di Gigi Corazzol
“Eravamo a fantasticare di uno che tra cinque secoli scorresse le mie note a margine ad uno studio dedicato a quanti lessero (e annotarono) Erasmo cinque secoli fa. […] Come l’anonimo lettore di cinque secoli fa, sottolineo per empiti. Solo i passi che offrono una risposta a (miei) bisogni vitali. Sono interessato soltanto ad illazioni capaci di effetto pratico, in grado di trapassare immediatamente nella vita”.
Su gentile concessione dell’autore, offriamo qui di seguito alcune pagine di Per “Erasmo in Italia” ovvero come me la passo da pensionato. Vaudeville in otto quadri, dove Gigi Corazzol ha raccontato, sotto forma di lettera a un amico, una sua “lettura gratuita di resistenza”, ovvero Erasmo in Italia, di Silvana Seidel Menchi (Bollati Boringhieri, Torino 1987). Corazzol ci ha permesso anche di rendere disponibile il testo integrale, uscito per la prima volta nel 2010; lo presentiamo in una edizione elettronica riveduta e corretta; si scarica cliccando qui; a chi volesse stamparselo, consigliamo di impostare la stampante su “due pagine per foglio”.
Carissimo,
poiché spesso gli esempi riescono meglio delle parole, dopo aver cercato di confortarti quando ci siamo visti, ho deciso, ora che sei lontano, di scriverti una lettera di consolazione narrandoti le cose che mi sono nel frattempo capitate, affinché tu possa convincerti che le nostre vicissitudini di pubblici funzionari di livello medio-basso sono insignificanti (o lievi) e da sopportare con rassegnazione, il pensionamento specialissimamente.
Fine dicembre 2009. Crode lustre di tramontana come argenti la vigilia. Tre mesi fa ho fatto 64 anni. Tra un mese e mezzo esatto avrò l’età in cui mancò mio padre. Un po’ il freddo, quando, come in questi giorni di luce breve, fa freddo; un po’ che, quando è la stagione (breve da noi) che il sole picchia, soffro il caldo; aggiungi l’umidità, che qua in valle è spessa, continua, onnipotente come il tedio: per farla breve esco poco.
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Ma visto che da me vuoi sapere cosa faccio, non cosa non faccio, finiamola qui. Per gli studia humanitatis, se togli il pisolo, i mestieri di casa, il supermercato, un po’ di Listón, le capatine dal libraio e in pasticceria Garbujo in conto aggiornamento culturale, le meditazioni a base d’Ortrugo, mi restano giusto un paio d’ore. Me le riservo per il pomeriggio, dopo il pisolo e un’ispezioncina all’orto-giardino (100 metri quadri). Comincio a leggere verso le quattro per finire alle sei, massimo sei e mezza. Ho battezzato questo segmento della giornata l’angolo della lettura gratuita di resistenza. Non so dirti come mai abbia scelto di concentrarmi sui classici della storiografia. Mentre sono certo che mi diedi da subito la regola di leggerli al modo con cui leggo gli scrittori e i poeti. Cosa ho letto? Ho letto quasi tutta La caduta di Gibbon (in un paio d’anni). Sono arrivato in fondo, finalmente, a Bonvesin della Riva. Consigliartelo? Mah! Ho letto finalmente con tutta la calma che meritano la Civiltà, le Considerazioni e le Lezioni sulla storia contemporanea di Jacob Burckhardt. Con la Storia della politica estera italiana di Chabod ho passato un paio di mesi in uno stato di benessere prossimo all’esaltazione. Santo cielo! I principi elementari, la morfologia, meglio ancora l’abicì della politica in Italia (regno e repubblica). Una meraviglia. Mi capita sempre più spesso, ti dirò, di fantasticare come sarebbe la vita in uno stato diverso dal nostro, più piccolo del nostro. Stati ad afferenza libera, casa per casa, sulla base del puro sentimento. Di casa mia farei una dépendance laputana (demagnetizzata, si capisce). La costituzione? Un solo articolo. Assoluto divieto di assumere cariche a chi non dimostri di possedere una buona conoscenza della Storia della politica estera italiana di Federico Chabod. Ma lasciamo stare Swift, che è meglio.
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I libri li segno. Sottolineo, commento, annoto, ma con la massima cautela (matita n.°2), secondo l’imperativo del puro indispensabile, badando a conciliare l’esigenza di ritrovare i passi cruciali con la ripugnanza allo sfregio che una sottolineatura, una glossa, sia pur leggere, sono.
