di Marco Fincardi
Per festeggiare il Primo maggio 2012, presentiamo su gentile concessione dell’autore alcuni brani di due capitoli del bel libro del nostro amico Marco Fincardi: Primo maggio reggiano. Il formarsi della tradizione rossa emiliana, introduzione di Cesare Bermani, Edizioni delle Camere del Lavoro di Reggio e Guastalla, Reggio Emilia 1990 (2 volumi). L’anno di uscita non deve essere stato casuale: a cento anni dal primo Primo maggio, festeggiato (e combattuto) nel 1890. Il libro ci rimanda alle origini di una lunga tradizione, osservata in un luogo specifico: ricostruisce i modi, le canzoni e i riti con cui gli individui «si fecero sentire» nel Reggiano – ma all’interno di una dimensione nazionale e internazionale – fin dal Primo Maggio del 1890, lasciando in eredità un repertorio di simboli e di modalità espressive.
I capitoli che presentiamo sono l’ottavo, sulla colonna sonora del maggio reggiano, e il tredicesimo, sui significati e le simbologie che si concentrano sulla data e sulle modalità di svolgimento della festa.
Inno fuorilegge
Dalla rivoluzione del 1859, la creatività musicale aveva ricevuto un enorme stimolo dalla necessità di produrre un nuovo repertorio politico: marce, inni, arie patriottiche. Gli anni sessanta dell’ottocento rappresentano un periodo di eccezionale vitalità per i corpi filarmonici dei paesi padani. Particolarmente popolare era stato l’Inno di Garibaldi. Veniva eseguito in tutte le dimostrazioni democratiche e nelle adunanze festive delle Società operaie; la sua mancata esecuzione da parte della banda cittadina, per divieti dell’autorità, nel corso di festeggiamenti popolari, a Guastalla e Luzzara aveva più volte dato occasione a violente proteste. Ancora nell’ultimo decennio dell’ottocento, l’Inno di Garibaldi è il più popolare inno politico. Nei raduni politici non ufficiali rallegrati dalla musica, è senza dubbio eseguito più frequentemente della Marcia reale.
Il diffondersi del movimento socialista – dagli anni ottanta – pone il problema di un aggiornamento dell’ormai tradizionale repertorio politico. Le organizzazioni di ispirazione socialista si appropriano naturalmente del bagaglio musicale democratico-patriottico dei decenni precedenti, ma sentono inevitabilmente il bisogno di distinguere le proprie espressioni ed emozioni da quelle della democrazia borghese.
E difficilmente un centro di propulsione della cultura socialista come Reggio avrebbe potuto rimanere silenzioso mentre altrove si iniziava ad elaborare uno specifico repertorio musicale del movimento operaio. Ancora negli anni sessanta del novecento, i ricercatori dell’Istituto Ernesto De Martino hanno trovato ben viva la creatività musicale del movimento operaio reggiano. […]
La larga diffusione di un canto prettamente socialista nel Reggiano si ha con l’Inno dei lavoratori, scritto da Filippo Turati nel 1886. È possibile datare in modo preciso questa diffusione, dati gli entusiasmi e i «casi» politici che provocò. […]
Nelle dimostrazioni del 1° Maggio 1890 e 1891 – in città e in provincia – non è suonato né cantato l’inno composto da Turati. Benché fin dal suo esordio nel 1886 sia stato stampato in un’edizione reggiana, tra i lavoratori reggiani questo canto si diffonde nella primavera del 1892. E subito il suo testo e le sue note assumono una valenza polemica eccezionale, nel clima generale di tensione politica e di limitazione delle libertà civili. […]
Effettivamente, a Reggio, quel canto sta diventando uno degli elementi più caratterizzanti l’attesa della dimostrazione internazionale del 1892. Si parla di farlo risuonare in tutta Italia, il 1° Maggio; e, in particolare, a Reggio lo si vorrebbe intonare a chiusura della progettata conferenza dell’operaista Cabrini, sul tema: Dall’utopia alla scienza. Ma il fatto che qualche operaio canti una canzone in una domenica di maggio [nel 1892 il Primo cadeva di domenica] non è in sé notevole, non desta sensazione. Perché l’effetto sia veramente solenne occorre che i lavoratori si fondano in un’unica massa, cantando tutti, per produrre in qualche modo la suggestione dell’essere uniti, che non possono dare con i cortei, proibiti. È questo che con fervore si sta preparando.
