di Christian De Vito
Per gentile concessione dell’editore ombrecorte e dell’autore, pubblichiamo alcuni brani dall’introduzione con cui il nostro amico Christian De Vito presenta un’antologia dedicata alla cosiddetta Global labour history (“storia del lavoro globale”), uscita da poche settimane (Global labour history. La storia del lavoro al tempo della “globalizzazione”, introduzione e cura di C. De Vito, ombrecorte, Verona 2012).
Il pubblico a cui De Vito pensa è quello di “lettori interessati”: non solo “esperti” o “specialisti”, ma “chiunque sia desideroso di capire le tendenze passate del lavoro e le trasformazioni rapide e radicali che esso sta attraversando”. La proposta della Global Labour History – sottolinea De Vito – è interessante proprio perché parte dall’osservazione della realtà sociale quotidiana, in cui siamo immersi, con l’invito a tenere presente, tra le altre cose: 1) che sono in corso esperienze sociali analoghe in ogni parte del mondo; 2) che è meglio abbandonare ogni nazionalismo, anche nel metodo; 3) che dimensione “micro” e “macro” vanno interrogate insieme. Infine, sembra davvero in linea con i tempi in cui viviamo l’idea che il concetto di “classe lavoratrice” debba essere esteso oltre il lavoro salariato (industriale), e si debbano prendere in esame le varie forme di servitù e di schiavitù, il lavoro autonomo, domestico, cooperativo.
Questa antologia raccoglie sei scritti di autori legati alla Global labour history, una corrente storiografica sviluppatasi a partire dalla fine degli anni Ottanta all’interno dell’Istituto internazionale di storia sociale (IISG) di Amsterdam e progressivamente divenuta una rete globale con connessioni dall’India al Brasile, dal Sud Africa agli Stati Uniti, dall’Australia al Pakistan alla Corea del Sud.
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La “globalizzazione”, la delocalizzazione produttiva, la precarizzazione, i flussi migratori, l’organizzazione e le condizioni di lavoro, la crisi economica e finanziaria: sono queste alcune delle questioni centrali del mondo attuale ed è questa la materia prima di cui è fatta la Global labour history, che su questi argomenti getta quello sguardo globale e di lungo periodo di cui non è ormai più possibile fare a meno per capire quanto sta cambiando nelle nostre vite e nella società in cui viviamo.
È una visione ampia che questi storici hanno conquistato gradualmente […]. Di fronte alla crisi insieme storiografica e politica dell’inizio degli anni Ottanta e poi, in modo ancor più accentuato, dell’inizio del decennio successivo, essi hanno accettato la sfida di un ripensamento radicale della storia sociale e del lavoro a partire da un triplice allargamento della prospettiva: ampliamento tematico, in direzione della dialettica delle identità di classe, di genere, religiosa ed etnica all’interno della vita quotidiana e della conflittualità sociale dei lavoratori e delle lavoratrici; ampliamento cronologico, per risalire a ritroso oltre il confine apparentemente insormontabile della Rivoluzione industriale, almeno fino alle origini del capitalismo mercantile cinque-seicentesco; ampliamento geografico, che non è esotica giustapposizione di storie provenienti da aree del mondo considerate comunque “periferiche”, ma liberazione dell’immaginazione storiografica dal pregiudizio eurocentrico e dal nazionalismo metodologico.
È in particolare su quest’ultimo aspetto che è utile soffermarsi, perché rappresenta l’aspetto decisivo della Global labour history e ne rivela anche il concreto processo di formazione. Alla fine degli anni Ottanta, la crescente insoddisfazione per l’eurocentrismo della storiografia del lavoro tradizionale ha portato gli studiosi del dipartimento di ricerca dell’IISG ad allargare lo sguardo oltre i confini geografici e storiografici euro-americani. Mentre in una prima fase ciò si è tradotto nella mera estensione degli interessi di ricerca a nuove aree geografiche (Russia, Impero Ottomano/Turchia) delle tematiche e dei metodi già elaborati in precedenza, a partire dalla metà del decennio successivo si è avuto un più approfondito incontro con i punti di vista storiografici prodotti in quello che sempre più frequentemente questi autori chiamavano il “Sud Globale”, producendo un salto qualitativo nel modo di guardare alla storia del lavoro.
