di Maria Giovanna Lazzarin
Spostamenti in città che diventano esplorazioni: dopo le note a piedi di Claudio Pasqual, ecco Maria Giovanna Lazzarin che osserva pedalando. Le difficoltà di un ciclista a Mestre, l’assurdo tracciato delle piste ciclabili, l’ostacolo del tram. Graffiti, usi imprevisti di spazi urbani, nuovi abitanti, parchi e boschi cittadini, ricordi di campagna in città. Ritrovare il quartiere in cui si è abitato per anni: cose rimaste e cose che sono cambiate. La prima immagine che illustra l’articolo è tratta dal blog “Capasoblog”, le altre due foto sono dell’autrice.
Lunedì 1 ottobre 2012, ore 10
Le piste ciclabili mestrine sono come un grande domino: inizi una pista in via Cappuccina e a un certo punto la pista sparisce… anzi no, non sparisce, se ti guardi intorno scopri che prosegue ad angolo retto in via Fusinato per posizionarsi nella parallela via Dante. E se uno deve andare alle scuole di via Cappuccina, che stanno più avanti? Deve imboccare dopo un po’ la via Cavallotti che si pone di traverso tra via Dante e via Cappuccina e tornare indietro. Le deviazioni mi hanno sempre irritato, così proseguo più lentamente sul marciapiede di via Cappuccina attirandomi le ire dei passanti.
Sono le dieci del mattino e la lentezza permette di osservare: davanti al cancello di ingresso della scuola media (ora istituto secondario di primo grado) “Giulio Cesare” sono ferme due persone in attesa di entrare, entrambe giovani, probabilmente genitori. Lei mi fa andare subito con la mente alla Madonna di Antonello da Messina, lo stesso azzurro del manto che le copre la testa lasciando però scoperti solo gli occhi e che riprende il colore della veste lunga fino ai piedi; lui – un marocchino credo – jeans e maglietta a righe da film americano. Dei due lei potrebbe spostarsi senza imbarazzo nel tempo, lui nello spazio.
Mercoledì 3 ottobre 2012, ore 16
Ieri mattina in piazza Barche, tra il negozio alla Campana e la Cassa di Risparmio di Bolzano, è saltato uno dei cavi elettrici di alimentazione del tram. Così oggi posso fare tutta la via San Donà in bicicletta senza voltarmi indietro o guardare a ogni fermata tra quanti minuti passerà il tram, perché tutte le vetture sono ferme finché non avranno finito di fare i controlli.
È il primo giorno del doposcuola e devo essere alle 16,45 al patronato della Cipressina, dall’altra parte della città. Il tragitto non mi piace perché tutto in strada, tranne brevi tratti di pista ciclabile come quella che porta al cimitero urbano di Mestre e, in prossimità dell’ingresso, improvvisamente prosegue dall’altra parte della strada.
Ogni volta arrivata a quel punto mi chiedo: mi sposto anch’io? Ma attraversare la strada è sempre un rischio, quindi proseguo sulla destra. Costeggio il cimitero, mi infilo sotto il cavalcavia che porta al Terraglio e sbuco nel quartiere San Paolo. Lì prendo in contromano una parallela alla via principale del quartiere, troppo trafficata, svolto a destra, faccio ancora un breve tratto su strada e finalmente, giunta al semaforo dei Quattro Cantoni, sono salva. Il percorso successivo, sulla Castellana, è tutto in pista ciclabile.
Scendo nel sottopasso colorato dai murales del liceo artistico, risalgo, arrivo alla chiesa San Lorenzo Giustiniani e vado oltre cercando di stare attenta, perché sono le 16,30, alla mia sinistra stanno uscendo di corsa i bambini della scuola elementare Farina delle suore di Santa Dorotea e le macchine, tante, fanno manovra per parcheggiare o andarsene.