La Giustizia [il giornale diretto dal leader socialista reggiano Camillo Prampolini] nelle ultime settimane di aprile invita tutti i lettori “ad imparare l’inno dei lavoratori ed a diffonderlo in tutti i comuni e i villaggi della provincia”. Pubblicizza a questo scopo il foglio riccamente decorato con testo e spartito del Canto dei lavoratori, stampato a Milano, venduto a Reggio a cinque centesimi la copia, oppure a quattro lire per ordinazioni di un centinaio di copie. Incoraggia caldamente i simpatizzanti a recarsi alla sede della Lega socialista trasformata in una scuola di canto, dove per tutto aprile dalle otto alle dieci di sera, “possono intervenire tutti i nostri compagni tanto di città che di provincia, purché conosciuti o presentati da un socio”. […]
Il fenomeno – per quanto non faccia tremare i borghesi – preoccupa invece parecchio la polizia, sempre mobilitata in sottili provocazioni e per impedire che il 1° Maggio si conquisti una dimensione pubblica. [L]e serate della scuola di canto si concludono con sortite dei partecipanti sulla pubblica via, al canto di un inno socialista: per chiunque – non solo per i questurini messi là davanti a spiare – quella è una delle dimostrazioni politiche, che tanto l’autorità si affanna a vietare.
Quando dalle autorità nazionali parte il segnale per colpire la diffusione del canto annunciante il Sol dell’Avvenir, la questura reggiana si prepara a mettere fine alle inquietanti attività canore. Proibire un canto che da sei anni circola senza restrizioni non è facile. La regia procura di Milano si limita così a sequestrare millenovecento copie del foglio con su stampato l’inno – tutte quelle che riesce a bloccare prima della diffusione – prendendo a pretesto presunte irregolarità legali della Società operai tipografi che lo aveva stampato. A Reggio, invece, si reprime apertamente il canto sovversivo. […]
La Lega socialista operaia di Reggio non sospende la scuola di canto dopo il sequestro di Milano, perché Turati stesso ha assicurato a Prampolini che il provvedimento restrittivo riguarda la pubblicazione, senza proibirne il canto. Ma dalla questura viene mandata in appostamento una squadra ad attendere l’uscita dei cantori. Alle dieci di sera, uscita cantando come al solito dalla Lega socialista, una numerosa comitiva è seguita dai poliziotti. Accortisi d’essere tallonati, nelle poche centinaia di metri che separano la piazza grande dalla piazza dei teatri, gli operai intonano con intento ironico l’Inno del duca. Voci sovversive che cantando l’elogio dell’assolutismo monarchico estense – defunto tra la soddisfazione generale da oltre trent’anni – sono una canzonatura bruciante per gli uomini della regia questura. Ma ugualmente questi non desistono dal pedinamento. Giunto nello spazio aperto in vista dei giardini – tra il teatro municipale e il caffè Cavalieri – il coro riprende le strofe di Turati, innescando l’inaspettata reazione di guardie e delegati, che si lanciano su di loro, fermandone alcuni e notificando il divieto dei canti notturni sulla pubblica via. Non c’è resistenza. In cinque vengono tradotti in questura. Sono giovani di età variabile dai trentatre ai sedici anni, socialisti e anarchici. Due, giovanissimi, sono tipografi; gli altri: uno scrivano, un barbiere e un mediatore. Uno stuolo di amici e curiosi segue in corteo gli arrestati, protestando pacificamente. Vi fanno spicco i parlamentari Maffei e Prampolini, che chiedono un immediato colloquio col prefetto, sperando inutilmente di ottenere il rilascio degli arrestati. […]
Anche il motivetto più innocente può diventare una sfida all’ordine costituito. Un secolo più tardi, nel Viadanese, le donne che nel 1983 picchettano gli argini dell’Oglio per impedire la costruzione di una centrale nucleare, cantano Quel mazzolin di fiori, prima di venire caricate dalla celere. Non furono denunciate per quello; ma un pretore qualunque trovò ugualmente il motivo per fare eseguire nove arresti e cinquantadue denunce. Non ci può essere dubbio: un coro può facilmente diventare una minaccia all’ordine, per il solo fatto di essere un’adunanza di individui uniti da qualcosa, che si fanno sentire, pur senza danneggiare gli interessi o i diritti di nessuno.
