparire sotto una gettata di cemento sulla quale nascerà l’ennesimo centro commerciale della città, per la precisione il novantaquattresimo. Una trentina di persone è arrivata prontamente sul luogo, riuscendo a bloccare temporaneamente le ruspe. Da quel momento, per passaparola, la notizia è rimbalzata in tutta la città, l’associazione ha chiesto sostegno e il parco ha cominciato a popolarsi. La polizia è intervenuta sul luogo nel pomeriggio e non ha tardato a dare i primi assaggi di gas lacrimogeni, ma la sera, al mio arrivo, l’atmosfera era serena, un centinaio di persone ascoltava le parole di organizzatori e sostenitori che si alternavano su un palco improvvisato, condividendone speranze e timori; me ne sono andata alcune ore dopo lasciandomi alle spalle i primi striscioni legati da albero ad albero e le tende di chi avrebbe presieduto il parco durante la notte.
Foto di Massimo Maso
Il giorno seguente è trascorso in relativa calma con un afflusso al parco sempre maggiore, finché all’alba di giovedì 30 maggio è arrivato il primo violento attacco della polizia che, non contenta di rispondere con gas lacrimogeni e spray urticante alla resistenza passiva degli occupanti, ha voluto suggellare questa dimostrazione di potere raccogliendo tutte le tende in un angolo per poi appiccare il fuoco, addirittura impedendo il recupero degli oggetti personali al loro interno.
Altre tende e nuovi striscioni sono stati la risposta a questa operazione che voleva cancellare ogni traccia della protesta, evidentemente anche a livello simbolico.
Foto di Massimo Maso
E invece, i manifestanti sono diventati sempre di più.
Proprio così: durante la giornata di giovedì Gezi Park ha continuato incessantemente a riempirsi di persone, colori e iniziative che hanno creato un’atmosfera da festival, un festival in onore di quest’area verde che sopravvive faticosamente tra grattacieli e alberghi di lusso, un festa in difesa del diritto di tutte e di tutti di usufruire degli spazi pubblici della città. Stando ai dati forniti dall’associazione TGP già nel pomeriggio si contavano più di 10.000 persone. Quando sono entrata nel parco, la sera, era quasi impossibile camminare, tanta la folla; all’estremità nord del parco una cucina distribuiva cibo e bevande a offerta libera mentre sul palco di fronte si sono alternati gruppi musicali fino a mezzanotte per poi lasciar spazio alla proiezione di Red, documentario dedicato al gruppo hacker turco RedHack; abbastanza distante da non intralciare l’audio del cinema sotto le stelle, un gruppo di samba improvvisava un mini-concerto itinerante che trascinava anche i più pigri (o meglio, stanchi) tra gli alberi e le fontane a ritmo di danza; nonostante ci avviassimo verso un’altra giornata lavorativa, le ore passavano ma la folla non diminuiva. Me ne sono andata a notte fonda pensando che davanti a un parco così pieno e alla luce dell’attacco dell’alba precedente le cui immagini avevano già fatto il giro del paese grazie ai social media la polizia sarebbe rimasta in disparte almeno un giorno.
Foto di Valentina Marcella Foto di Patrick Adams
E invece?
Invece, venerdì mattina mi ha svegliato la notizia di un altro raid. Nel buio delle cinque del mattino squadre di polizia in assetto antisommossa sono intervenute contro gli occupanti da diversi punti. Costretti dagli ormai noti gas e spray a disperdersi fuori dal parco, nelle strade limitrofe i manifestanti si sono ritrovati faccia a faccia con veicoli corazzati e cannoni ad acqua che li hanno inseguiti e attaccati insistentemente. L’intera zona si è trasformata in uno scenario di guerra, non solo Gezi Park e piazza Taksim ma tutta l’area circostante nel raggio di un chilometro e più è stata coinvolta, compresi i trafficatissimi viali Tarlabaşi e Cumhuriyet, il campus dell’università Istanbul Teknik, l’importante capolinea di mezzi pubblici quali autobus, tram, funicolare e traghetti di Kabataş, e il corso pedonale Istiklal, pieno di esercizi commerciali e di ristoro. È difficile determinare quanto sia durato questo attacco (che fatico a chiamare “scontri” per via dell’assenza di un’offensiva da parte dei manifestanti) perché di fatto non c’è stata una vera e propria tregua per diverse ore. Ripetute azioni della polizia hanno, tra l’altro, impedito all’associazione TGP di portare a termine una conferenza stampa indetta a metà mattinata, hanno coinvolto passanti, commercianti e pendolari, hanno reso l’aria irrespirabile fin dentro agli ospedali e nel profondo dei binari della metropolitana. Ancora una volta l’associazione ha chiesto aiuto ai cittadini invitandoli in piazza la sera alle sette.
