di Fabio Brusò
Pubblichiamo l’intervento di Fabio Brusò al convegno sulle Case del Popolo che ha avuto luogo a Massenzatico (Reggio Emilia) il 26 settembre 2009. Una versione leggermente diversa è in corso di pubblicazione a cura degli organizzatori del convegno. Daremo subito notizia dell’uscita del volume. Salvo diversa indicazione, le immagini che illustrano l'articolo sono state raccolte durante la ricerca del 1996-97 ricordata da Brusò nelle prime righe del suo intervento.
1. Nel 1996-97 Piero Brunello e io, per conto dell’Etam-Animazione di Comunità (un servizio del Comune di Venezia), abbiamo condotto una ricerca su Ca’ Emiliani a Marghera. Nella realtà e nell’immaginario di Mestre e Venezia, Ca’ Emiliani era ed è – benché ora meno – un quartiere spesso sulla cronaca dei giornali, che ne riportavano gli episodi di forte e spicciola criminalità o degrado urbano, ma anche le lotte o le pratiche di riscatto sociali e politiche.
In quel periodo, una parte consistente del quartiere stava per essere demolita per far posto al PIP, un’area artigianale-industriale di iniziativa pubblica. Perciò la zona era ormai quasi del tutto disabitata, molti edifici originari erano stati abbattuti e, tra spazi incolti, discariche selvagge e accampamenti saltuari di zingari, con sullo sfondo ciminiere della contigua zona industriale di Porto Marghera, stavano ormai avanzando i primi capannoni del nuovo insediamento artigianale. Visitavamo un paesaggio surreale, in cui si percepiva un forte senso di degrado e smobilitazione.
Durante le nostre escursioni, davanti a due piloni dell’alta tensione, isolato tra erbe molto alte, notammo subito un edificio squadrato a due piani, intonaco rosso mattone un po’ scrostato, tetto piatto, un balcone al centro e bandiere innalzate davanti. Era la “Casa del Popolo” di Ca’ Emiliani, che lì tutti chiamavano “il Partito”. Non ne avevamo mai sentito parlare pur abitando entrambi da sempre in questa città. (Una descrizione di com’era la Casa del Popolo nel 1996 si può leggere anche su questo sito.)
La Casa del Popolo di Ca’ Emiliani nel 1996
A piano terra era aperto un bar decadente, sulla mensola sopra il bancone campeggiava una falce e martello in bronzo stile anni Cinquanta, sulle pareti varie poesie tra cui una di Ferruccio Brugnaro, che parla di quel luogo come punto estremo di resistenza in quegli anni di trasformazioni sociali e politiche. Qualche avventore di una certa età stazionava all’interno e all’esterno. Conoscemmo i due gestori, Anna e Armando e così scoprimmo la storia dell’edificio, a quel tempo sede del partito di Rifondazione Comunista. Avevano riaperto il locale da poco, dopo qualche anno di inattività e intendevano continuare a gestirlo come bar e luogo di ritrovo, anche in vista delle attività economiche che stavano per sorgere nella zona e che promettevano clientela. A un certo punto Anna ci tirò fuori anche una scatola di foto, che riproducevano momenti collettivi, gruppi in posa, attività di partito e poi alcune decine di fototessera di persone defunte (raccolte nel corso degli anni dalle epigrafi appese al bar).
Decidemmo di fare una mostra con quelle foto dentro il bar, per stimolare la memoria di quel luogo che inaspettatamente scoprimmo essere ancora frequentato anche da chi vi si era allontanato da tempo dal quartiere, nonostante il clima di degrado e di abbandono che lo circondava. Vi fu un’inaugurazione pubblica, con alcune autorità politiche, con una nutrita partecipazione.
