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A proposito di panevin. Una lettera a storiAmestre

12/01/2011

di Marco Toscano

Il nuovo anno ci porta notizie da un amico che non sentivamo da mesi.

9 gennaio 2011

Cari amici di storiAmestre,

per cominciare ricambio gli auguri di buon anno. È da tanto che non vi scrivo – sono rimasto un po’ male dopo le mie lettere dei Mondiali: sarà stata mica colpa mia!? Ma seguo sempre il vostro sito e adesso l’articolo di Enrico Zanette sul panevín e il commento di Alessandro Voltolina mi decidono a riprendere a scrivervi, spero non vi dispiaccia.

1. Ho passato le feste tappato in casa. Stando a casa, telegiornali a ore canoniche. Il 5-6 gennaio doppietta: prima la notizia del calendario veneto senza Liberazione e Primo maggio, poi uno spettacolo di befane e riti propiziatorii. A un certo punto vedo sul tg1 una didascalia: “Venezia, servizio di …”. Scorrevano immagini di Vittorio Veneto, Arcade, altri posti ancora, laguna niente. Gli stessi pensieri di Zanette e Voltolina. Queste faccende, compreso lo spazio che all’improvviso prendono nelle notizie da dare, raccontano sempre qualcosa sul potere.

2. Mi è venuta voglia di chiamare subito i miei amici che stanno in Veneto. Prima telefonata. “Senti – dico al mio amico – ma tu l’hai visto questo calendario? Per il 5-6 gennaio segna qualcosa di veramente tipicamente veneto?”. Risposta con un tono che mi sembrava un po’ insofferente – se non ancora sull’onda della depressione post-natalizia: “Cioè vuoi sapere se nel calendario venetomane ci sarà il panevin? Non ho visto il calendario, ma non è detto: a casa mia si è sempre detto panevin, ma nel padovano e anche qui vicino a dove sto la chiamano vècia, pensa te se possiamo andare d’accordo”.

3. Non ho insistito, non mi pareva aria. Però ho fatto una seconda telefonata. Quest’altro amico aveva già cominciato a tirar giù libri dagli scaffali. Mi dice subito che stando a quel che legge, in certi posti da almeno da quarant’anni si fanno falò in piazza con proloco e autorità.

“Adesso ti leggo delle citazioni da Ulderico Bernardi, Una cultura in estinzione. Ricerche sull’identità contadina fra Piave e Livenza, prefazione di Gaspare Barbiellini Amidei, Marsilio, Venezia 1976 – è la seconda edizione, ci tiene a precisare l’amico –. Dunque negli anni Settanta Bernardi faceva una distinzione tra i panevin della Pro loco, bruciati nella piazza dei paesi, una sorta di ‘veglia funebre attorno a una tradizione retta in piedi per un epidermico tentativo di alimentare le radici della propria cultura’ (p. 91), e i panevin ‘veri’ che si bruciano ‘per le viottole dei campi’. Questi ultimi, sono panevin ‘animati da ragazzi che cantano le litanie apprese da padri che conoscono il valore di questo fuoco, dentro il quale arde un’identità matriarcale, nelle cui fiamme gli occhi degli adulti vanno cercando il riverbero della identità che li fa uomini e i giovani, che avvertono vagamente il turbamento della spersonalizzazione, vanno cercando nel crepitio delle fascine incandescenti una ben delineata veneticità’ (p. 92). Nei panevin ‘veri’ Bernardi vedeva un rito dove ‘il contadino vuole comunque riaffermare la sua autonomia’ (p. 80). Il panevin che si fa in piazza, invece, lo si fa ‘con il concorso della banda cittadina che dà fiato agli ottoni, i padiglioni della locale pro loco dove si distribuiscono gratuitamente pinza e vino, mentre il primo cittadino cinta la fascia tricolore brandeggiando una torcia si avvia ad accendere la grande catasta’ da cui si alza ‘un odore nauseante di gomma bruciata’ (p. 91); poche righe più sotto ricorda ‘i copertoni di auto accatastati sotto le stoppie che ardono’.

