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Cinquant’anni di Vajont. 2. Dove sta il Vajont?

12/02/2013

di Maurizio Reberschak

Pubblichiamo il secondo articolo di Maurizio Reberschak dedicato alle vittime del Vajont, in occasione del cinquantesimo anniversario. Per leggere il primo intervento introduttivo, cliccare qui.

Dove sta il Vajont?

Entrate in Google Earth e andate in volo digitando “Diga Vajont”: vi porterà proprio sulla diga. Dove? Se volete avere le idee un po’ più chiare, prendete la ricerca del luogo più da lontano. Non dico dall’immagine satellitare dell’Italia, ma quanto meno da quella del nord-est, precisamente le regioni Veneto e Friuli Venezia Giulia.

1. 

1. Il Vajont tra Veneto e Friuli (Google Earth)

Accertatevi che nei livelli di database principale sia attiva la visione dei “confini” e dei “nomi di luoghi locali”, e puntate alla demarcazione tra le province di Belluno e Pordenone, poco al di sotto del limite nord-occidentale di quest’ultima. Collocatevi tra Longarone in provincia di Belluno ed Erto e Casso in quella di Pordenone.

2.  

2. La valle del Vajont (Google Earth)

Centrando l’attenzione a metà strada tra i due luoghi, ecco una striscia scura proprio a ridosso del confine tra le due province, è la gola del Vajont. Sulla destra, in territorio pordenonese comincia ad apparire un arco grigio con la schiena a ovest e la pancia a est. Ci siamo: è proprio la diga del Vajont.

3. 

3. La diga del Vajont, sopra la frazione di Casso (Google Earth)

Volete arrivarci direttamente, in auto, in moto, in bicicletta? Due possibilità. La prima, da est nel versante veneto, si va a Longarone, si attraversa il ponte sul Piave all’altezza della Fiera, si imbocca la strada verso Codissago e si sale in direzione Erto; all’uscita della prima di una serie di gallerie la visione della diga – alta, incombente, ancora intatta – e della frana che ha riempito la valle e ha superato la diga di 150 metri in altezza.

4. 

4. La diga in visione frontale salendo da Longarone. Fonte: www.italiafilm.tv

La seconda, da ovest nel versante friulano, vicino al paese di Vajont – nuovo insediamento degli ertani sorto nel 1971 –, a Montereale Valcellina si imbocca la val Cellina, che si percorre costeggiando il torrente omonimo dalle splendide acque azzurre, per poi immettersi nell’ultimo tratto della val Cimoliana fino a Cimolais, quindi attraverso il passo di Sant’Osvaldo si perviene nella valle del Vajont, si supera Erto e il lago residuo del Vajont fino a trovarsi sul lato nord dello scoscendimento di frana e vedere il dorso superiore della diga affiorante dalla frana che riempie l’ex valle.

5. 

5. La diga vista di spalle con la frana a ridosso. Fonte: www.magicoveneto.it

La diga sta alla base del versante ovest del monte Toc, chiude la valle del torrente Vajont che scende dai 1900 m della sua sorgente posta al culmine di una stretta diramazione quasi all’estremo orientale nel versante sinistro. Un tempo, prima della costruzione della diga, il torrente attraversava tutta la valle che aveva scavato e che prendeva il nome proprio dal torrente stesso, per incanalarsi poi nella gola o forra del Vajont e immettersi nel fiume Piave: 14 km di percorrenza in tutto con un balzo di circa 1450 m di dislivello. 

Vajont, questa la grafia consueta – si può trovarlo scritto anche Vaiont, come fanno i puristi della lingua italiana e faceva la Società elettrica di elettricità (Sade), oppure Vayont, come fanno i patiti del dialetto locale –, vuol dire “vallone”, grande valle; per alcuni invece significherebbe “va giù”, con riferimento forse alla pareti scoscese, ai precipizi della parte finale, al ripido e impetuoso torrente.

La valle del Vajont

In varie guide turistiche o enciclopedie la parte terminale della valle del Vajont scavata dal torrente nel corso dei millenni viene descritta sinteticamente con sostantivi forti e colorati: gola, forra, spacco, orrido, sono i più comuni; a questi si aggiungono aggettivi altrettanto densi ed efficaci: stretta, profonda, vertiginosa, selvaggia, indefinibile, spettacolare, stupenda, pittoresca, bella.