2. La Casa del Popolo si trovava entro i confini di quello che era il villaggio di Ca’ Emiliani sorto nel 1934 come villaggio di casette ultraeconomiche per sfrattati. In quegli anni la questione degli sfratti era particolarmente forte. Il villaggio era sorto sopra un terreno marginale, sterile e soggetto ad alluvioni, dunque di valore inferiore rispetto ad altre zone precedentemente valutate. Si trovava in località Rana, una frazione all’estrema periferia del Comune di Venezia, con poche case agricole e una vecchia chiesetta, ai margini di barene lagunari e a una significativa distanza dal nucleo urbano di Marghera che era sorto da pochi anni, secondo un progetto di città giardino (che poi fu stravolto) rivolto a chi era occupato nell’area industriale di Porto Marghera, e costruito proprio a ridosso delle fabbriche. Il villaggio comprendeva all’inizio 44 casette, a due o tre vani, per 88 nuclei familiari; nel 1940 fu ampliato con altre 12 edifici, e poi ancora durante la guerra con una ventina di baracche in legno costruite per gli sfollati dei bombardamenti.
Mappa del villaggio
Mentre le autorità, nei giornali dell’epoca, celebravano il villaggio come esempio di “redenzione urbanistica” e parlavano di case “sane e ridenti”, “edifici spaziosi, asciutti, robusti” attorniati da “verdi distese”, i primi abitanti, provenienti da Venezia e dal mestrino, ricordano invece la sensazione di isolamento, il fango e la desolazione della campagna che li circondava. Le loro descrizioni richiamano il “villaggio degli esclusi” di Pietralata nel romanzo di Elsa Morante (vedi La storia, Einaudi, Torino 1974, in particolare la p. 179).
Le “casette del Duce” – come venivano anche chiamate – in sostanza erano costruzioni fatte al risparmio, costituite da un piano terra con due alloggi abbinati, una muratura composta da forati di 8 cm, latrine esterne, fontanelle e lavatoi comuni, con uno spazio esterno di pertinenza, destinato a un orto familiare. Una relazione datata 7 novembre 1947 fatta avere al Ministero dei Lavori Pubblici da Bruno Manetti, un rappresentante di zona, le descriveva con “i tetti [che] mancano di isolamento, il soffitto costituito dalle tegole stesse che fanno da copertura, i muri deboli [che] permettono le infiltrazioni d’acqua e se la pioggia o neve è trasversale con vento, penetra fra le tegole e le fondamenta sono costituite da una gettata di pochi centimetri di cemento” (si legge ora in Una comunità, il lavoro, la fede. I 50 anni della parrocchia di Gesù Lavoratore a Ca’ Emiliani – Porto Marghera. 1946-1996, Venezia 1996, p. 10).
L’insediamento era consono ai dettami del regime che vedeva in questi villaggi di casette cosiddette “minime” o “popolarissime”, un’opera di “redenzione urbanistica e demografica”, che serviva a decongestionare i pericolosi e insani agglomerati urbani sovraffollati. La presenza di un orto annesso alla casa avrebbe poi accostato questi “diseredati alla terra”, secondo l’ideologia ruralista del regime.
Il villaggio di Ca’ Emiliani nel 1946 (Fonte: archivio MestreNovecento)
3. Parlare di Ca’ Emiliani significa parlare di Venezia, cioè del progetto del conte Volpi di Misurata fautore del porto industriale di Marghera, che puntava a trasformare Venezia “centro storico” in “città dell’arte”, a fare della terraferma il luogo delle fabbriche inquinanti e della residenza popolare, del Lido la località vocata al cinema e al turismo balneare d’élite. In questo quadro le famiglie che, in seguito alla liberalizzazione dei fitti, non potevano sostenere i nuovi canoni, venivano sfrattate e di fatto espulse dal centro non solo di Venezia ma anche della stessa Mestre e concentrate ai margini estremi della città, come nel Villaggio della Rana. La nuova città giardino di Marghera esplicitava questa logica: alcuni quartieri erano destinati agli operai, altri ancora alle famiglie degli impiegati, più in periferia le case minime per gli sfrattati, in cui si prevedeva un sistema di controllo sociale fatto di segregazione, di misure di sorveglianza e infine di pratiche di assistenza delegate soprattutto alla Chiesa. Le tipologie degli alloggi seguivano una serie di gradazioni secondo la fascia sociale degli inquilini (su questo rimando a Gianni Facca, Marghera, nascita di un quartiere, in La città invisibile. Storie di Mestre, a cura di D. Canciani, Venezia 1990, in particolare le pp. 137-138).
