di Matteo Melchiorre
Tomo di Feltre, 29 dicembre 2008, mattino, meno nove, scarponi da montagna ai piedi: Matteo Melchiorre esce di casa deciso a una camminata, per far prendere aria alla testa. Dopo un po’, la meta diventa casa di sua morosa: una decina di chilometri fino a Celarda. “Occorre abbandonare la pendice del Tomatico e recarsi, in discesa prima e poi via dritto in piano, fino all’ansa del Piave presso la quale si trova Celarda. Occorre lasciare, e scusa se è poco, questo ambiente prealpino e approdare sugli argini del fiume patrio. Un passo alla volta, ho pensato. Per intanto basti dirigere la rotta verso la piazza di Tomo”. La camminata è descritta in un nuovo libro ancora inedito, che attende risposta dagli editori. Ne riparleremo presto con l’autore, intanto presentiamo in anteprima alcuni brani: dove Melchiorre ha appena superato la rotatoria di Anzù.
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Fuori dalla rotatoria, la regionale 348 va percorsa per un centinaio di metri appena, giusto il tempo di passare davanti al benzinaio Erg. «Ciao!» mi fa «A piedi oggi? Hai rotto la macchina?». Ho risposto che non è rotta, e nemmeno incidentata, ma solamente ferma sotto il suo baito. Sono in viaggio, dico. Allora il benzinaio sorride e la signora impellicciata che si rifornisce alla pompa numero 1, addirittura, ride di me. Ormai è chiaro. Uno che va a piedi passa per matto. Anzi peggio. Viene decifrato come uno di quei soggetti che, per evenienza sfortunata – leggi disoccupazione – o difformità di carattere – leggi inquietudine – è in giro invece che a lavorare. A rigore, tuttavia, egli può passare anche per uno snob, o un radical chic.
Oltre il distributore, a sinistra, c’è la strada provinciale 37. Per andare a Celarda questa è la via da seguire. Ma questa strada, specialmente, come dice lo stendardo di lamiera, è l’accesso per la zona industriale di Villapaiera. Di solito per di qua passano camion e, agli orari di inizio e fine lavoro, vi si estende tutto il traffico degli operai che vanno al lavoro o che rincasano. Prendo a sinistra e mi incammino, con gli scarponi, lungo la provinciale.
Anche questo, mi dico, deve apparire non poco sospetto ai guidatori di macchine. Figurarsi: uno col passo pesante di scarponi, che arranca più per quelli che per la difficoltà della via, lungo il propileo della zona industriale. Forse è un contadino che non sa niente del mondo. Forse è un veneziano che ha perduto la strada. Forse è un poveraccio.
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La cartellonistica che indirizza alla zona industriale è composta di molti e numerosi cartelli. Una volta erano moltissimi e numerosissimi. Ma adesso, è da qualche anno ormai, diventano sempre meno. Questo accade perché le fabbriche più piccole vanno in malora mentre quelle più grandi – almeno ad oggi – estendono le proprie pertinenze giungendo a far sì che l’intera zona industriale venga pian piano ad essere monopolizzata da due o tre aziende multinazionali che fanno piazza pulita della piccola impresa, quella che ha fatto col proprio sudore – sic dicunt Farisei – il miracolo economico del Nord Est.
Lungo questa strada provinciale che percorro a piedi mi è capitato di vedere tir anneriti con targhe rumene, ungheresi e polacche; nonché le macchine lustrate dei vari avvocati aziendali, imprenditori e amministratori delegati. Gli operai, come già detto, passano con le loro macchine a orari precisi. Raro che siano dentro in due, tre o quattro. Raro che facciano il raccomandato car poolishing: mettersi d’accordo e fare, a turno, una macchinata per andare al lavoro. Ognuno abita nel suo abitacolo. Ogni operaio va in fabbrica per i fatti suoi.
Ma torniamo alla cartellonistica della zona industriale perché, tra le etichette di lamiera che la compongono, ce n’è una che dice
Corpo Forestale dello Stato
Riserva naturalistica del Vincheto
Stazione della forestale, riserva e Vincheto stanno a Celarda. Ed è proprio lì che devo andare. La morosa che io vado a raggiungere abita nella riserva.