Nel 1892 l’Inno dei lavoratori può diventare un mito sovversivo, nella provincia reggiana – agli occhi dei borghesi in un senso, dei proletari con un altro senso – mentre in tante altre parti d’Italia lo si canta tranquillamente. La riconferma della condanna nel processo d’appello poco dopo a Modena, e i nuovi numerosi arresti nella bassa – a Santa Vittoria e Villarotta – sempre per aver cantato il motivetto proibito, rappresentano l’aspetto più appariscente della caccia alle streghe scatenata dal prefetto Alfazio nella provincia italiana dove più il movimento socialista si sta dotando di strutture organizzative su cui crescere tra i lavoratori. […]
Visti i successi politici riscossi con un inno che ancora per vari anni non si potrà intonare nella provincia, i socialisti reggiani progettano per il 1° Maggio del 1893 di ideare una propria canzone che non cada sotto la censura della questura. Si conta di poterla sentire “cantata in tempo di marcia, solennemente, da molte persone” nel corso della dimostrazione, che si spera di poter attuare con una certa libertà data la caduta del governo crispino. L’uso ironico dell’Inno del duca non è riproponibile, avendo già portato male ad alcuni lavoratori. Si mira più all’effetto della novità di un nuovo canto, che ad esprimere complessi contenuti di lotta di classe: “poche strofe, tre o quattro, facili, piane, popolarissime, che inneggiassero all’immancabile vittoria del socialismo”. Gli incitamenti all’unione sono già contenuti nell’inno di Turati. La cosa originale è l’espediente formale a cui si ricorre per far ingoiare meglio la pillola all’autorità di polizia: si sceglie un motivetto popolare, già familiare alla gente, perciò poco inquietante. Si bandisce pertanto una specie di concorso sulla Giustizia, decidendo che il titolo del canto è Inno del Primo Maggio, e basterà che i lettori del giornale propongano un testo, perché la musica c’è già: l’aria napoletana composta nel 1880 di Funiculì, funicolà: “Ci sembra molto più grandiosa, imponente, terribile, di quella della Marsigliese”. Per i poliziotti di Giolitti, correre dietro a chi canta Funicolì, funicolà, vorrebbe dire dedicarsi ad un’impresa degna di un poema eroicomico.
[…] Preparato all’ultimo momento e per la proibizione di qualunque manifestazione pubblica, il canto non ha successo eclatante, né la sua diffusione crea un caso politico come l’anno precedente quello di Turati. In tanti però lo imparano e intanto allungano il proprio repertorio di canti ribelli. L’inno con musica napoletana non viene adeguatamente sfruttato per lanciare provocazioni alla polizia: diventa solo una canzone in più imparata dai socialisti. Nel 1° Maggio 1893 si è costretti a cantarlo al chiuso nei locali della Lega socialista. Successivamente, l’Inno del Primo Maggio si è diffuso tra il movimento socialista padano, venendo attribuito dalla voce popolare a Prampolini e talvolta a [Antonio] Vergnanini [altro leader del movimento operaio reggiano]. Viene cantato per la prima volta all’aperto – tra migliaia di persone – all’inaugurazione della casa del popolo di Massenzatico nel settembre del 1893. […]
A Gualtieri, in occasione del 1° Maggio 1896 e 1897, durante solenni riunioni con i militanti dei comuni limitrofi delle due sponde del Po, viene cantata la Marsigliese dei lavoratori, scritta nel 1881 dall’anarchico (poi socialista) veneto Carlo Monticelli e musicata dal socialista gualtierese Guglielmo Vecchi che istruiva la banda locale. Ma il momento più entusiasmante di questa adunate al chiuso resta quando centinaia di voci intonano l’inno dei lavoratori, il nostro inno sequestrato, l’inno sacro del lavoro. […]
Dopo la prima guerra mondiale, in un periodo che musicalmente sta recando un enorme apporto quantitativo e qualitativo di innovazioni al tradizionale repertorio canoro, La Giustizia presta occasionalmente attenzione a come le suggestioni dei recenti eventi storici abbiano influenzato le canzoni circolanti per Reggio. In tutta la provincia, dopo la guerra, ha molto successo l’inno Bandiera rossa cantato soprattutto il 1° Maggio. E (solo per quel periodo ho trovato testimonianze scritte nei giornali del suo canto a Reggio) anche l’Internazionale. Ma il movimento operaio reggiano manca allora di un’inventiva adeguata alla situazione; e paiono sostanzialmente fondate le critiche, che da numerose parti giungono all’associazionismo proletario, di non avere più aggiornato un repertorio di canti politici.