Per tutto il tempo in cui ho fatto esami non sapevo darmi pace di come gli studenti riuscissero a incorniciare nella grafite (più tardi furono pennarelli ed evidenziatori) tutte le righe di tutte le pagine. Fossero pur mazzi di fotocopie gualcite m’intristivo.
Addì 8 gennaio 2010, ore 17. Sono al punto cui Seidel Menchi elenca gli argomenti principali avanzati da Erasmo nella sua operetta De immensa Dei misericordia, Basilea 1524. Un argomento, una freccetta. Da qualche tempo in qua mi sono scoperto un certo qual penchant (peloso?) per la misericordia. Oggi che non quasi più occasione di esercitarmi mi interessa tutto della misericordia. Senti cosa leggo.
“La lettura (…) del trattato che abbiamo proposto qui segue in parte la traccia lasciataci da un anonimo lettore italiano con le sue sottolineature e i suoi segni marginali”.
Gesummaria! Capisci? Specchi di faccia a specchi, come nel negozio di barbiere di Corsico che frequentavo da ragazzo. La mia testa a rimpicciolirsi fino al niente. Chi è quello chino la testa sull’orlo della luce? Lui niente musica, si capisce. Se tra 480 anni a qualcuno capitasse in mano la mia copia di Erasmo in Italia, dovessero parergli incongrui alcuni segni, sarà bene che tenga presente questo dettaglio della musica a go-go. Leggo, che il signor mi castighi, piena la stanza di musica che non ascolto, musica per far diga ai rumori che in, questo condominio orizzontale annegato nel disurbio (villette), trapassano i vetrocamera a tutte le ore del giorno (decespugliatori, rasaerba dei sagrestani del prato inglese perpetuamente in moto, seghe elettriche, motorini smarmittati, apecross in allenamento, greatest hits di pupo, cani resi forsennati dall’arrivo del postino, eccetera). Adesso, per esempio sul baracchino va il secondo movimento della sinfonia numero 10, op. 93, di Shostakovich, un bell’allegro vivo. Bello?
Torniamo a noi. Eravamo a fantasticare di uno che tra cinque secoli scorresse le mie note a margine ad uno studio dedicato a quanti lessero (e annotarono) Erasmo cinque secoli fa. Le mises en abîme in confronto sono décor di barbieria. Come chiamarle allora? Convivenze, compresenze (di vivi e di morti)? Come l’anonimo lettore di cinque secoli anni, sottolineo per empiti. Solo i passi che offrono una risposta a (miei) bisogni vitali. Sono interessato soltanto ad illazioni capaci di effetto pratico, in grado di trapassare immediatamente nella vita. Questo modo di leggere da cannibali Seidel Menchi, caritatevolmente, lo definisce lettura topica. È il solo tipo di lettura di cui oramai sia capace. Conoscere i lettori di Erasmo ha significato per me essere scaraventato in un de te fabula narratur dei più spigolosi. Sale su sgarbellature annose che non vogliono cicatrizzare.
[…]
Autunno del 1987. Silvana Seidel Menchi? Seduto sul mio seggiolone in attesa del risotto, scorro la nota biografica del risvolto. Heidelberg, pensa te, “vive come studiosa privata a Heidelberg”. Studi a Firenze, Basilea, Monaco. Un percorso di rispetto, ma studiosa privata. No professora, mi infervorai, professora le belle fontanelle. Purtroppo non mi ricordo come mai fossi capitato su un libro tanto lontano dai miei interessi. Fa niente. Non ho mai letto secondo precisi piani. Ricavo dalle sottolineature che dapprincipio a prendermi furono la felicità degli incipit e degli explicit di questo o quel paragrafo, la compattezza del dettato, la sapienza della costruzione. Il libro mostrava in ogni dettaglio la tensione ad una scrittura giusta. Voleva essere, ed era, un’opera; non un conglomerato di informazioni in cui farsi largo con gli indici per machete. Non temere. Gli indici ci sono. Ma lascia che ti faccia un esempio delle meccaniche in gioco. Tu come ti regoli se caschi su una frase come “laicismo teologicamente amusicale”? È nell’introduzione, hai appena aperto il libro. L’aggettivo è sorprendente ma non gratuito. Ho pensato subito ad una citazione nascosta. Non sono riuscito a trovarla ma intanto fan vent’anni che cabalizzo. Bastano poche pagine e ti si fa lampante che anche un libro di storia può muovere da una domanda seria, da qualcosa di urgente, perfino drammatico (p. 16). Materia delicata per la quale occorre una tavolozza capace di “velature di affanno, <di> impennate di tensione”. Sai bene come abbia un debole per i libri costruiti da cima a fondo. Questo, mi dissi, non è roba che si legga per tenersi al corrente. Altro che correre. Qua bisogna fermarsi. Non ti sei mai interessato alla storia religiosa del ‘500? Peggio per te. Animo! O a furia di specializzarti mi sei diventato uno di quelli che guai ad aprire L’armata a cavallo senza aver sottomano la cronotassi dei movimenti del reparto di Budënnyj?