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Al Vincheto si entra a piedi da un cancello. Dapprima si vedono i daini e poi, nel recinto più in là, i caprioli convalescenti o, ancora più oltre, il branco di cervi con l’inusitato maschio dominante. Poi ci sono le voliere degli uccelli, soggetti a vario titolo disadattati alla vita libera: ghiandaie, gufi, allocchi, poiane, il nibbio e la Falcina. La Falcina è un’aquila reale, cieca di un occhio per incidente occorsole durante un incendio dolomitico. Viene alimentata, con ogni cura, da una forestalessa che la nutre e la conforta per quanto possibile. Una qualche malìa francescana regola il cordialissimo rapporto tra la Falcina e la forestalessa, amicizia ben nota ai telespettatori italiani in quanto coronata da un recente servizio, nel TG2 delle tredici.
Poi ci sono il Piave, prati, risorgive, acque correnti e laghi con aironi, garzette e via dicendo. Da qualche tempo si aggirano i cinghiali, uno dei quali la morosa sostiene di aver scorto a due metri da lei, nel mentre il suino selvatico guadava a nuoto una risorgiva.
Il visitatore del Vincheto, tuttavia, vede principalmente uomini a bordo di trattori, altri con il tosaerba, altri che stanno nelle falegnamerie, altri in un’officina meccanica, altri allo scavatore e altri ancora che maneggiano motoseghe e decespugliatori. Costoro sono gli operai del Vincheto.
Il Vincheto – vuoi mettere – ettari e ettari di estensione, abbisogna di manutenzione continuata, di sfalci, di disboscamenti e di generici mestieri correlati. Può essere che il sovrintendente stesso della stazione, quando non si aggira per i viali in perlustrazione, carichi imballi di fieno su un rimorchio. A capo della ciurma degli operai c’è un loro capo, supportato da un vice – o delfino. Del capo degli operai si vocifera che abbia una manualità e un ingegno portentosi. È un Leonardo del suo settore. Qualsiasi mestiere, lui sa farlo. Una volta, per dire, era rimasta abbandonata nel suo veicolo da traino una tigre. Ciò avveniva sulle Rive di Tomo e la tigre venne consegnata al Vincheto di Celarda perché non si sapeva dove metterla. Fu predisposta una grande gabbia e il deputato alla tigre fu il Leonardo capo degli operai. Detto fatto. Entrava dalla tigre per darle da mangiare, chili e chili di carne al dì, pezzi di pollastro e avanzi della mensa forestale. La lavava finanche, la tigre, saltando sulla gabbia per detergere, con lo spruzzo del tubo di gomma, lo striato pelame giallonero.
Io personalmente faccio notare alla morosa due aspetti che mi lasciano perplesso circa il suo Vincheto.
Primo. Nei boschi della riserva il disordine forestale regna sovrano. Alberi sradicati marciscono pian piano e arbusti indominati, e boscaglie indecentemente malmesse. Gli operai, in certe predisposte aree, non tagliano gli alberi in sovrappiù con la motosega ma li sradicano dal suolo tirandoli giù con le corde. La morosa mi dice sempre che la riserva è una riserva, e non un parco ricreativo tosato all’inglese. La riserva serve a riservare un paesaggio solo e soltanto a se stesso. Anche lo sradicamento meccanico degli alberi rientra nello specifico progetto Life, per la tutela delle zone umide e di risorgiva.
Seconda ragione di perplessità relativa al Vincheto. Camminando verso nord le reti che ritagliano la riserva sono a poche centinaia di metri dagli spalti multicolor delle fabbriche di Villapaiera. La Clivet, in particolare, ben visibile dal Vincheto, è di un blu stupefacente. Cosa vuoi riservare che, se appena di là ci sono di questi mestieri?
Quando le faccio notare con ciò quanto le molteplici vie della progettazione umana siano infinite e tra di loro collidenti, la morosa mi dice sempre che piuttosto di niente è meglio piuttosto.