Foto di Massimo Maso
E tu ci sei andata?
Sono arrivata in zona con circa mezz’ora di anticipo e mi è stato subito chiaro che non ci sarebbe stato nessun ingresso al Gezi Park nell’orario stabilito poiché nelle ore precedenti la polizia si era barricata in piazza Taksim impedendone ogni accesso con diverse file di transenne. Alle sette, più che dare inizio a una nuova azione la folla arrivata a manifestare ha spontaneamente affiancato chi da diverse ore faceva pressione verso i blocchi: migliaia di persone hanno riempito le arterie del complesso piazza-parco, in ognuna di queste strade (normalmente ampie e trafficate e che all’improvviso sono sembrate così strette!) si è creato un muro umano, compatto, che è avanzato poco a poco verso le barricate, due passi avanti e uno in dietro. In testa a tutti, mani esperte a respingere i candelotti dei lacrimogeni, non tanto per rispedirli al mittente (quanto può valere il braccio nudo di un civile contro quello armato di una divisa?) quanto per allontanarli dalla folla nell’unica direzione possibile; in seconda fila i più equipaggiati contro il gas; dietro tutti gli altri, tra cui molti pronti a dare il cambio ai primi e ai secondi. Questa è stata la mia prospettiva dal corso Istiklal per diverse lunghe ore, finché a mezzanotte in punto la polizia è uscita dalle barricate e, facendosi largo a suon di lacrimogeni e proiettili di gomma, ha costretto il corteo a retrocedere progressivamente. Un paio di ore e di chilometri dopo, alla fine del corso, il corteo era visibilmente indebolito per via dei molti feriti e intossicati costretti a mettersi al riparo o a recarsi in ospedale, così la protesta si è affievolita nella notte.
E arriviamo così a sabato 1 giugno…
Sì. La mattina seguente, sabato 1 giugno, in risposta al blocco del traffico e dei mezzi pubblici nella direzione di Taksim voluto “per motivi di sicurezza” come già successo esattamente un mese prima in occasione della festa dei lavoratori, migliaia di persone hanno marciato alla volta della piazza e del Gezi Park da tutta la città. Senza dubbio resteranno impresse nella memoria di molti le immagini del ponte sul Bosforo all’alba, trentanove metri di larghezza estesi per un chilometro e mezzo letteralmente ricoperti di persone in cammino dalla sponda asiatica a quella europea, braccio sotto braccio. Giunte intorno alla piazza, tutte queste persone e molte altre ancora hanno dovuto fronteggiare ancora una volta la violenta reazione della polizia e per tutta la mattinata il quartiere ha rivissuto le scene del giorno prima, finché, quasi a sorpresa, la polizia si è ritirata lasciando finalmente piazza e parco ai cittadini. Da quel momento Taksim non si è più svuotata. [È solo con il violento attacco dell’11 giugno che la polizia è riuscita a rientrare in piazza, n.d.E.I.]
Foto di Massimo Maso Foto di Valentina Marcella
Lo stesso giorno della “liberazione” della piazza e del Gezi Park, alcuni manifestanti si sono diretti verso il quartiere di Beşiktaş per protestare davanti al palazzo Dolmabahçe, sede della segreteria generale della Grande Assemblea Nazionale (il parlamento). Beşiktaş è rimasta protagonista della protesta per tre giorni, dopo i quali nel centro di Istanbul è tornata la calma. Nel frattempo, gli eventi di Istanbul hanno dato coraggio ad altre città e in breve la protesta è dilagata nell’intero paese, con partecipazione e dinamiche che senza dubbio variano da posto a posto ma che in alcuni casi vedono un uso della forza da parte della polizia pari o maggiore a quello registrato a Istanbul; da questo punto di vista la situazione sembra essere particolarmente critica nella capitale.