(Tratto da: Marco Fincardi, Primo Maggio reggiano cit., capitolo VIII, Inno fuorilegge, pp. 191-207; abbiamo omesso le note.)
***
Segnali di festa
Per la centralità che assume nella loro mitologia, i lavoratori solennizzano scrupolosamente la data del 1° Maggio. Tuttavia le grandi dimostrazioni pubbliche del 1° Maggio nel Reggiano sono un fenomeno tutto appartenente al XX secolo. Solo sporadicamente – talvolta nei paesi più piccoli – la polizia autorizza raduni di lavoratori. I concentramenti di bandiere, le sfilate di lavoratori raggruppati per organizzazioni locali o di mestieri, l’ostentazione di simboli politici personali in una folla che esterna la stessa fede, avvengono però in più occasioni, e una discreta parte di proletariato ne ha già sperimentate le emozioni. Anche nel più assoluto divieto di fare cortei e comizi il 1° Maggio, il movimento operaio produce ed esibisce simboli di festa e di provocazione, esteriorizza propositi umanitari e bellicosi.
Il Palazzo Ariosto viene parato a festa il 1° Maggio del 1892 e del 1893. La prassi di imbandierare di giorno e di illuminare di notte i palazzi in occasione delle feste politiche è una tradizione cittadina ben viva nel XIX secolo e anche precedentemente. Attraverso le decorazioni festive della propria sede, i socialisti reggiani cercano ora di lanciare messaggi politici che sintetizzino in modo elementare gli obiettivi politici e l’ideologia del proprio movimento. Resi leggibili durante la giornata e durante la notte, questi slogan danno il senso della sfida al resto della città, che finge di ostentare indifferenza per la festa operaia proibita:
“Nessuno che non fosse passato per piazza V.E. si sarebbe accorto della così detta festa operaia. In piazza alle finestre del primo piano del Palazzo Ariosto erano esposte delle bandiere rosse e nere. Là, come tutti sanno, ha sede la lega socialista. Le cinque finestre erano chiuse da tele con le iscrizioni, che riproduciamo:
Lavoratori di tutti i paesi / Unitevi. / Uniti / Sarete i padroni / Del mondo.
La redenzione / Dei lavoratori / Non può essere opera / Che dei lavoratori/ Stessi.
1° Maggio / Chi non vuole lavorare / Non deve mangiare. / Nessun diritto senza dovere / Nessun dovere senza diritto.
Donne / Unitevi a noi / Nella lotta / Di Redenzione comune.
I Lavoratori / Sono tutti fratelli. / Uno per tutti / E tutti per uno.
Alla sera dietro queste finestre furono messi i lumi” (L’Italia centrale, 2 maggio 1892).
Come a Reggio, anche in altri centri della provincia alcune associazioni operaie espongono la propria bandiera fuori della sede.
Già dal 1890, la principale indicazione del 1° Maggio, nelle strade, è l’esibizione delle cravatte rosse, da parte dei dimostranti, costretti dai poliziotti a passeggiare solo in ordine sparso per la città:
“Molti, e per la maggior parte giovinetti dai 12 ai 15 anni, festeggiarono la giornata del 1° Maggio indossando le cravatte rosse che si vendevano a due soldi l’una in piazza V.E.” (L’Italia centrale, 2 maggio 1890).