6.            7. 

6. La gola del Vajont. Fonte: Maurizio Reberschak, Il Grande Vajont, Cierre, Sommacampagna (VR), 2008, p. 266.

7. La gola del Vajont con vista verso Longarone, oggi. Fonte: www.vajont.net

Così per esempio si esprimono le guide del Touring club italiano sul Veneto rispettivamente nelle edizioni del 1932 e del 1954, cioè prima che la diga ostruisse la parte finale della valle: «All’imbocco della Valle del Vajont si presenta un’orrida forra dalle pareti a picco di pietra stratificata, separate dal profondo spacco al cui fondo rumoreggia il torrente» (1932); «Si entra nella profonda gola del Vajont, una delle più belle delle Alpi, larga non molte decine di metri, ad altissime pareti, che si percorre a un centinaio di m sopra le acque» (1954). 

Dopo il disastro la descrizione rimane pressoché la stessa, tranne alcune piccole ma significative varianti di aggettivi: la gola segnata dal disastro non è più «profonda» bensì cambia in «stupenda», toccata dalla morte passa da «una delle più belle delle Alpi» a «una tra le più spettacolari forre delle Alpi», la strada dal percorso «sopra le acque» diventa «meno suggestiva della precedente»; sul turismo aleggia dunque l’ombra della catastrofe provocata dall’«apocalittica valanga d’acqua»; vi si aggiunge poi la visione della diga e della frana: «vertiginosa opera di sbarramento […] ora completamente inutilizzata», e «il desolante spettacolo dell’invaso privo d’acqua e per quasi due terzi riempito di materiale roccioso» (1969).

Una visione analitica della valle era stata scritta con stile dannunziano nel 1936 in un articolo del quotidiano di Venezia “il Gazzettino” (20 settembre 1936): «La spaccatura prodotta dal torrente orrido è di una bellezza indefinibile: il bello orrido, orrida e fascinante del pari. Le rupi si serrano, si accostano, sembrano schiere di fantasmi sfuggenti. Tu cammini per gallerie, scavate nel vivo della roccia; i tuoi passi, la tua voce hanno echi inaspettati, ed il sole che filtra a tratti disegna sui fianchi, alle basi ed in alto, mostri pallidi che cambiano linea e forma ad ogni istante fin che tu avanzi. Il Vajont è una di quelle stupende e tristi fenditure alpine che trasformano la valle costringendo le acque che muggono in una eterna bolgia cantante».

Una valle così non poteva non attrarre le mire di chi avrebbe potuto vederci una potenzialità economico-produttiva da sfruttare. E infatti un’impresa elettrica, la Sade, ne fece ripetutamente oggetto di attenzione, fino ad arrivare sin dalla fine degli anni ’20 del XX secolo alla redazione di progetti di una diga per la realizzazione di un bacino idroelettrico. Proprio per la Sade il geologo Giorgio Dal Piaz, professore dell’Università di Padova e consulente della società elettrica, fece la descrizione più spettacolare, forse la più pregnante, della chiusa della valle, redigendo una relazione geologica di accompagnamento del progetto di diga presentato dalla società elettrica il 22 giugno 1940, 12 giorni dopo l’entrata dell’Italia nella seconda guerra mondiale: «Fra gli abitanti della provincia di Belluno ed in generale fra i turisti della regione, la parte inferiore della valle del Vajont, che confluisce nel Piave di fronte a Longarone, viene citata quale esempio classico e suggestivo di profondissima gola che s’interna nei monti a guisa di gigantesca spaccatura […]. In questo punto la gola è così angusta e profonda da richiamare alla mente i classici cañon degli Stati Uniti. Anche qui, come nei cañon dell’America settentrionale, il fiume scorre in una profondissima fessura a forma di tortuoso corridoio, i cui fianchi si ergono a pareti verticali per considerevoli altezze».

8. 

8. La profondità della gola del Vajont, oggi. Fonte: www.quotazero.com

Dunque per l’illustre geologo fianchi belli e affascinanti, maestosi e sicuri, ideali per impiantarci una diga; peccato che non altrettanta attenzione fosse stata riservata al Monte Toc, sovrastante la valle sulla sponda sinistra, quello che sarebbe venuto giù il 9 ottobre 1963.