Ma come si fa, dirai tu, a dare retta ad un risvolto di copertina? Non si sa cosa sono i risvolti al giorno d’oggi? Non fissarti sul risvolto. Il risvolto è un dettaglio. Il nodo è la scrittura. Sei lì, insaccato nel seggiolone ormai già mezzo del risotto, e ti trovi ad andare avanti un capitolo via l’altro, a gonfie vele. La verità di quella voce, la gravità elegante ed affettuosa, la discrezione con cui l’intelligenza fa la spola con la pena, invita alla misericordia. E che tratto nel sostenere le proprie ragioni. Quale scintillante fermezza. La fermezza del sì che è sì e del no che è no. Grazie al quella speciale tavolozza il parasilenzio della sera mestrina si anima di presenze. Un miracolo. Vedessi le mie sottolineature di allora. I margini sono crivellati.
L’ironia, spiegano i manuali, consiste nel dire (con bel garbo) il contrario di ciò che si pensa. È una figura difficile. Funziona come il cielo di Lombardia. Nelle pagine di Seidel Menchi di ironia affidata agli degli strumenti classici (dissimulatio, simulatio, reflexio) ce n’è parecchia. Ma accanto a questa opera anche un’ironia non specialmente verbale. Essa si sprigiona dal contrasto tra la brevità perentoria di un enunciato e l’imponente ricerca ad esso sottesa. Nell’ammirazione d’allora, non nego di averci messo del mio. Sul finire degli anni ’70 mi ero buttato a corpo morto in un corso di galateo (per corrispondenza) intitolato “Da I fiori italiani libera nos”. Preso atto che, causa sistema educativo difettoso, gli italiani istruiti erano pieni di cattive abitudini, mi ero messo a farne un bilancio privato nella speranza di emendarmi almeno dalle pessime. Il perno dell’offerta formativa? I primi quattro libri, diciamo i sinottici, di Luigi Meneghello. Seguivo le istruzioni con lo stesso innocente abbandono con cui Kim il suo lama. Salvo l’essere, come brizzolato e in sovrappeso, un Kim sui generis. Il lama non ne sapeva niente. Stava in Inghilterra e badava ai fatti suoi.
Ricordo che circa a metà corso ero diventato specialmente severo coi professori di università. Mi sembrava inammissibile, ci credi?, che in università non fossero tutte belle persone, studiose, disinteressate, benevole. Mi infervoravo. Quel “vive come studiosa privata a Heidelberg” per me fu una manna, o, più realisticamente dati i miei gusti, un piovasco di bottarga sui vermicelli. Qualche recensore in quella notizia annusò una screziatura pirobalistica e se ne piccò. Lamentò nel libro la presenza di stonature; nelle “considerazioni metodologiche” percepì uno spiacevole retrogusto (“inflessione acida”). L’invito ad andare a farsi benedire-e-cittomosca (bonario solo nel tono) fu accompagnato da una aspersoriata di una delle acquesante allora più irrefutabili, i.e. il Gramsci-dal-carcere. (A scanso di equivoci la benedizione su Antonio Gramsci.)
Lasciamo perdere i critici. A me oggi non preme altro che rivangare alcuni punti un pochettino dolenti della mia vita. Cosa avevo sottolineato allora? Faccio presto a dirtelo. Lapis nero.
Il libro racconta di gente che leggeva. Uomini e donne che nei libri cercavano soprattutto qualcosa che li aiutasse a vivere. Nella mia vita si può dire che non abbia fatto altro. Leggiamo male, malissimo, è pacifico. Non di rado ci troviamo con piena la testa di “un confuso rigurgito di entusiasmi e fantasticherie” (p. 19). “Personalissime elucubrazioni”, va da sé, di quelle che il trio in cima al pero condanna senza appello. Qualche esempio?