Nel festino da ballo tenuto la sera nella casa di campagna di Prampolini, a Massenzatico, vengono venduti altri cinquecento cravattini. Il cravattino rosso diventa il surrogato della bandiera, che è vietato portare per le strade. Ma la sua forza espressiva è molto evidente, così come i nastrini rossi o le medagliette appese sulla giacca: pendenti dal petto, dove idealmente risiedono i sentimenti, esteriorizzano la fede che viene dal cuore. I socialisti ed i loro avversari prestano molta attenzione al fenomeno, facendone quasi il termometro dell’attaccamento proletario al 1° Maggio. Si ha la certezza, a scorrere le cronache dei giornali conservatori, che i loro redattori si siano presi la briga di verificare per le strade o di andare sotto la volta del Broletto a controllare quanti di questi ornamenti vengono venduti a 10 o 15 centesimi, pronti a scorgere in questo ornamento il segno di un inquietante fanatismo settario […].
Effettivamente La Giustizia assegna valore a queste espressioni coreografiche, soprattutto in quegli anni in cui il 1° Maggio cade in domenica e la presenza del movimento operaio non può manifestarsi attraverso lo sciopero. Con moderna accortezza e senso pratico, il giornale invita i lavoratori a proporre manifestazioni simboliche che possano essere adottate dal movimento per veicolare tra la gente messaggi e soprattutto suggestioni:
“Noi siamo persuasi che il primo Maggio sarà tanto più efficace, quanto più non si limiterà a dare soltanto dei meeting, delle conferenze, degli opuscoli e dei numeri unici, ma si estrinsecherà in modi, con esteriorità che impressionino l’immaginazione, il sentimento e la memoria delle masse.
È noto che una delle cause principali della diffusione del cattolicismo sta nella pompa e nella relativa bellezza del suo culto e delle sue chiese. Oltre che all’intelligenza, per conquistare terreno, la propaganda deve mirare a colpire il sentimento ed i sensi del popolo” (La Giustizia, 13 marzo 1892).
Alcuni lettori scrivono al giornale per fare proposte al riguardo. Tra vari suggerimenti per l’organizzazione e la propaganda, un contadino di Puianello invita tutte le associazioni dei lavoratori ad esporre le bandiere alle proprie sedi. Un operaio scrive raccomandando tra tutti i manifestanti la diffusione del cravattino rosso, che nel 1892 risulta usato solo a Reggio, Guastalla e in pochissime altre località della provincia. Il giornale accoglie con favore la sollecitazione:
“È un distintivo che costa pochi centesimi, che tutti possono procurarsi e quindi noi, per conto nostro, accettiamo la proposta ed avremo la cravatta rossa! È una inezia,… ma però meno inezia di quel che pare” (ivi).
Stabilito perciò che tutti i dimostranti debbano ornarsi di questo segno di appartenenza al movimento, all’approssimarsi del 1° Maggio 1892 sulla Giustizia compare una manchette pubblicitaria dei cravattini […], in vendita in piazza a Reggio, presso il negoziante Giuseppe Tosi. Inoltre alcuni capi socialisti si fanno carico personalmente della spesa della diffusione tra i lavoratori un po’ restii alla novità […].
L’esposizione di oggetti rossi assume un senso di sfida: un folklore con cui si inizia ad identificare l’antagonismo di classe. Già nei conflitti politici dopo l’unificazione nazionale, i rivoluzionari garibaldini si riconoscevano nel colore rosso; mancava però nella provincia un uso costante di questa simbologia repubblicana, a livello popolare. Ora si inizia a sfruttare questa proprietà della bandiera rossa, che come effetto ottico non dà solo l’impressione del drappo svolazzante dal colore vistoso, ma del fuoco; l’effetto coreografico – quando molti oggetti rossi si muovono – è quello delle fiamme che si propagano: una immagine molto amata dalla simbologia rivoluzionaria. La creatività popolare si mostra favorevole a recepire queste sollecitazioni. Il 1° Maggio 1898, nonostante l’assoluto divieto a manifestare e il risoluto atteggiamento repressivo delle autorità, un folto gruppo di operai luzzaresi si porta a Guastalla al canto di inni socialisti. Molti sono ornati da un garofano rosso e alcuni portano dei bastoni su cui sono stati legati dei grembiuli rossi, che svolgono così la funzione di improvvisate – e meno compromettenti – bandierine.