Alla mia destra, sul marciapiede opposto che circonda il patronato della Cipressina, sta camminando un gruppo di donne, quattro o cinque, con bambini di diverse età. Hanno vestiti lunghi, coloratissimi, eleganti, scialli leggeri, ricamati con perline luccicanti, a coprire il capo, procedono lentamente parlando tra loro. Dove staranno andando?
Le supero e arrivo davanti alla porta secondaria del patronato, chiudo la bicicletta con lo scrocco e la catena e noto che si stanno avvicinando. Lo scialle è un chador, potrebbero essere del Bangladesh, so che c’è una comunità numerosa alla Cipressina. Mentre faccio le scale per andare al doposcuola al primo piano sento le loro voci, straniere, risalire.
Come ho potuto non capire? Sono le mamme degli alunni che vengono al primo giorno di doposcuola per presentarli.
Il murales del sottopasso ai Quattro Cantoni è stato inaugurato il 3 ottobre 2009. È lungo 450 metri. È stato realizzato nell'agosto 2009 da sedici studenti del liceo artistico di Venezia e tre ospiti della casa dell'Ospitalità, affiancati dall'insegnante coordinatore del progetto, Maurizio Favaretto. Nella foto – tratta dal sito http://capasoblog.blogspot.it – è rappresentato un prato in cui molte persone leggono, ma nei pannelli si possono anche vedere la laguna di Venezia, una band musicale, tigri, bambù, cascate, le due alte torri che dovrebbero sorgere al posto del vecchio ospedale di Mestre.
sabato 6 ottobre 2012, ore 9,50
Galli e galline
Il tram è ancora fermo, per almeno un mese ci sarà il servizio d’autobus sostitutivo. Preferisco comunque, giunta da Favaro alla rotonda della SS 14 bis, lasciare la via San Donà ed entrare in via Buozzi, che è senza uscita e serve solo i residenti. Superata la scuola d’infanzia, seguo la curva della via e quasi investo due galline e un gallo che passeggiano tranquilli sulla strada. Non sono molto grandi, ma hanno una livrea colorata di giallo, ocra e rosso. A loro si unisce un pulcino grigio ormai cresciuto.
Gli abitanti per più anni hanno scritto lettere e protestato in Comune per cacciare questi pennuti dalla loro via. Il problema è il gallo, che canta al sorgere del sole. Circa tre anni fa – l’ho visto con i miei occhi, ma non son sicura della data – un “accalappia-galline” comunale ha tentato di prenderli con una specie di rete. Inutilmente. Era opinione diffusa che li allevassero i sinti del campo lì vicino, ma dalla fine del 2009 i sinti sono stati spostati nel nuovo campo costruito dal Comune in via del granturco mentre galli e galline sono ancora al loro posto. Solo le proteste ultimamente sembrano cessate.
Costeggio il prato dove vivono dormendo di notte sopra gli alberi e nascondendosi tra i cespugli e salgo sul marciapiede che divide le case dell’Ater da quelle della cooperativa Acquedotto finite di costruire nel 1983.
Miraggi
Alla fine del marciapiede c’è ancora un piccolo pezzo di strada interna, l’attraversamento della via Casona e finalmente mi trovo sul sentiero di un bosco che, se non fosse per i carpini e la mancanza di dislivello, potrebbe somigliare a quelli dove andavo a passeggiare a Belluno quand’ero giovane. L’illusione è forte, ma dura solo cento metri. Poi sbuco nel parco Albanese. Sono le 10 di mattino di un tiepido sabato d’autunno. Lungo i vialetti incrocio nonni e nonne a passeggio con i nipoti e corridori che si allenano, credo, per la maratona del 28.
Trasformazioni
Ho fretta, perché alle 10 avrei già dovuto essere in via Bembo, una laterale di via Cappuccina, invece arriverò con un quarto d’ora di ritardo.