Non sarebbe bello che in questioni di coscienza ognuno potesse regolarsi in piena libertà, senza tutele o supervisioni da parte di nessuno? Non sarebbe interessante ricomporre la pratica delle scienze, delle lettere e delle arti con il lavoro manuale, nel modo “informe e libertario” che fu del cenobitismo delle origini? In sintesi, a dirla mezza con Erasmo e mezza con Seidel Menchi, il libro pullula di persone che da e con Erasmo avevano imparato a rifiutare per quanto potevano tirannide, asservimento, lacci, vincoli, gioghi, oneri che aggravano, opprimono, intralciano, schiacciano e impastoiano il “cristiano e ne compromettono la libertà” (p. 113) Là dove Seidel Menchi scrive cristianesimo e cristiano io, da lettore stratopico, ateo e melomane, leggo vita e individuo, va da sé.
Artigiani, barcaioli, carbonai, fabbri, lattonieri, tornitori, sellai “protagonisti di una vita intellettuale intensa e a volte anche drammatica” (p. 13), gente per cui la libertà era l’esigenza numero uno (p. 116). Riesci ad immaginarti una compagnia migliore per quel famoso giorno che Fidelio ci porterà in comitiva nello himmlische Reich? Avvincente sino alla commozione l’esser testimoni de “l’itinerario di un’idea in una comunità civile” (p. 14); de “l’incidenza di una parola sull’esistenza quotidiana nella vita della gente”. Lascia che ti ripeta la frase (in realtà la ripeto per me): “L’itinerario di un’idea in una comunità civile”, “l’incidenza di una parola sull’esistenza quotidiana”.
Poi c’è la storia storia, la storia vera e propria. Nella ricezione cinquecentesca di Erasmo, Seidel Menchi individua tre periodi. Una prima fase (1515-1527) di diffusione e propaganda. Ad essa fece seguito una breve stagione organizzativa. Con la fine degli anni ’40 si dispiegò la repressione. Almeno tre le generazioni coinvolte. I destini personali furono molto vari. Il comasco Primo Conti (1499-1591) quelle fasi le visse tutte e tre. La sua devozione di gioventù per Erasmo in età matura dovette imparare il silenzio. Ma Conti non la tradì. Nel 1558, alla vigilia dei sessant’anni, non esitò a scrivere all’Inquisitore di Como una lettera in difesa di Erasmo, un “atto di indipendenza intellettuale e sfida ai tempi” (p. 277). Un silenzio che ha tutte le caratteristiche del dramma. Conti tacque fin quasi sulla soglia dei settantanni. A settantanni fu ordinato chierico e spedito in Valtellina a combattere gli eretici. Publio Francesco Spinola e Aonio Paleario non tacquero. Aonio fu arso (Roma, 1570). Lo Spinola finì affogato (Venezia, 1568). La mia attenzione si è concentrata sugli anni di ripiegamento. Gli anni in cui la massima “chi vol ruinar uno, li dia una querela di heresia” era diventata senso comune (p. 288). Un servitore si sfoga con una sguattera. Ce l’ha col padrone. Dice “un giorno lo voglio far bruciar”. Scherzava? Come mai leggiamo quel dialogo in un incartamento processuale? Come notò a suo tempo quel bravo recensore, il libro di Seidel Menchi offre una “miriade di fatti”. Un complimento? Facciamo mezzo. Miriade suggerisce quisquilie. Saprà lui perché gli sono parse tali. Qui quisquilie non ce n’è. Sono storie che si leggono con emozione. Non sono i fatti a dare sazietà. È sempre, e solo, il modo con cui li racconti. Ricordo benissimo l’allegria che mi prese nel veder sbrigato in un amen l’ultracentenario dilemma se sia preferibile che lo storico narri o argomenti. In quegli anni, grazie ad un libro di Hayden White ed ad una certa sazietà di tabelle insulse, il dilemma era tornato a galla fresco e lustro; ma in fin dei conti era sempre la vecchia buona quaestio napoletana se la storia sia scienza o arte. Vengo a sapere da un amico versato in linguistica che si può benissimo argomentare narrando. Perfino scrivendo versi. Basta volere.
Alessandro C. dice
Grazie! Grazie a chi lo ha scritto e a chi mi ha consentito di leggerlo.