Documenti degli uffici tecnici del tempo parlavano esplicitamente della necessità di creare una emigrazione delle classi popolari dai quartieri del centro storico verso la periferia, e, viceversa, una immigrazione nel centro delle cosiddette classi borghesi, sia per motivi funzionali che di rendita immobiliare. Il fascismo avvia e persegue questo disegno classista con determinazione, anche se possiamo dire che si tratta di un progetto di lunga durata: continuerà anche dopo, sia pure con toni e sfumature diverse, perlomeno sino agli anni Settanta. L’associazione storiAmestre, che nel suo statuto si propone la “promozione di una conoscenza critica della storia di Mestre e del territorio con particolare riferimento alle squilibrate modalità dello sviluppo urbano e ai molteplici aspetti della vita dei suoi abitanti nel periodo a noi più vicino”, ha sottolineato spesso nei suoi lavori come lo spesso citato “caos urbanistico” della città metropolitana veneziana sviluppatasi nel Novecento, in realtà risponda a un preciso disegno di forze economiche e finanziarie, che avevano interessi su Porto Marghera, una delle maggiori zone industriali d’Europa. La città venne suddivisa, con una serie di gradazioni, in zone distinte per classe e stili di vita degli abitanti, ciascuna con una sua fisionomia.
4. Angelo Simion fu procuratore della parrocchia della Rana fino all’arrivo di un sacerdote, nel 1937. Poi continuò tutta la vita a dedicarsi all’assistenza dei poveri di Ca’ Emiliani. Tenne un diario che è ora è pubblicato con il titolo Registro delle Memorie di S. Maria della Rana dal 1930 al 1960. Una fonte per la storia di Ca’ Emiliani a Marghera, a cura di P. Brunello e F. Brusò, Mestre-Venezia 1997. A p. 114 si legge una descrizione relativa alle condizioni di chi era arrivato da pochi giorni: “Miseria assoluta, molte famiglie dormono sul nudo pavimento, altre sopra un pagliericcio o con dei pastrani militari, altri ancora sopra delle reti, pochissimi in un letto”. Due giorni dopo racconta di “moltissimi […] specie giovani e ragazze [che] partono verso le otto di sera e vanno per il porto e in marittima, e ritornano a casa verso mattina, con carichi di legna e carbone”. E poi ancora: “Anche questa sera ho continuato le visite agli sfrattati. Che miseria, bambini e bambine semivestiti, sporchi, senza lenzuola in tante famiglie, altre dormono a terra con poca paglia, qualcuno su cappotti militari, senza branda. Poche le famiglie con il letto completo, in cucina, tanti senza tavolo, qualche sedia o panca”. Simion era preoccupato perché ben pochi dei nuovi abitanti frequentava le funzioni religiose: “[…] invece gente piccola e grande sia uomini che donne, come bambini e bambine all’osteria e fuori tutta la notte”.
Maturava l’idea che il villaggio fosse “terra di missione” e che fosse necessaria una “bonifica spirituale”. In quel periodo regime fascista e Chiesa cattolica si sentivano concordi in quest’opera di redenzione, di quella che chiamavano la “bonifica morale e spirituale” di chi era stato concentrato, di fatto in modo coatto, all’interno del villaggio.
In tutta Italia la politica totalitaria del regime, con la repressione di qualsiasi organizzazione politico-sindacale alternativa a quella fascista, aveva trasformato gli sfrattati in soggetti deboli, senza tutela e voce collettiva, portati dunque a vivere individualmente la propria condizione. Deportati fuori città diventavano un ceto a sé, in una condizione marginale e segregata, oggetto di pratiche di controllo e di politiche assistenzialistiche.
Anche in questo la vicenda del villaggio è esemplare. Esigenze di controllo sociale ed educativo portavano a quella che si definiva una “vigilanza assistenziale”. Autorità politiche e religiose presenziavano insieme gli avvenimenti pubblici, religiosi e civili, come per esempio le cresime o le feste per i reduci della guerra d’Africa. L’asilo delle suore istituito nel 1937 era dedicato alla figura di padre Reginaldo Giuliani, combattente nelle brigate fasciste in Spagna, emblema del clerico-fascismo di quegli anni.
Il villaggio di Ca’ Emiliani fece scuola: nel 1939, non troppo lontano da lì, furono costruiti altri due villaggi di case minime a Brentelle e a Ca’ Sabbioni.