Una donna di Cella, Brigida Marconi, il 1° Maggio 1895 viene portata in questura, per essersi presentata nella piazza di Reggio abbigliata con un corsetto rosso vivo e uno sparato, sempre rosso, su cui aveva ricamato a lettere bianche la scritta viva il socialismo. Benché molti operai e il deputato Prampolini si portino nella sede della polizia a protestare contro questa persecuzione, la donna viene rilasciata solo dopo il sequestro del costume festivo incriminato. I giornali conservatori si mostrano scandalizzati da questa giovane sposa, la cui caratterizzazione politica dell’abbigliamento “non è punto ammessa dai regolamenti di P.S.”. L’Italia centrale [il giornale dei moderati] prova inoltre a far passare per una carnevalata l’idea della Marconi, definendo la donna “un infagottato mascherotto”. […]
Un giornale di Gonzaga racconta in sintesi nel 1897 ciò che il movimento in espansione investe nella ritualità del 1° Maggio. Parte dalla constatazione che ogni anno la dimostrazione ritrae il sorgere, il mutarsi e il formarsi della coscienza di classe dei lavoratori. Insiste nel considerare un segno di evoluzione il passaggio dall’esaltazione impetuosa e quasi disperata dei pochi che dimostravano inizialmente il 1° Maggio e il desiderio successivo di disciplinare il formicaio umano, di radunarlo attorno ai simboli di obiettivi civili, quali un fiore rosso all’occhiello, o una fronda d’olivo sui berretti. […]
Lo spettacolo è […] quello dei lavoratori, che, formandosi un’identità di classe, ammirano sé stessi manifestare autonomamente dai ceti superiori, dalla chiesa, dallo stato, che da sempre organizzavano le feste collettive: i riti in cui ognuno vedeva rispecchiarsi la vita della comunità e vedeva la rappresentazione dell’ordine sociale, con tutte le sue gerarchie di valori. Per quanto ai contemporanei sembri ammissibile che l’affermarsi della nuova festa proletaria sia un riaggiustamento della festività religiosa decaduta nell’Europa della rivoluzione industriale, per i socialisti la cosciente dimostrazione che i lavoratori danno della propria potenza – fermando per un giorno l’apparato produttivo – “non è una nuova qualunque santificazione”, perché sancisce “una prima entrata delle masse nella storia”, che prelude ad un futuro in cui ogni giorno sarà simile alla nuova vita annunciata dalla festa: “per tutti sarà un maggio continuato”.
Già dal suo esordio quasi clandestino il 1° Maggio pone il problema di una ritualità festiva legata a qualche simbolo. Si pensi all’unica riunione politica che i socialisti riescono ad organizzare in provincia nel 1890: a Massenzatico, per la festa da ballo e il comizietto sull’aia di Prampolini, l’accesso è rigidamente riservato a chi è riuscito a munirsi di un biglietto con su stampati la scritta Partito Operaio Italiano Reggio-Emilia e un emblema con un piccone e una scure incrociati.
La stessa tessera di riconoscimento degli aderenti al partito, inizialmente viene rilasciata in occasione del 1° Maggio, ponendo molta attenzione alla funzione decorativa dell’elegante biglietto in pergamena. È poi a Reggio che vengono fabbricati, per tutta Italia, gli “eleganti francobolli commemorativi del 1° Maggio, gommati e traforati, a beneficio della propaganda socialista” nel 1893. A Milano vengono invece fabbricate dal 1895 la Medaglia del 1° Maggio e la Cartolina del 1° Maggio, acquistabili per posta e vendute anche in piazza a Reggio. La Giustizia pubblicizza questi oggetti, dicendo che “tutti i socialisti dovrebbero provvedersene”, e facendone una rapida descrizione. Su un lato della medaglietta è effigiato Marx; sull’altro lato c’è un’allegoria del 1° Maggio; in bronzo costa 30 centesimi, in argento (ma questo tipo non verrà poi coniato) dovrebbe costare 1,80 lire.