Allora, stando a Bernardi: un panevin falso, controllato dal potere in piazza, e uno autentico, quasi clandestino in campagna. La fascia tricolore della piazza assieme ai copertoni e l’aria da ‘veglia funebre’ servono a chiarire il contrasto con la campagna genuina e ruspante, e tutta contadina!, che ‘per le viottole dei campi’ celebra ‘una ben delineata veneticità’. Io l’ho conosciuta la campagna e rido di cuore, ma i posteri ci crederanno?

L’altra cosa interessante è che a distanza di anni il panevin della piazza, da simbolo del potere urbano e statale, è diventato simbolo della cultura contadina e della veneticità.

Poi, senti – continua l’amico mio –, la ‘veneticità’… Mio cognato ha il papà che… età, salute, sai, insomma: ora ha in casa una badante; visite canoniche di questi giorni, l’altro giorno sono passato e ho fatto due parole con questa donna che è rumena, da una zona che confina con la Moldavia. Dalle sue parti, il 5 gennaio i bambini passano per le case con grida rituali e passa il prete a benedire le case; poi alla sera si accendono i falò. Più o meno come qui, gli ho detto. Tutta roba pre-cristiana, mi ha risposto”.

4. Ho continuato per mail. Un amico che alla fine degli anni Novanta ha raccolto documentazione (e filmati) sui panevin che si facevano nella zona di San Donà mi ha scritto:

“Vedi Antonella Pomponio, Il Panevin. La notte dei fuochi nel Trevigiano e nel Veneziano, Cierre/Canova, Verona 2002 (è una tesi di laurea in antropologia discussa all’università di Venezia, relatore Glauco Sanga). A p. 194 è riprodotto un volantino distribuito a Colle Umberto nel 1996 che ti allego (scusa la scansione artigianale).

 

L’autrice poi conclude: “Questa grafia particolare e l’immagine del leone associate al Panevin attestano, dunque, la possibile politicizzazione leghista del rituale” (p. 195). La Pomponio sembra quindi osservare una novità, le origini di un fenomeno. Ovvero la continua rifondazione e invenzione di tradizioni”.

5. Mano agli scatoloni di libri (in mancanza di biblioteche che funzionano, si accumula in casa, con disperazione di chi – come me – ha spesso traslochi in corso e sempre poco spazio). Nel caos, sono riuscito ad arrivare abbastanza in fretta a Il Veneto delle “regioni” Einaudi. Nel saggio di Piero Brunello, Contadini e repetini si legge: “I massariòti [grosso modo i contadini agiati] legittimano il proprio status partecipando alle responsabilità pubbliche ed esternando simboli di prestigio, tra i quali un posto importante spetta al rito del panevín la sera del 5 gennaio. In questi paesi la sera di vigilia dell’Epifania ogni famiglia contadina accende un falò con canne di granoturco e rami di vite tagliati nella potatura, e si riunisce intorno a cantare l’inno ‘Dio ne dàe la sanità’ da sola o con le famiglie vicine; il massariotto invece brucia un grande panevín e riunisce i repetini [i non contadini] della sua contrada cui offre vino e la tradizionale pintha, il dolce di farina di granoturco, fichi e uva passa” (p. 882).

Enrico Zanette, sentendo gli anziani della famiglia, dice la stessa cosa. Vien da concludere che la presenza di amministratori e di uomini politici non è certo una novità, e non è cominciata con la Lega. Del resto, la pagina prima (p. 881) Brunello spiega che i massariotti si sono sempre occupati delle faccende della parrocchia e del comune.

6. Un altro amico mi ha scritto così: “Mio nipote ha provato a organizzare un panevin il 5 sera. In questo momento è impegnato in un’associazione che sta cercando di preservare edifici e spazi pubblici che si trovano nel Comune dove vive. Ecco: tanti mobilitati, ampia rete di conoscenti, ma nessuno che sia riuscito a trovare un pezzetto di campagna dove farlo. Tradizioni? Ma dove? In senso letterale, dico”.

Cari amici di storiAmestre, Angelo Lamon, commentando l’articolo di Zanette, mette in guardia dall’inquinamento provocato dai falò (immaginiamoci quelli a base di copertoni). Ma che il panevin non sia anche per altri aspetti un indizio sullo stato del territorio e del paesaggio veneto?

Vostro

Marco Toscano

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