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“Ribelli” trent’anni dopo

25/10/2011

di Piero Brunello

È uscita in questi giorni, presso Cierre edizioni, la seconda edizione di "Ribelli, questuanti e banditi. Proteste contadine in Veneto e in Friuli 1814-1866", che il nostro socio Piero Brunello pubblicò per la prima volta nel 1981. Per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo un estratto dalla nuova prefazione scritta per l’occasione da Brunello. Per una scheda completa del libro, cliccare qui.

«Con lo scuro a Monselice c’era da pensarci bene prima di uscire di casa». Così avrebbe scritto anni dopo Gigi Corazzol riferendosi ai primi decenni del Seicento. Averlo saputo, aver saputo cioè che Monselice era «una delle capitali venete delle rapine da strada e dei saccheggi a domicilio»1, mi avrebbe senz’altro aiutato a capire meglio quel banditismo delle Basse che ritrovavo nelle carte di due secoli più tardi. In altre parole, mi avrebbe fatto bene cercare di vedere le cose sul lungo periodo.

Perche non l’ho fatto? Per inesperienza. Ma anche perche, interessato com’ero a definire i diversi tipi di conflitto sociale, cercavo di capire il loro esito finale. Pensando al banditismo delle Basse della prima meta dell’Ottocento mi chiedevo come si sarebbe trasformato, come sarebbe finito, che cosa sarebbe rimasto. Nell’Introduzione alla parte su I tumulti annonari mi chiedevo «quanto del repertorio della protesta tradizionale si tramandi e persista nelle società contemporanee».

Studiare le proteste collettive dell’Ottocento era un modo per interrogarmi sulle lotte sociali degli anni Settanta. Le autoriduzioni delle bollette Enel a Mestre e a Marghera, o le mobilitazioni di donne davanti ai supermercati, alle quali assistevo o in cui ero coinvolto, mi spingevano infatti a riflettere sui tumulti annonari e sui conflitti legati al carovita, che ovunque in Europa, come scoprivo dalla storiografia, avevano preceduto ogni altra forma di antagonismo politico ed economico (in realtà avrei scoperto che non erano mai venute meno). E viceversa, studiare le lotte delle società preindustriali mi aiutava a vedere meglio quelle a me contemporanee senza fare del movimento operaio organizzato un punto di arrivo finale e un modello normativo. Nella risposta alla recensione di Raffaele Romanelli al mio libro, scrissi di aver voluto mostrare quanto fosse sbagliato «considerare i conflitti sociali ottocenteschi in base alle forme associative e rivendicative di fine secolo (operazione che porta a definire i moti contadini come pre-politici, pre-sindacali, spontanei, inconsapevoli eccetera)»2. Non so dire se pensavo di più alle lotte sociali ottocentesche o a quelle degli anni settanta. In ogni caso, in quel periodo gli studiosi di storia della mia generazione che venivano dalla militanza politica si divisero grosso modo in due gruppi: chi studiava operai vincenti, chi contadini sconfitti. Io mi trovai a far parte dei secondi. Memorie di famiglia? Riflesso delle vicende politiche degli anni che stavo vivendo? Un’eco de Il mondo dei vinti di Nuto Revelli, allora fresco di stampa3?

Solo ora mi accorgo di certi nessi tra la mia ricerca e il clima politico di allora. Nel 1979 Vittorio Foa si ritirò dalla vita pubblica e si dedicò a studi di storia nelle biblioteche inglesi. Di fronte alla «tempesta che investe strumenti di analisi, modelli culturali e progetti di trasformazione praticati per decenni»4, Foa cercava risposte al presente interrogando la storia del movimento operaio, e riscoprendo, anche grazie alle opere di E.P. Thompson, l’importanza «della cultura popolare precapitalistica, se vogliamo della cultura artigiana e contadina»5.

Ho detto che all’istituto di storia di Padova si parlava molto più di fonti d’archivio che di teorie, ma non è del tutto vero. Infatti c’era chi discuteva di categorie interpretative: era il gruppo che aveva trasferito l’analisi del cosiddetto “modello veneto” dal campo dell’economia e della politica a quello della storiografia. Per quale motivo lo sviluppo industriale del Veneto aveva rafforzato i modelli tradizionali di comportamento e di controllo sociale, senza quei conflitti e quegli squilibri che altrove la modernizzazione aveva comportato? Un convegno tenutosi a Padova nel 1973 aveva individuato i modi in cui nel Veneto un «blocco d’ordine» moderato era stato in grado di «ricomporre intorno a sé», grazie alle istituzioni e all’ideologia cattolica, «le tensioni e l’insubordinazione indotte dall’industrializzazione»6. Il momento decisivo sembrava essere stato l’incrocio tra sviluppo industriale e movimento cattolico nei decenni di fine Ottocento.

Io ero esonerato dal prendere parte a questi dibattiti perché studiavo un periodo precedente, però mi sembrava che quegli studi cancellassero la presenza – e ancor più la possibile esistenza – di una cultura delle classi subalterne. Attraverso la mia ricerca volevo perciò verificare, e possibilmente smentire, quell’immagine regionale che nella Premessa al libro avrei definito «stereotipata e poco convincente».