Puoi raccontarci una scena che ti ha particolarmente colpito di queste manifestazioni?
Le scene di violenza da parte della polizia sono state immortalate in centinaia di foto e video e, a dispetto del silenzio dei media locali, hanno fatto il giro del mondo. Colpisce sicuramente questo accanimento nei confronti delle persone in piazza dal momento che, ci tengo a sottolinearlo, a esclusione di alcuni casi isolati i manifestanti hanno costantemente tenuto un atteggiamento pacifico. E’ significativo il fatto che nei giorni più caldi, venerdì e sabato, la domanda più ricorrente per strada fosse “come è la situazione da quella parte, c’è polizia?”; la polizia quindi, non eventuali “quattro cinque vandali” (per usare l’infelice espressione con la quale il premier Recep Tayyip Erdoğan si è riferito alle migliaia di persone in piazza in un primo momento, per poi passare ai più consueti “anarchici”, “agitatori” e “terroristi”), era percepita come una minaccia. In poche parole, colpisce l’abuso di potere da parte di un corpo che viene lasciato libero di attaccare, anziché difendere, la società civile.
Ho assistito, però, anche a molte scene positive.
Mi hanno stupito i tantissimi conducenti di automobili, scooter, autobus e taxi che per giorni (fino al raid di venerdì mattina) hanno “strombettato” dai loro veicoli in risposta allo striscione “suona il clacson se anche tu ami gli alberi” esposto lungo il perimetro nord del parco, di fatto il più trafficato.
Mi ha colpito la solidarietà in generale e soprattutto nei momenti più difficili, quando in molti si sono privati di aceto, latte, limone e quant’altro possa dare sollievo sotto i bombardamenti di gas lacrimogeni, per prestare soccorso a occhi più sofferenti.
Mi ha emozionato, più di ogni altra cosa, quello che definirei “effetto anti-panico”. Ci sono stati alcuni momenti in cui gli spari di proiettili di gomma e gas lacrimogeni si sono intensificati, costringendo i manifestanti a retrocedere in fretta. Come è facile immaginare, in situazioni del genere qualcuno può avere la tendenza a correre, con il rischio di scatenare un effetto panico che all’interno di cortei affollati come quelli di Taksim e dintorni può rivelarsi estremamente pericoloso. Ebbene, ogni volta è bastato un semplice sakin sakin, calma calma, detto ad alta voce da una prima persona e poi ripetuto da una seconda, una terza e una quarta per allontanare la paura, procedere con ordine e scongiurare il rischio di incidenti. Credo che in questo caso sia riduttivo parlare di solidarietà, si è trattato di incondizionata fiducia reciproca.
Foto di Massimo Maso
Chi erano le persone in piazza?
A occupare il parco oggi troviamo associazioni di categoria, sindacati, partiti di opposizione, gruppi politici, minoranze, studenti, lavoratori, liberi professionisti, ultras, personaggi dello spettacolo, accademici, giornalisti; c’è la comunità LGBT a pochi metri dai Musulmani Anticapitalisti, ci sono gli anarchici e gli ultra-nazionalisti, i marxisti e i conservatori, ci sono turchi, aleviti e curdi; tutti questi gruppi stanno convivendo nel parco in maniera pacifica (parla per tutte l’immagine del cordone umano formato intorno ai credenti durante la preghiera del venerdì per garantire loro un po’ di calma e silenzio) e non si registrano tensioni interne.
A manifestare, quindi, è una fetta eterogenea della società. Tale diversità, che potrebbe apparire come una debolezza in quanto è facile immaginare che diversi gruppi abbiano obiettivi e aspettative anche molto diversi tra loro, si è dimostrata finora una enorme ricchezza ed è stata esempio di gran civiltà e voglia di cambiare. Per quanto diversi tra loro, i manifestanti restano compatti sotto gli slogan “Tayyip dimettiti”, “spalla a spalla contro il fascismo” e “questo è solo l’inizio, avanti con la lotta”.