C’è evidentemente una circolazione commerciale dei piccoli simboli politici, poggiante sulla ritualità del 1° Maggio. È una tendenza che si accresce notevolmente all’inizio del novecento, fino quasi a presentarsi ai contemporanei come un fenomeno consumistico. […]
Dal 1901, quando i governi giolittiani autorizzano anche a Reggio le manifestazioni all’aperto, il proletariato che vi partecipa e vi si riconosce è subito un esercito di folla. Si deve probabilmente all’impostazione pacifica delle dimostrazioni reggiane del 1° Maggio, se nessuno annota mai l’analogia militare di queste sfilate di persone precedute da fanfare e bandiere, ornate di nastri e medaglie, e talora con abbozzi di divisa. Nel 1901 si ha notizia di “riuscitissimi cortei di uomini e donne ornati di garofani rossi” a Luzzara e a Villanova di Reggiolo; di cortei con le donne ornate di nastri rossi a Santa Vittoria; nei paesini del comune di Scandiano, di una bandiera rossa portata in corteo, che suscita apprensioni in quell’ambiente dominato dai conservatori. […]
Nelle mitologie e nelle coreografie del 1° Maggio viene largamente enfatizzata anche una simbologia stagionale. “Il 1° Maggio non può che avere la significazione che gli viene data dalla natura stessa”, cioè quel produttivismo della primavera che dalla desolazione invernale corona di utili frutti il lavoro di tutto un anno e che i lavoratori devono imitare nella loro opera organizzativa. La frequenza del richiamo alla scadenza stagionale del 1° Maggio, come festa di una primavera del proletariato, non è ideologicamente priva di importanza. Questa tematica è normalmente argomento di una proliferazione abbondantissima di poesiole di dubbio gusto e di divagazioni retoriche sulla stampa socialista; ma talvolta è usata coscientemente per indicare il 1° Maggio come scadenza calendariale emblematica di una precisa concezione della lotta di classe.
Indicativo – a tale proposito – un intervento del riformista […] Ciccotti sulla Giustizia, per narrare un ignoto episodio che presume avvenuto al Congresso operaio internazionale del 1889, quando si deliberò per lo sciopero generale del 1° Maggio 1890. Durante la discussione per fissare la data più adatta allo sciopero, l’anarchico Carlo Cafiero avrebbe proposto un invernale 1° febbraio come scadenza idonea ad una polemica violentemente antiborghese, per poter aizzare la disperazione dei proletari disoccupati contro il Carnevale dispendioso dei gaudenti. A prevalere sarebbe stata invece la concezione ottimista dell’avvenire, propria del socialismo evoluzionista, che avrebbe scelto la pacifica festa primaverile, dove in una atmosfera luminosa e serena il movimento operaio si può compiacere dei risultati raggiunti. Narrazione vera o fantastica (cosa quest’ultima abbastanza probabile), l’importanza di questo aneddoto sulle origini del 1° Maggio è la sua concezione del movimento operaio, con una netta dicotomia tra diverse ideologie del lavoro e contrastanti concezioni del conflitto sociale. […]
Senza dubbio, a tutta la simbologia rossa diffusasi col 1° Maggio era stata attribuita una importanza ossessiva anche dai nemici dei socialisti. Lo si riscontra soprattutto con il manifestarsi del fascismo. Per tutti i primi anni venti la sottrazione e la distruzione rituale col fuoco di bandiere, coccarde, cravatte, ritratti, simboli del movimento operaio, è l’attività perseguita con maggiore fanatismo dagli squadristi. Prima ancora che all’ostentazione dei propri emblemi, gli squadristi dimostrano il maggior interesse alla distruzione di quelli antagonisti, proponendosi di far piazza pulita delle simbologie rosse nella memoria collettiva. […]
La resistenza dei lavoratori a poter esibire i propri simboli il 1° Maggio è all’origine di sanguinosi incidenti nel 1921. A Cavriago, gruppi di operai che portano al petto un nastrino rosso e nero distribuito dagli anarchici vengono aggrediti in piazza da squadre di fascisti che vogliono strappare i distintivi. Ne nasce una sparatoria in cui muoiono alcuni lavoratori. In occasione dei funerali delle vittime – svoltisi senza le bandiere – nonostante la disposizione della Camera del lavoro di non tenere alcuna manifestazione, le fabbriche di Reggio scendono in sciopero e avvengono nuove colluttazioni e scambi di colpi d’arma da fuoco, quando i fascisti tentano di strappare a qualche operaio il nastrino rosso all’occhiello della giacca. La Camera del lavoro, nel suo manifesto del 1° Maggio, aveva esplicitamente invitato a non esibire bandiere e garofani, proprio allo scopo di evitare violenze. Ma evidentemente non tutti accettano il ruolo della vittima che ammutolisce nel sentirsi minacciata, e ugualmente lanciano la sfida dei propri distintivi.