9. 

9. La parte terminale della gola del Vajont, oggi. Fonte: www.panoramio.com

Perché vedere il Vajont?

Perché vedere il Vajont, la diga, la frana, Longarone, Erto e Casso? Per curiosità? Per immergersi nel turismo della catastrofe? Tra primavera e autunno si organizzano gite guidate sulla diga e sulla frana, chi vuole ci vada pure. O per guardare l’arrivo di una tappa del giro ciclistico d’Italia che si è ricordato del Vajont per le celebrazioni cinquantenarie del 2013?

Ma il Vajont va visto e meditato in silenzio, con l’atteggiamento di chi vuole capire, comprendere, imparare. Nessun documento storico è più significativo di quello della visione diretta del Vajont; un documento che rafforza l’attualità di quanto diceva un grande storico francese, Marc Bloch: «comprendere il presente mediante il passato» e «comprendere il passato mediante il presente». Il Vajont insegna la storia più di ogni lezione, di ogni libro, di ogni trasmissione mediatica. Il Vajont parla e testimonia il rapporto tra uomo e natura, tra scienza e ambiente, tra sfruttamento e progresso. Il Vajont è storia, ma non storia solo del Vajont, bensì storia globale, perché dice e mostra la violenza umana sulle risorse naturali, il raggiungimento del risultato con ogni mezzo anche a costo della distruzione e della morte, la cecità del profitto a danno della vita.

10. 

10. La visione del Vajont dopo il disastro. Fonte: www.it.wikipedia.org

Ecco quanto ha detto l’Onu nel 2008 in occasione dell’«anno internazionale del pianeta terra»: «Il disastro del Vajont è un classico esempio delle conseguenze del fallimento di ingegneri e geologi nel comprendere la natura del problema che tentavano di risolvere». Il Vajont viene inserito tra i cinque casi più evidenti di disastri cosiddetti “naturali” negli ultimi decenni, le cui conseguenze avrebbero potuto essere evitate o limitate se non ci fossero stati errori di valutazione e interventi sbagliati o mancati da parte di scienziati e tecnici.

Quindi il Vajont come “problema mondiale”, non come piccola vicenda locale di un luogo sperduto in un limitato territorio italiano, come spesso si è cercato di ridurlo e limitarlo. Certo, anche problema almeno “italiano”, dal momento che il numero delle vittime è stato il maggiore causato da un disastro “naturale” nel XX secolo dopo i terremoti di Messina e Reggio Calabria del 1908 e di Avezzano del 1915; e anche perché dimostra le collusioni tra potere privato e potere pubblico, enti economici privati e istituzioni statali, che percorrono la storia d’Italia dal periodo fascista a quello repubblicano.

Vedere il Vajont… ma anche il cimitero di Fortogna

11. 

11. Il paese di Casso (foto Simonetta Simonetti, in Il Vajont dopo il Vajont. 1963-2000, a cura di Maurizio Reberschak, Ivo Mattozzi, Marsilio, Venezia 2009, foto n. 23 fuori testo).

Per avere un’immagine panoramica di cosa sia stato e di cosa sia il Vajont bisogna salire per la piccola e ripida strada che si imbocca proprio di fronte alla parte più alta dell’accumulo della frana e porta a Casso (950 m slm), e fermarsi nella piazzola davanti al primo edificio della frazione: di fronte sta il monte Toc, la cicatrice prodotta dalla ferita di frana su tutto il fianco del monte; sotto si domina l’accumulo della frana che ha riempito la valle, a destra quasi nascosta la parte sommitale della diga, quella che emerge dal riempimento di frana.

12. 

12.Il panorana del Monte Toc, della frana, della diga, da Casso. Fonte: www.sites.google.com

Casso non è stata stravolta dalle ricostruzioni urbanistiche post-disastro, è rimasta com’era, con qualche rimaneggiamento di risistemazione di alcuni edifici. Addentrarsi nelle viuzze di Casso significa respirare un altro mondo in un altro tempo: case di sassi strette l’una all’altra, alcuni tetti ancora di lastre di pietra, vie strette per il passaggio di persone e al massimo di carri.

13. 