Foto di Massimo Maso
Persone differenti, allora… perché ci sono queste proteste? è solo per il parco Gezi o la protesta si è caricata di significati più ampi?
Dal mio punto di vista la protesta non è mai stata esclusivamente per Gezi Park. È stato spesso scritto che a scendere in piazza in un primo momento siano stati gli ambientalisti, definizione che trovo limitativa in quanto anche nel caso dei primissimi accorsi al parco martedì 28 maggio si tratta di persone che si battono da tempo non solo in difesa dell’ambiente naturale di Istanbul ma anche di quello architettonico-urbanistico. Sono persone che si oppongono a opere dal forte impatto ambientale quali il terzo ponte sul Bosforo, il quarto ponte sul Corno d’Oro, il tunnel ferroviario sotto il Bosforo, il terzo aeroporto della città e il delirante progetto di un nuovo varco marittimo tra il mar di Marmara e il mar Nero (in poche parole un secondo Bosforo), oltre alla cementificazione di Gezi Park che ha senza dubbio una portata minore rispetto a queste, ma anche a progetti architettonici che pur implicando minori conseguenze ambientali rischiano di trasformare brutalmente l’identità socio-economica e culturale del centro città, come la chiusura di cinema e teatri statali che cedono il posto al franchising di turno, la demolizione di palazzi e interi quartieri storici sulle cui rovine sorgeranno versioni posticce degli stessi che ospiteranno uffici e appartamenti di lusso, e la costruzione di una grande moschea nella tradizionalmente laica, multiculturale e multireligiosa Taksim.
Le migliaia che si sono riversate in piazza in seguito, sempre più numerose da venerdì 31 maggio in poi, sono per lo più persone estranee fino al giorno prima a molte tematiche ambientaliste e magari anche frequentatori abituali di centri commerciali – a tal proposito è significativa la campagna di boicottaggio “da oggi in poi niente più spesa nei centri commerciali” lanciata in questi giorni. Sono soprattutto persone che non si sono mai rispecchiate nel Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (AKP) che governa il paese da undici anni consecutivi, ma anche persone che ne hanno preso le distanze successivamente, in seguito alla deriva “autoritaria e paternalista con la quale l’AKP intende imporre al paese una cultura uniforme conservatrice e conformista”, come la definisce lo storico Erik-Jan Zürcher. Infine, ci sono anche persone che hanno sostenuto il governo fino a pochi giorni fa e che alla luce della gestione delle proteste rigettano ormai la leadership di Erdoğan.
A scatenare la rabbia di questi diversi gruppi sono stati principalmente due fattori: la violenza inaudita della polizia e le dichiarazioni tendenziose di Erdoğan mirate a minimizzare la portata degli eventi e a criminalizzarne i protagonisti, dichiarazioni dai toni sempre più ostili e infarcite di bugie.
Ma credo che l’elemento determinante nel far trovare a tutte queste persone il coraggio di scendere in strada mettendo anche in gioco la propria incolumità sia stata la massiccia presenza di forze di polizia con la quale i cittadini di Istanbul si sono ritrovati a dover convivere inaspettatamente negli ultimi tempi. In occasione dello scorso Primo maggio diversi quartieri della città hanno vissuto dinamiche simili a quelle degli ultimi giorni, seppur in scala minore, con attacchi della polizia contro cortei diretti a Taksim. Incidenti, feriti e fermi per la festa dei lavoratori non sono certo una novità in Turchia e, senza scomodare la memoria fino al tristemente noto Primo maggio 1977 (in cui trentaquattro manifestanti persero la vita in seguito a incidenti i cui responsabili non furono mai individuati), basti pensare alle cariche del 2007 e del 2008. La novità quest’anno è stata che dal 1 maggio in poi la polizia non ha più abbandonato le strade. Pullman, camionette e blindati si sono stabiliti in punti nevralgici della città come piazza Taksim e corso Istiklal, sfilando quasi ogni giorno in mezzo ai passanti in piccole parate improvvisate senza motivo, e intervenendo al minimo accenno di manifestazione politica. Per esempio il 5 maggio poche decine di persone radunatesi sul corso Istiklal per commemorare l’anniversario della morte del militante rivoluzionario Marxista-Leninista Deniz Geçmiş (condannato a morte e impiccato durante l’interregno militare del 1971-1973, il 6 maggio 1972), sono state attaccate con gas lacrimogeni che hanno inevitabilmente colpito anche turisti e locali di ogni età che si trovavano casualmente in zona in quel momento (la passeggiata domenicale, lo shopping, una pausa seduti ai tavoli di un caffè). Per tutto il mese di maggio è andato aumentando nella società il senso di repressione e di pericolo scaturito da questa imponente e ingiustificata presenza di forze dell’ordine, creando una miccia che è stata infine innescata dalle reazioni di Erdoğan e della polizia alle proteste pacifiche partite dal Gezi Park.