(Tratto da: Marco Fincardi, Primo Maggio reggiano cit., capitolo XIII, Segnali di festa, pp. 329-338, 348-349, 360-361; il capitolo alle pp. 329-361; abbiamo omesso le note.)
Giulia Brunello dice
L’episodio delle donne che protestano contro una centrale nucleare nel 1983, ricordato da Marco Fincardi nel contesto di una storia del Primo maggio quasi esclusivamente promossa da uomini, mi ha fatto venire in mente una fotografia che si trova nella collezione "História da Industrialização" dell’Archivio Edgard Leuenroth dell’Università di Campinas (San Paulo): la numero 144, che ritrae una donna vista di spalle mentre parla a un pubblico composto principalmente di uomini in una piazza [ndr. si vede a questo indirizzo: https://storiamestre.it/immagini/PrimoMaggioSP.jpg%5D. La data è incerta. Sul retro della foto un’annotazione a matita dice "Sciopero generale del 1917, San Paolo", ma sono state fatte dieci diverse ipotesi di datazione (Miriam Manini, "Os usos da iconografia no ensino e na pesquisa: o acervo multimeios do arquivo Edgard Leuenroth", “Cadernos AEL”, n. 5/6, 1996-97, pp. 221-244), di cui cinque indicano la commemorazione del Primo Maggio, sempre a San Paulo, nel 1915 o nel 1919.
Non sono in grado di sciogliere i dubbi, però vorrei sottolineare in questa fotografia l’importanza di una donna che prende la parola in pubblico in una manifestazione di uomini. Conoscendo le parole d’ordine del movimento operaio di quegli anni, la donna avrà rivendicato migliori condizioni di lavoro per uomini e donne, riduzione del numero di ore di lavoro, sicurezza in fabbrica, indennità di malattia, fine dello sfruttamento minorile. Avrà parlato di emancipazione femminile come elemento fondamentale per l’emancipazione dell’intera umanità. Appoggiate da una parte del movimento operaio, le donne rivendicavano tra le altre cose la parità di salario tra uomo e donna, chiedevano l’accesso all’istruzione e ai luoghi pubblici considerati ambienti esclusivamente maschili, pretendevano uguali diritti civili e politici, reclamavano la fine delle gerarchie sociali e sessuali.
La situazione documentata dalla fotografia non è eccezionale. A San Paulo nei primi decenni del ‘900 si registra un’impennata del numero di operaie, principalmente nel settore tessile, molte delle quali immigrate dall’Italia. Le liste delle persone da sorvegliare compilate dalla polizia sono composte soprattutto da donne e minori, considerati responsabili di boicottaggi, sabotaggi, distruzione di macchine, ribellione contro gli atti di violenza perpetrati dai padroni.
Gli scioperi che si verificano a partire dagli anni ‘10 e che culminano con la paralisi della città nel luglio del 1917, partono dalla rivolta delle donne. Che sia quindi una donna a parlare è il riflesso della composizione operaia, ma soprattutto simbolo dei diritti richiesti e gridati dalle donne.