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Ma io sono in viaggio. Sulla strada provinciale 37 c’è da percorrere un rettilineo di 800 metri. Per un terzo è stretto da case su entrambi i lati, dalle quali si evince a che livello di perfezione siamo giunte ormai le tecniche della decorazione natalizia. Per due terzi, però, il rettilineo è nudo e crudo, una noia mostra da farlo a piedi.
«Guarda dove sei finito!» mi dico «Cammina, cammina e cammina sei qua che fatichi su un rettilineo dei più tristi! O sconsideratezza!».
Procedevo desolato nella noiosa tratta, ragionando in me stesso di strade e rettilinei, e vagheggiando altresì intorno al quesito se gli spostamenti umani, un giorno, riusciranno a coronarsi nella seguente ideale uguaglianza:
Distanza reale percorsa = distanza in linea d’aria
Mentre mi beavo in quest’equazione, in senso opposto al mio vedo giungere Luca Palma. Ritorna dal suo giro di consegna pane a domicilio, a bordo del furgone Citroen del Panificio De Bacco. Vedendomi a piedi, e ridendo, ha fatto la mossa di investirmi, salvo poi sterzare di colpo e salutarmi, con due colpi di clacson e con il braccio fuori dal finestrino.
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Ai 500 metri sulla strada provinciale 37, sulla sinistra, si trova un orto innevato. Sta tutto nei due metri per dieci stretti tra la provinciale e il terrapieno della soprastante ferrovia. D’estate ci piantano più che altro fagioli, porri, cipolle e zucchine. Ma quest’anno, sotto una mini serra di telo, avevo constatato anche l’avvenuta semina dei pomodori.
Coltivare fin sui margini. Oggi non serve più, benedetto dio. Ma ci sono ugualmente, nella vallata, alcuni ettari complessivi di micro-orti coltivati nei ritagli più impensabili: tra le casette a schiera un po’ ovunque, sulle aiuole dei capannoni a Rasai, dietro le carrozzerie a Fonzaso… E così via. Basta andare in cerca e schedare tutto. Si potrebbero enumerare centinaia di orti periferici.
Del resto facevano così (come nel caso dell’orto tra provinciale e ferrovia) anche al tempo della Repubblica di Venezia, o della illuminata Serenissima Signoria, secondo cantano i carmina farisaici. Il rettore di Feltre scrisse questo tanto:
Succede in quel territorio un altro inconveniente notabilissimo che li habitanti nelli villaggi nelle montagne, che sonno pur alquanto più rissoluti, et vivaci de quelli del piano, con le zappe coltivano le rive de suoi monti et quel terreno mosso con molti sassi seminato gli frutta non di meno qualche quantità di grano.
Non andavano solo sui monti, a coltivare, ma anche sulle rive dei fiumi. Essi, gli antichi Feltrini, erano spinti, neanche a dirlo, dalla necessità. Il nostro odierno proliferare di orti nei terreni marginali deve aver certo differenti spiegazioni. Sarà il persistere di una qualche atavica ispirazione agricola? O forse un’incipiente strategia per far fronte a tempi che si prefigurano tutt’altro che floridi?
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Altri 300 metri ed ecco che il rettilineo sta per finire. Ancora, sempre sulla sinistra, un altro orto marginale, pertinenza di una casa che dà sulla strada. I capùs sono ancora al loro posto, sotto la neve, ormai del tutto non commestibili.
Ma qui bisogna fermarsi per un altro motivo e fare un’altra, e differente, considerazione. La casa con orto di cui vado parlando confina, appoggiata spalla a spalla, con una vecchia casa dismessa, dall’aria assai poco confortevole, ma molto singolare per questa ragione. È stata riverniciata di giallo, giallo pallido, vanigliato. No i pittori, non sono stati i pittori, ma i nuovi inquilini della vecchia casa. Li ho visti io stesso, d’estate, in tre o quattro, pennelli in mano. Il capolavoro sta nel fatto che essi hanno immerso nella nuova tinta lo stabile intero. Giallo pallido vanigliato, le grondaie. Giallo pallido vanigliato, il poggiolo. Giallo pallido vanigliato, le travature. Gli inquilini della casa, dipingendo, hanno chiuso i balconi di legno e hanno dipinto pure quelli, via dritti, con la medesima tinteggiatura. Ne risulta, a mio modo di giudicare, un autentico capolavoro, un nitore uniformato mai visto, abituati come siamo alle nostre edilizie policrome e gingillate.