Il cardinale di Venezia La Fontaine amministra la Santa Cresima nel Villaggio degli sfrattati di Ca’ Emiliani il 28 aprile 1935, alla presenza delle maggiori autorità di Venezia, Treviso e Padova
5. Nel dopoguerra sia dentro i confini del villaggio sia nelle immediate vicinanze vennero costruite altre case, tutte di iniziativa pubblica economico-popolare (piano Fanfani, case comunali, Iacp). Così si consolidò la caratterizzazione popolare e operaia della zona. Nel 1952, sempre a ridosso del villaggio venne eretto un nucleo di case destinate ai profughi istriano-dalmati. Vi fu una progressiva saldatura con il nucleo urbano di Marghera.
Baracche in legno del dopoguerra
Nel frattempo con la seconda zona industriale le industrie si espansero sino alle porte di Ca’Emiliani. Si può dire che il villaggio ormai confinasse con l’ingresso del Petrolchimico, il grande impianto chimico oggi in fase di smantellamento. Così gli abitanti del villaggio subirono direttamente i danni dell’inquinamento industriale, ma anche vissero in prima linea le lotte sindacali e sociali che crescevano all’ombra delle fabbriche. Celebre fu la cosiddetta “battaglia di Ca’ Emiliani” dell’agosto 1970, quando in occasione dello sciopero delle imprese, per giorni in prossimità del quartiere vi furono scontri e barricate con scene di vera e propria guerriglia urbana, in cui i manifestanti ricevettero solidarietà e aiuto dagli abitanti di Ca’ Emiliani, tutti schierati a favore della lotta in corso.
Del resto la gente di Ca’ Emiliani era occupata nelle fabbriche vicine, soprattutto nelle precarie imprese di subappalto, in lavori saltuari, ma molti vivevano anche di espedienti o addirittura di attività malavitose. Molti sottolineano come la polizia non entrasse facilmente nel villaggio, che rimase sino agli anni Settanta una realtà ben distinta che manteneva la propria identità e la propria autonomia rispetto al resto del quartiere.
Davanti alla Casa del Popolo (senza data)
6. La Casa del Popolo iniziò ad essere costruita nel 1951, su un’area donata dal comune di Venezia al Circolo Ricreativo Culturale G. Felisati (Giovanni Felisati detto “El Moro”, operaio di Carpenedo, era stato trucidato dai fascisti il 28 luglio 1944, assieme ad altri dodici compagni partigiani, sulle macerie di Ca’ Giustinian). L’atto fu firmato dal sindaco comunista Giobatta Gianquinto, primo sindaco del dopoguerra. I soci fondatori del circolo erano attivisti del partito del villaggio, soci onorari erano il segretario della federazione e il segretario della sezione di Dorsoduro di Venezia. Nel dopoguerra il Pci a Venezia aveva avuto uno sviluppo poderoso, con un capillare radicamento soprattutto nelle zone popolari. La forte mobilità urbana del dopoguerra portò nelle casette per gli sfrattati di Ca’Emiliani nuove famiglie, molte di queste provenienti dalle zone popolari del centro storico dove il Pci aveva avuto un immediato seguito. Fu così che pochi anni dopo la guerra Ca’ Emiliani diventa territorio esclusivo dei comunisti, dove “il Partito” veniva identificato tout-court con la politica e come mediatore con le istituzioni.
La sezione PCI di Ca’ Emiliani con il sindaco Giobatta Gianquinto
L’edificio della Casa del Popolo venne eretto con lavoro volontario e gratuito, le attività che vi si svolgevano erano quelle tipiche di una sezione di periferia. Qui forse di particolare c’erano l’esclusività della sua azione e il fatto che in sostanza si rivolgesse quasi esclusivamente a un “sottoproletariato”. Le foto ci parlano di riunioni di partito e partecipazione a manifestazioni ed eventi cittadini; c’era naturalmente la diffusione domenicale de "L’Unità", il servizio di bar-fiaschetteria, l’organizzazione della cassa peota (una forma di banca popolare di mutuo aiuto molto diffusa anche in altri bar della città).