Da quando me ne sono andata da via Bembo, nel 2001, la zona intorno a via Cappuccina si è lentamente trasformata suddividendosi in partes tres: la parte più vicina alla stazione è diventata, per noi vecchi abitanti, sempre più straniera nei linguaggi, nelle facce, nei bar, nei negozi; la parte opposta, verso la chiesa dei Cappuccini, è scandita, nei flussi e raggruppamenti di varia umanità, dalle due mense dei poveri, quella che apre alle 11 nella laterale via Costa e quella della vicina Ca’ Letizia, in via Querini, che apre alle 19. Ma la zona centrale, da via Bembo a via Paruta, non ha avuto grandi trasformazioni. I fornai, la ferramenta, il tabacchino, il negozio di parrucchiere, la pasticceria sono rimasti gli stessi, solo gli alunni e i genitori della scuola elementare (primaria) e media (secondaria di primo grado) si sono diversificati.
Così quando alle 10,15 imbocco la pista ciclabile della via Bembo, sono un po’ orgogliosa della mia vecchia via. Rassicura vedere che ha mantenuto la sua impronta: la chiesa a scivolo, il palazzo ocra con le terrazze arrotondate, i campi da calcio del patronato. Con la coda dell’occhio noto che sulla pista ciclabile sta camminando un uomo un po’ tarchiato, ingobbito, con un marsupio intorno alla vita e un sacchettino in mano. Ha lo sguardo rivolto a terra, ma improvvisamente mi urla:
“Brutta troia, mi te sbrego!”
Tento di spiegargli che è lui sulla pista ciclabile dove non dovrebbe essere.
“Brutta stronza, mi te masso!”
A questo punto sono presa dalla paura; per fortuna il cancello dove devo entrare è vicino, lo apro e chiudo velocemente, appoggio la bicicletta e di corsa vado a suonare il campanello del portone d’ingresso. L’uomo è davanti al cancello, che non è chiuso a chiave, e continua a inveire contro di me. Per fortuna il portone si apre e salgo all’appartamento dove adesso abitano tre studentesse-lavoratrici.
Chiedo a Giusi, una di loro, di poter guardare un attimo dalla finestra. Temo infatti che, non potendo prendersela con me, l’ossesso se la sia presa con la mia bicicletta. Invece è tutto tranquillo e lui non c’è più. Ancora agitata, racconto a Giusi quel che mi è successo e lei scoppia a ridere: “Stai tranquilla, quello gira spesso da queste parti urlando, ma non ti guarda negli occhi, non sta parlando a te, non fa niente, sta parlando a una persona immaginaria che ha in mente lui. Al lavoro vedo anche di peggio”.
Giusi lavora part-time al Billa del corso del Popolo.
Sorprese
Alle 11,15 sono di ritorno a Favaro. Attraverso la via Tevere ed entro in quella che è la zona meno naturale di tutto il parco Abanese: una vasta spianata di cemento, che dovrebbe far pensare a una piazza ed era stata progettata per un mercato, mai realizzato, su cui affaccia un edificio alto e stretto, pure in cemento, che doveva essere un ristorante, mai aperto. Per contornare la spianata sono state pensate delle trabeazioni in cemento che, lungo il mancato ristorante, sfilano a cielo aperto, mentre sull’altro lato sostengono un ballatoio a cui si accede da larghe scalinate. I ragazzi hanno avuto pena di tanto grigiume e hanno cercato di ravvivarlo con graffiti per lo più geometrici o stranamente figurati come questo.
Ciò che accomuna i graffiti è il tipo di colori scelti: colori freddi – azzurri, blu, verdi – o neutri come il bianco e il nero. Ma oggi, mentre passo per questa galleria di colonne e graffiti, ne vedo uno nuovo che mi colpisce l’occhio per i colori caldi, e per il tipo di immagine, che somiglia a Shiva, una divinità della trimurti indiana insieme benevola e distruttrice.
Mi fermo a guardarlo meglio, in bici si può, e leggo la dedica: a nonna Jolanda e a Juri -Curdo- 514. Si intuisce una storia che viene da lontano, parla di destino, tragedie e riconoscenza.