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Gli inquilini della vecchia casa, ma vorrei dire, senza sottinteso alcuno: gli artisti, sono persone di colore, africani neri di quel nero che i nostri Farisei non esiterebbero a dedurre senegalese, nel caso degli uomini, o nigeriano, nel caso delle donne. Senegalesi e Nigeriane.
Mi vengono in mente alcune considerazioni relative alla distribuzione insediativa degli immigrati nel Feltrino. Comincio col dire che nella vallata (che io sto tagliano a piedi in senso est – ovest, costeggiandone il versante meridionale) ci sono due categorie di paesi. Quelli in spopolamento e quelli in espansione. Quest’ultimi fioriscono di cantieri e prosperano nelle loro funzioni residenziali. Gli altri paesi invece, un morto dietro l’altro e trasloco dopo trasloco, si svuotano senza scampo. I paesi in spopolamento – ne ho in mente forse una ventina – stanno in luoghi svantaggiati a titoli differenti: o scomodi rispetto alla città, o non baciati dal raggio del sole, o troppo invecchiati nella loro vivibilità mondana per essere ancora di una qualche attrattiva.
Paesi prealpini in spopolamento. Non servono descrizioni: borgate di case fatiscenti, marciumère, cartelli vendesi stinti dal sole, patine polverose. Le case cadono in rovina di giorno in giorno.
Orbene, per farla breve, le case singole abbandonate e i paesi morituri sono del tutto senza attrattive per acquirenti o generici inquilini autoctoni – salvo per gli eccentrici. Pertanto, svalutandosi, gli immobili in causa sono diventati alla portata degli immigrati meno abbienti. In termini sempre più evidenti, il flusso immigrazionale va a smaltirsi negli spazi di scarto lasciati vuoti dagli indigeni. Le case sgarupère riaprono i balconi e affiorano parabole satellitari che pescano le trasmissioni maghrebine.
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E non sarà un bene? Pensa alla defunta pizzeria di Vellai trasformata dall’ottimo Hassani in bazar con annesso kebab. Che dire dei meravigliosi kebab di Hassani? I migliori. E che dire poi della possibilità di rifornirsi di curry, coriandolo, cumino e tè verde bypassando, alla bersagliera, sia la grande distribuzione che l’equo solidale?
C’è al Càrpen, estreme propaggini meridionali del Feltrino, una casa cantoniera ferroviaria piena di spifferi e con lo zerbino sui binari? I Tunisini si adattano. C’è un ritaglio di tre stanze nei cortili di Tomo? Ecco i Marocchini. Ad Agana una casa scricchiolante e senza posto macchina è messa in affitto? Ecco Sandro e Mohammed, marocchini, che fanno gli ambulanti a bordo di una Fiat Marea. Un appartamento in Feltre vecchia, sulla solenne via Mezzaterra, è freddo anche da riscaldato? I cinesi spalancano le finestre d’estate, e maneggiano loro le antiche chiavi. È la storia dell’adattamento. A variare, nel tempo e nello spazio, sono le categorie che coltivano la capacità adattiva.
«Sarà mica la storia degli orti marginali?», mi chiedo camminando.
Certo che è quella. Come ci sono terreni agricoli marginali, così ci sono case e spazi abitativi marginali. L’orto marginale genera modiche integrazioni della nostra dieta da banco; la casa marginale genera contratti di affitto e schivi introiti immobiliari. Ed ecco che anche l’opinabile immigrato e il Fariseo possono trovarsi riuniti nei mutui vantaggi garantiti da un precetto esistenziale di certo rilievo:
Piuttosto che niente è meglio piuttosto.