Veniva poi organizzata la festa dell’Unità che si svolgeva nello spazio antistante. Le immagini ritrovate testimoniano anche l’esistenza di una squadra di calcio e di tornei nel vicino campo sportivo.
Festa dell’Unità al Villaggio, senza data (anni Cinquanta o Sessanta)
Fino agli anni Sessanta – ricordano con orgoglio vecchi militanti –, la sezione del Pci di Ca’ Emiliani era la più forte del mestrino con 250 iscritti e una sezione di Pionieri d’Italia, composta da bambini dai 6 ai 12 anni ai quali venivano proposte varie attività, tra cui gite alla spiaggia del Lido.
Sfilata a Ca’ Emiliani dei Pionieri d’Italia (senza data)
Successivamente divenne un circolo Arci come tutte le case del popolo italiane.
7. Se dentro al villaggio comandavano “i rossi” e naturalmente non erano tollerati i comizi dei democristiani, nel resto del quartiere era forte l’influenza di don Berna. Si riproduceva il classico schema degli anni Cinquanta, reso celebre da Guareschi: Peppone e don Camillo. Nel nostro caso il Partito doveva fronteggiare un prete cerbero dalla forte personalità, presente nel villaggio sin dal 1937, che aveva per esempio il potere di far assumere o meno nelle fabbriche e che discriminava e sfidava apertamente i comunisti. Innumerevoli sono le storie e gli aneddoti di scontri verbali, di rancori e discriminazioni.
Nel 1954, don Berna era riuscito a far costruire una nuova chiesa, intitolata a Cristo Lavoratore, rivolta quasi come gesto di sfida non verso le case ma verso le fabbriche, portatrici di lavoro ma anche di pericolosi valori e principi atei e pagani. Sfidò i comunisti anche sul piano simbolico, organizzando una festa del Primo Maggio, come “festa cristiana del lavoro”, che univa idealmente prestatori d’opera e datori di lavoro, con cortei di automobili e feste solenni. Festa che, con tratti diversi, viene celebrata ancora oggi nel patronato della parrocchia.
8. Nel 1996 il villaggio era ormai un ricordo, l’area era quasi completamente disabitata, rimanevano solo alcuni esemplari delle casette originarie, alcuni blocchetti di palazzine del dopoguerra, ormai in via di smantellamento. Le casette erano state abbattute anche perché Ca’ Emiliani soffrì di alcuni pesanti allagamenti che le avevano rese irreparabilmente inabitabili.
Le ultime baracche (1997)
Dopo l’alluvione del 1966 erano state abbattute le baracche di legno, mentre nel 1974 erano state rase al suolo le altre casette (e i suoi abitanti erano stati trasferiti negli appartamenti di una torre costruita in un’altra località di Marghera, la Cita, a ridosso della stazione ferroviaria: si vede bene venendo in treno a Mestre). Nel 1986 ci fu un altro episodio di acqua alta.
Un lungo processo di trasformazione aveva ormai trasferito gli abitanti in altre zone della città o in case costruite nello stesso quartiere.
Constatavamo un senso di rancore e rabbia nei vecchi abitanti del villaggio, nostalgia verso la realtà di un tempo e l’idea che potesse esserci un esito diverso. L’idea di degrado era propria di chi osservava da fuori, mentre chi ci viveva ricordava solidarietà, senso di appartenenza, orgoglio politico.
9. Negli anni Settanta, cambia anche la modalità dell’iniziativa politica e sociale. Mentre negli anni Cinquanta-Sessanta è il Partito che assume in sé la socialità del villaggio ma anche del quartiere, negli anni Settanta esso subisce una progressiva perdita di centralità anche se mantiene ancora un peso elettorale rilevante sino a tutti gli anni Ottanta. Nascono in quel periodo gruppi di quartiere che si rifanno alle organizzazioni politiche legate alla sinistra extraparlamentare (lotta continua, potere operaio o avanguardia operaia), molto attivi e dinamici sul piano delle rivendicazioni, con nuove metodologie e linguaggi. Lo stesso protagonismo giovanile provoca delle rotture generazionali e rimette in discussione gli assetti precedenti.
Negli anni Settanta anche la parrocchia volta pagina rispetto a don Berna: viene gestita da un gruppo di preti operai dell’ordine salesiano, che ripropone una nuova modalità più aperta e dialogante con gli abitanti del quartiere. Gruppi esterni di attivisti e operatori sociali intervengono nel villaggio con iniziative di doposcuola e altro.