Il rapporto tra cultura alta e cultura bassa – per usare termini alla buona – era allora un tema molto sentito. Il formaggio e i vermi di Carlo Ginzburg fu forse il contributo di maggior successo alla discussione «sul rapporto tra la cultura delle classi subalterne e quella delle classi dominanti»: indicava gli scambi tra i due livelli, e dimostrava allo stesso tempo l’esistenza di «uno strato profondo di credenze popolari sostanzialmente autonome» e di «remote tradizioni contadine»7. Il libro uscì nel 1976. Il fascino che le classi popolari esercitavano sugli intellettuali era ancora forte. Sarebbe venuto meno solo negli anni ottanta.

Un giorno stavo camminando con Gianna in collina, tra Susegana e Collalto. Parecchie stradine oggi chiuse al transito erano allora aperte, e con qualche precauzione si potevano superare recinti e steccati e attraversare terreni destinati all’allevamento. Davanti a una casa di mezzadri, all’apparenza disabitata, incontrammo un uomo di una certa età. Non so perché entrai solo io a bere un bicchiere con lui. Ad ogni modo l’uomo mi raccontò di quando Lenìn stava per arrivare a Susegana per far piazza pulita dei signori, subito dopo la prima guerra mondiale. Poi mi mostrò sopra la credenza una foto del vecchio conte Collalto, proprietario delle terre. Sentendo pronunciare Lenìn con l’accento sulla i, a me sembrava di sentir cantare il ritornello Sorgiamo che è giunta la fin.

Quell’episodio mi sembrò aver a che fare con quella che Edward P. Thompson aveva definito una cultura «ribelle e tradizionale». A casa scrissi a macchina qualche pagina in cui, partendo dall’episodio, criticavo quella che chiamavo la «scuola di ricerca storiografica sul modello veneto di sviluppo», la quale, così scrivevo, proponeva il quadro «di una società monolitica e stabile sul lungo periodo, tanto da sembrare metà Famiglia – il paternalismo – e metà Convento – la Chiesa. (La Caserma e le istituzioni repressive sono stranamente assenti)». Invece d’immaginare masse che vivevano «nel Palazzo del Potere», sarebbe stato meglio cogliere piuttosto «nel comportamento delle classi subalterne» l’intreccio «autonomia-dipendenza, consenso-dissenso, alterità-integrazione». […]8

***

Nota. Tratto da: Piero Brunello, Trent'anni dopo, in Ribelli, questuanti e banditi. Proteste contadine in Veneto e in Friuli 1814-1866, Cierre edizioni, Sommacampagna (Vr) 2011, pp. XII-XV (le note qui sono state rinumerate). In copertina, un particolare di Renato Guttuso, Occupazione delle terre incolte in Sicilia.

La prima edizione di Ribelli, questuanti e banditi… è uscita nel 1981 presso Marsilio, Venezia.

  1. G. Corazzol, Cineografo di banditi su sfondo di monti. Feltre 1634-1642, Unicopli, Milano 1997, p. 74. [↩]
  2. P. Brunello, Dalle astrazioni alla microanalisi e viceversa: una risposta, «Studi storici», XVII (1982), 50, p. 745 (la risposta pp. 745-750). La recensione di R. Romanelli, L’analisi della protesta, ibid., pp. 740-744. [↩]
  3. N. Revelli, Il mondo dei vinti. Testimonianze di vita contadina, Einaudi, Torino 1977. [↩]
  4. V. Foa, Postilla a P. Marcenaro, V. Foa, Riprendere tempo, Einaudi, Torino 1982, p. 95. [↩]
  5. V. Foa, Novità sul tempo del lavoro?, «Unità proletaria», 1979, n. 2, in P. Ferraris, Introduzione, in V. Foa, La Gerusalemme rimandata. Domande di oggi agli inglesi del primo Novecento, Einaudi, Torino 2009, p. XV. [↩]
  6. Nota introduttiva, in E. Franzina, M. Isnenghi, S. Lanaro, M. Reberschak, L. Vanzetto, Movimento cattolico e sviluppo capitalistico, Marsilio, Venezia-Padova 1974, p. 7. [↩]
  7. C. Ginzburg, Prefazione, in Il formaggio e i vermi. Il cosmo di un mugnaio del ’500, Einaudi, Torino 1976, pp. XII, XVIII, XXII. [↩]
  8. P. Brunello, Lenin a Susegana. Sulla storia delle classi subalterne, «Ombre rosse», 31 (febbraio 1980), pp. 112-116. [↩]

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Archiviato in:La città invisibile, Piero Brunello Contrassegnato con: pagine scelte, storiografia

Interazioni del lettore

Commenti

  1. chiara giaggio dice

    26/10/2011 alle 08:02

    Iperbole di questo concetto lo slogan della lega, PARTITO DI LOTTA E DI GOVERNO

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