13. Strade e case di Casso. Fonte: www.panoramio.com

Arrivati alla chiesa si ha la sensazione precisa della dimensione dell’onda sollevata dalla frana sull’acqua del bacino, che si alzò per 250 m e lambì la cuspide del campanile. Oltre il paese a ovest si arriva al piccolo cimitero, e anche da qui la visione del Toc e della frana è completa e impressionante.

14. 

14. La frana dal cimitero di Casso. Fonte: www.magicoveneto.it

Però non basta vedere il Toc, la diga, la frana. Bisogna scendere a Longarone, portarsi nella frazione di Fortogna per toccare il senso della morte: a Fortogna venne organizzato il primo campo di raccolta dei corpi o dei resti rintracciati delle vittime, poi lì sepolte a costituire il cimitero delle vittime del Vajont. Tra il 2003 e il 2004 il cimitero venne ristrutturato: ora una lunga teoria di blocchi di cippi squadrati sostituisce la precedente sequenza di croci. 1910 cippi, quanti i morti del Vajont; 1464 resti di corpi, solo 704 identificati.

15.                 16. 

15. Il cimitero delle vittime del Vajont a Fortogna fino al 2003. Fonte: it.wikipedia.org

16. Il cimitero di Fortogna dopo il 2004. Fonte: it.wikipedia.it

Luogo di memoria e di meditazione, dove la morte mostra le sue vite travolte, dove tutto parla di ribellione all’insipienza umana e di riscatto della vita per il futuro, dove il silenzio grida un basta allo sfruttamento insensato e paranoico sulla natura e sull’uomo.

Ma ancora non basta. Per capire come la vita è stata fatta continuare, è necessario andare nei paesi di “nuova costruzione”, Longarone ricostruita, Erto “nuova”, Vajont. La ricostruzione urbanistica dopo il disastro merita attente considerazioni, ma non è il caso di parlarne qui perché sarà opportuno dedicarvi specificamente alcune riflessioni un’altra volta. Ora è sufficiente solo proporre qualche immagine in parallelo e comparazione, per intuire come sia cambiato il tipo di vita quotidiana nelle case e nelle relazioni sociali di paesi come Longarone, che prima della catastrofe viveva di attività produttive commerciali, artigianali e industriali e conosceva un tessuto relazionale intenso intorno a queste qualità di vita.

17.                18. 

17. Le vecchie case della frazione Dogna di Longarone  (foto Carla Zandomenego)

18. La “teoria” delle case “bunker” progettate da Valeriano Pastor a Longarone (foto Simonetta Simonetti, in Il Vajont dopo il Vajont, cit., foto n. 17 fuori testo)

Erto, che si basava sui modi di vita della montagna con il lavoro contadino, lo sfruttamento dei boschi, la lavorazione della pietra.

19.                       20. 

19. Erto vecchia. Fonte: www.astigmatic.it

20. Sotto Erto “vecchia”, sopra Erto “nuova” (Google Earth)

E poi Vajont, “new town” riconosciuta come comune nel 1971, fatta sorgere dal nulla in località Giulio nella pianura friulana presso Maniago col criterio urbanistico realizzato su un progetto originale di Giuseppe Samonà degli agglomerati a blocchi squadrati e delle strade a incrocio, una «figura geometrica perfetta» secondo le intenzioni, attuata però in fase di esecuzione come un insediamento tipico dei luoghi senza storia, non per nulla denominato non più piano urbanistico ma di «fabbricazione». 

21. 

21. Il comune di Vajont (Google Earth)

Tutto parla, direttamente o per contrapposizioni, per ricordare che la memoria non può mai essere velata, rimossa, cancellata. Anche per il Vajont va riproposto il monito di Primo Levi per la shoah: «È avvenuto, quindi può accadere di nuovo».

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Archiviato in:La città invisibile, Maurizio Reberschak Contrassegnato con: anniversari, intervento, storiografia, Vajont

Interazioni del lettore

Commenti

  1. Filomena Camardo dice

    10/10/2021 alle 00:01

    Nel crollo della diga perde la vita il mio compagno dell’elementare, Riccardo Vanzi.Una tragedia immane,che si poteva evitare.Troppo poco tempo hai vissuto,Riccardino,chi ti conosceva,ti ha apprezzato tanto,ed io sono fra queste.

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