Come si sta comportando la polizia? Visti da fuori gli scontri sembrano molto violenti, ma allo stesso tempo ho letto che alcuni poliziotti si sono rifiutati di lavorare e di lanciare il gas urticante sui manifestanti, ti risulta?
Senza ombra di dubbio la polizia ha usato metodi eccessivi a Istanbul e sta continuando sulla stessa linea nelle altre città, lontano dall’occhio indiscreto delle telecamere che sono puntate quasi esclusivamente sul Gezi Park.
Foto di Massimo Maso
Esistono testimonianze di poliziotti che riferiscono di non condividere il pugno di ferro voluto dal governo contro i manifestanti, di aver prestato servizio per sessantasei ore consecutive, di non aver mangiato per quattro giorni, ma esistono anche testimonianze video di poliziotti che sparano lacrimogeni ad altezza uomo, che aprono il fuoco sulla folla, che si accaniscono con spray urticante e cannoni ad acqua contro singoli manifestanti in atteggiamento di resistenza passiva. Inoltre, lunedì 10 giugno il capo del sindacato della polizia Emniyet-Sen, Faruk Sezer (licenziato lo scorso aprile per aver fondato il primo sindacato della polizia nella storia del paese, violando in questo modo il divieto imposto alle forze dell’ordine di svolgere attività sindacali), ha reso noto che sei poliziotti si sarebbero tolti la vita dall’inizio delle proteste, notizia smentita qualche ora dopo dal dipartimento di polizia secondo il quale quattro poliziotti si sarebbero tolti la vita nelle ultime due settimane per motivi non riconducibili a ciò che sta avvenendo in piazza. Con il passare dei giorni diventa quindi sempre più evidente che i modi scelti per far fronte alle proteste hanno creato fratture anche all’interno del corpo; detto ciò, preso atto delle voci discordanti al suo interno, resta necessario che qualcuno si assuma le responsabilità dell’operato del corpo nel suo insieme.
Stai scrivendo una tesi di storia sulla satira turca degli anni Ottanta. La satira è all’opera anche in questo movimento che stai vivendo? Intendo sia in piazza (slogan, striscioni, ecc.) che sulla stampa. Esistono pubblicazioni clandestine? Come comunicate e come vi date gli appuntamenti?
Per fortuna non c’è ancora bisogno di pubblicazioni clandestine e gli appuntamento vengono dati sulle pagine Facebook e Twitter dei gruppi presenti nel parco e dell’associazione TGP. C’è poi la radio in diretta dal parco, GeziRadyo, che ricorda i vari appuntamenti della giornata. Insomma, avviene tutto alla luce del sole.
Non basterebbe un libro per offrire una panoramica completa della satira che è esplosa di pari passo con le proteste. A scatenare la propria fantasia in questi giorni non sono solo autori di satira scritta e vignettisti professionisti noti ai lettori di riviste di satira (tradizionalmente molto seguite in tutto il paese) e di quotidiani, ma anche, anzi soprattutto, i manifestanti stessi. La forma satirica più gettonata è quella delle scritte con le bombolette spray, che ormai ricoprono interamente le saracinesche dei negozi meno graditi (le multinazionali e le attività commerciali vicine a Erdoğan) e i pannelli che delimitano i molti cantieri presenti in zona.