Il momento di svolta è stato rappresentato dal rapporto con gli storici indiani, sfociato già in occasione di una conferenza organizzata congiuntamente a Nuova Delhi nel dicembre 1996 nella fondazione della Association of Indian Labour Historians (AILH). In seguito, questo serrato confronto intellettuale si è allargato agli storici di altri paesi economicamente emergenti, come è testimoniato dalle conferenze tenutesi in Pakistan nel dicembre 1999 e in Corea del Sud nel giugno 2001[,] dalle conferenze della stessa AILH indiana e dell’History Workshop sudafricano e dalla fondazione nel 2000 dell’attivo gruppo di lavoro Mundos do Trabalho all’interno della Associação Nacional de Historia (ANPUH) brasiliana. […]
La Global labour history si è dunque formata a partire dal suo intrecciarsi con le tendenze storiografiche che attraversano il mondo contemporaneo. Parallelamente, la ragionata radicalità che la attraversa dipende anche dal rapporto dialettico che intrattiene con la storiografia del passato. Diversamente ad esempio dagli approcci storiografici legati al pensiero post-strutturalista, essa non si limita a contrapporre il “nuovo” di cui si fa portatrice al “vecchio” della storia del lavoro precedente, ma produce rispetto a quest’ultima una frattura tanto più profonda proprio nella misura in cui muove dalla piena riappropriazione critica di essa. Da questi due atteggiamenti costituitivi della Global labour history derivano saggi affascinanti, capaci di tenere insieme Marx e i pensatori indiani, la teoria economica e centinaia di ricerche empiriche condotte in varie parti del mondo, i fabbricanti di mattoni friulani, valloni e indiani e le lavoratrici domestiche di Hong Kong e dell’Indonesia, i portuali e le prostitute.
Ne deriva anche una profonda messa in discussione di alcuni concetti centrali della storiografia del lavoro e della riflessione contemporanea. All’idea statica di una “rivoluzione industriale” determinatasi nell’Inghilterra del tardo Settecento e da qui “esportata” nel resto del mondo, viene contrapposta una “rivoluzione industriosa” fatta delle trasformazioni molecolari del lavoro prodottesi all’interno di centinaia di nuclei familiari in varie parti dell’Europa occidentale del XVII-XVIII secolo e nell’Asia orientale settecentesca. All’assunto del carattere recente della “globalizzazione” viene contrapposta l’analisi delle “ondate di globalizzazione” degli ultimi secoli, inframmezzate da altrettanti periodi di “de-globalizzazione”, l’ultimo dei quali corrispondente ai decenni tra le due guerre mondiali. Il concetto di “globalizzazione” non rinvia del resto in questi autori ad un unico processo onnicomprensivo e unilineare, né […] al deterministico susseguirsi di fasi di egemonia di questa o quella potenza politico-economica. Più attenta alle dinamiche profonde della società e all’agency (individuale e collettiva) delle persone, la Global labour history punta piuttosto a mostrare la dialettica tra “globale” e “locale”, superando anche una dimensione comparativa puramente “nazionale”.
“Seguire le tracce” è l’essenza dell’approccio della Global labour history rispetto al rapporto tra locale e globale: che si parta dalla scala “macro” o da quella “micro”, bisogna investigare le implicazioni dei vari fenomeni osservati attraversando continuamente i confini temporali, geografici e politici, non lasciandosi imbrigliare da essi. Bisogna interrogare il livello «micro» con le domande che derivano da quello «macro», e viceversa; e anche muoversi sistematicamente tra una scala e l’altra, coscienti del fatto che la scelta del punto di osservazione porta a vedere fenomeni diversi o a vedere diversamente gli stessi fenomeni. Sono spunti di riflessione che la Global labour history trae dalla microstoria italiana, dall’Alltagsgeschichte tedesca, dall’histoire croisée e anche, ad esempio, da alcuni recenti studi argentini. A questi si unisce una elaborazione autonoma, che porta ad esempio ad introdurre il concetto di “teleconnessioni”, mutuato dalla geologia, per indicare i collegamenti globali tra le esperienze e le azioni dei lavoratori in relazione allo studio di processi produttivi, catene di merci, spostamenti di capitale, meccanismi di consumo, movimenti sociali.
[…] Vengono aperte così ulteriori prospettive di ricerca, evidenziate anche dagli studi sui flussi migratori che, liberati dallo statico dualismo tra “paesi di emigrazione” e “paesi di immigrazione”, possono guardare finalmente ad una molteplicità di altri livelli e alle loro reciproche connessioni: alle specifiche condizioni locali e ai fenomeni economici generali, alle strutture familiari, alle motivazioni soggettive della migrazione e alle reazioni contraddittorie nei singoli luoghi di arrivo. Anche del ruolo degli Stati può essere data in questo modo una valutazione più equilibrata, contestualizzando l’importanza materiale e simbolica della loro azione di definizione delle condizioni di accesso e di permanenza dei migranti.
[…] La rottura più rilevante introdotta da questo approccio storiografico […] è senza dubbio quella determinata dall’estensione del concetto di “classe lavoratrice” oltre il lavoro salariato. L’ambizione è quella di indagare tutte le forme nelle quali a livello globale si è manifestato il processo di mercificazione capitalistica del lavoro: lavoro salariato, quindi, ma anche servitù e schiavitù, lavoro autonomo, domestico, “riproduttivo” e le varie forme di lavoro “di sussistenza” e cooperativo. Ben sapendo tra l’altro che queste modalità di lavoro hanno spesso convissuto all’interno dei medesimi luoghi e nell’esperienza stessa dei singoli individui.
Per dare conto di queste molteplici esperienze, gli autori della Global labour history rompono con lo schema interpretativo che lega l’avvento del capitalismo al processo di proletarizzazione e che stigmatizza ogni rapporto di lavoro diverso da quello salariato come sviluppo “incompiuto” o come “arretratezza”. Nei loro studi questa idea di “lavoro periferico” è confutata e si mostrano per contro le modalità – eventualmente anche conflittuali – attraverso le quali le pre-esistenti forme produttive, culturali e familiari si sono inserite attivamente nel processo di mercificazione del lavoro. Il superamento del collegamento lineare tra processo di industrializzazione, proletarizzazione e coscienza di classe li porta così anche a decostruire la contrapposizione tra lavoro “libero” e “non libero”, sulla quale tanta parte della storiografia e del discorso politico si sono finora basati.
Qui sta il nodo decisivo della ricerca e della riflessione della Global labour history e su questo è auspicabile che si apra anche in Italia un’ampia discussione. Tanto più che quella che è senza dubbio una rivoluzione storiografica, tra l’altro anche per la visibilità che restituisce alle storie di milioni di uomini e donne vissuti negli ultimi secoli, rinvia altresì a una serie di quesiti che riguardano l’attualità della situazione sociale, economica e politica.
La complessità del mondo del lavoro del passato che questi studi propongono spinge infatti a domandarsi se le trasformazioni sociali ed economiche più recenti siano veramente “nuove” o se non rimandino piuttosto a condizioni strutturali del sistema capitalista, per sua natura in permanente trasformazione. In che misura ad esempio nell’attuale fenomeno della “precarizzazione” è lecito vedere un cambiamento radicale del lavoro (“postfordismo”) e fino a che punto esso deve essere invece ricondotto ad un processo di ristrutturazione ciclica della divisione internazionale del lavoro? In che modo poi la rottura del paradigma della “proletarizzazione” progressiva, proposta da questi autori rispetto al passato, può aiutarci a pensare soggettività sociali e politiche capaci oggi di includere l’insieme dei “lavoratori subalterni”, andando oltre il lavoro salariato?
Il dibattito è aperto, anche all’interno della stessa Global labour history. […] Del resto, la Global labour history non si concepisce come una scuola, ma come un’“area di interesse”; non è un’organizzazione verticale, ma una rete che si compone e si scompone in rapporto a specifici progetti di ricerca, tendendo nel complesso ad allargarsi continuamente; non mira a una nuova “Grande narrazione”, ma a delle sintesi parziali – teoriche, tematiche e metodologiche – a partire da molteplici ricerche empiriche e da stimoli intellettuali di tipo e segno diverso. Difficile da definire nei suoi confini, la Global labour history resta così strutturalmente pronta ad accogliere nuovi contributi e nuove critiche e organizza anzi il suo lavoro di ricerca secondo modalità che favoriscono questo confronto sistematico tra ricercatori di ogni parte del mondo, attraversando confini geo-politici, linguistici, culturali e disciplinari.
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(Tratto da Ulrike Freitag, Marcel van der Linden, Elise van Nederveen Meerkerk, Achim von Oppen, Willem van Schendel, Lex Heerma van Voos, Global Labour History. La storia del lavoro al tempo della "globalizzazione", introduzione e cura di C. De Vito, ombrecorte, Verona 2012, pp. 7-14 [l’introduzione completa alle pp. 7-17; non abbiamo pubblicato le note].)