In generale questa satira si prende gioco del potere e della polizia ma il protagonista indiscusso è senza dubbio lui, il premier. I disegni improvvisati e ancora di più gli slogan deridono Erdoğan e il modo in cui sta affrontando le proteste: vengono riprese e riadattate nei modi più fantasiosi le parole da lui pronunciate in questi giorni contro i manifestanti, in particolare la ormai famosa çapulcu, vandalo; vengono anche riportate sue vecchie dichiarazioni che mettono in evidenza le contraddizioni della sua leadership, come il fatto che ormai si stia comportando in modo sempre più simile ai capi dei regimi del Vicino Oriente e Nord Africa, da lui così violentemente condannati in passato.
Questa satira è anche carica di auto-ironia che da un lato cerca di sdrammatizzare la violenza subita per mano della polizia e dall’altro dimostra che questa non è bastata a intimorire i manifestanti. Parlano per tutti lo slogan “questo gas è proprio uno sballo, Tayyip” e il fatto che nel linguaggio della protesta non si parla più di andare al Gezi Park, bensì al “gas festival”.
Foto di Massimo Maso
Queste forme di espressione scritta e visiva sono tutt’altro che scontate. Infatti, mentre in un paese in cui vigono libertà di stampa e di espressione è normale mettere i leader politici nel mirino della satira, bisogna ricordare che in questi anni Erdoğan non ha esitato a troncare la carriera e far arrestare non solo giornalisti e accademici ma anche diversi vignettisti.
Foto di Massimo Maso
Valentina, ti ringrazio moltissimo per la tua testimonianza. Vogliamo prima di tutto esprimere a te e a tutti i manifestanti del Gezi Park la nostra solidarietà. Tra l’altro, ci sono diverse possibilità per dare un sostegno più aperto, come tu stessa mi hai detto: la cosa più semplice è quella di scrivere all’ambasciata turca in Italia o direttamente al governo turco esprimendo le nostre preoccupazioni per la violenza e i soprusi che i dimostranti di Gezi Park stanno subendo; ci sono varie associazioni che forniscono un modulo prestampato da completare e inviare, segnalo per tutti quello di Amnesty. Noi intanto faremo girare le notizie che ci hai mandato e cercheremo ancora di far conoscere quanto sta succedendo a Istanbul.
Maria Luisa Peraro dice
Intanto complimenti per il sito che è pieno di contenuti e bello esteticamente. Come molti di noi avevo molti preconcetti nei confronti dei turchi, probabilmente non sarei mai andata a Istanbul se Massimo e Giorgia non si fossero trasferiti a vivere là.
Ho scoperto una realtà inaspettata: oltre ad essere la bellissima città che sappiamo, i suoi abitanti sono molto gentili e ospitali (poliziotti compresi), quasi tutti parlano in inglese, ha un’intensa vita culturale e le sue librerie-caffetterie sono aperte fino a mezzanotte e oltre. Ed è pure straordinariamente tranquilla nonostante i circa 16 milioni di abitanti, non solo in centro, ma anche nella parte asiatica della città. Ho visto passeggiare ragazze molto “occidentali” insieme ad altre che preferiscono avere il foulard in testa senza problemi. Nonché concerti improvvisati per strada con gente che balla e canta insieme, senza dare fastidio a nessuno.
Non stupisce quello che sta succedendo, Massimo mi ha raccontato che all’interno di Gezi Park c’è un presidio medico, ci sono anche dei pompieri, ci sono pure degli informatici bravissimi che mantengono i contatti con il mondo nonostante il governo abbia oscurato più volte internet. Forse è la prima volta che una rivolta popolare ha un tale spazio mediatico e contemporaneamente è di tutta una città, non di poche fazioni.
Dove cittadini e stranieri si aiutano, infatti il mio amico va tutti i giorni a Gezi Park e ha portato degli impermeabili al presidio mentre diluviava. Se ne avete la possibilità andate a Istanbul anche adesso, anzi a maggior ragione così Erdogan dovrà passare a più miti consigli. E ci sono pure delle pasticcerie meravigliose come da noi non esistono più!
Scusate se sono stata un po’ prolissa …
Maria Luisa