Altri attori si impossessano della narrazione del luogo e l’esperienza della Casa del Popolo sembra perdersi nei ricordi collettivi e cittadini, rimanendo ancora viva e presente nel suo valore simbolico solo in chi ha abitato a lungo o abita ancora nel villaggio.
Ettore Aulisio dice
Ho insegnato a Ca' Emiliani dal 1960 al 1963, per tre anni ho respirato l'aria gialla del petrolchimico, ho insegnato e giocato con i miei alunni che avevano bisogno di essere trattati bene, di imparare giocando, di cose brutte ne vedevano tante tra quelle baracche. Furono anni faticosi, ma di belle esperienze.
Chiara dice
Io sto cercando documentazione x gli edifici di via del lavoratore 39/41 … qualcuno ha delle piante o della documentazione di questi edifici delle case popolari ina casa degli anni 50 ..
Grazie
arch.lorenzato@gmail.com
Giorgio dice
Sono del 1940, sono "entrato" in Partito i primi anni settanta. Ricordo bene la situazione "delle casette della Rana", tanta miseria ma anche tanta voglia di riscatto; il Partito è stato strumento perché questo riscatto avvenisse. Stesse realtà per le "casette" di Ca' Brentelle e Ca' Sabbioni. Quanto tempo e lavoro abbiamo dedicato a questo Grande Partito di Popolo; perché abbiamo permesso "l'esproprio"? VIVA IL P.C.I. e chi è ancora COMUNISTA.
maurizio angelini dice
Negli anni 1965-66-67 (sono del 1945) ho fatto alcune delle mie più importanti esperienze politiche a Ca' Emiliani. A un certo punto, con alcuni compagni prevalentemente di AO (io ero del PSIUP) si è deciso quello che si chiamava un intervento politico a Ca' Emiliani. Cioè, letteralmente, si è partiti da Mestre con la filovia nr. 1, si è scesi al capolinea, si è varcato il ponticello e si è "entrati" nel Villaggio. Il ponticello era davvero un confine, da una parte il proletariato di fabbrica, dall'altra il sottoproletariato, o più precisamente una fascia di lavoratori precari (operai delle "imprese", donne che andavano a fare le pulizie a Mestre e Marghera) e una quota non piccola che viveva di espedienti, qualcuno che talora andava a rubacchiare, molti che andavano a "rumare" nelle discariche, forse un po' di prostituzione ecc. Come si usava allora abbiamo fatto la nostra brava inchiesta, ma non abbiamo solo fatto interviste e compilato questionari, abbiamo parlato con e conosciuto decine di famiglie e soprattutto decine di ragazzi un po' più piccoli di noi o nostri coetanei. E abbiamo scoperto, giusto prima che uscisse "Lettera a una Professoressa", la natura di classe della scuola italiana, censendo fra gli adulti ancora decine di analfabeti e scoprendo fra i nostri coetanei che quasi tutti dalla scuola subito dopo le elementari erano stati espulsi. E abbiamo trovato ancora persone che vivevano in sei-sette in due stanze, che avevano l'acqua alla fontana, che erano appena usciti dal sanatorio ecc. Quindi ci siamo trovati in imbarazzo, perché da una parte proponevamo alla gente di lottare per la casa, ma poi ci trovavamo a fare doposcuola e talora, un po' vergognandoci, arrivavamo con borsoni di vestiti a chi era vestito davvero male, ma non come noi che ci travestivamo da proletari, da TUTTO per l'OPERAIO, ma male perchè avevano solo roba vecchia e si passavano scarpe e cappotti da fratello a fratello. Ricordo che per un anno eravamo in concorrenza con un gruppo caritativo di altri studenti di Mestre, tutti cattolicissimi, si chiamava il GRUPPO del MARTEDI' (c'erano anche alcuni futuri ambientalisti-spontaneisti-rivoluzionari), noi li criticavamo aspramente accusandoli di fare solo carità, ma poi un po' di carità la abbiamo fatta anche noi; poi, dopo il 68, quelli del Martedì, in tre mesi, ci hanno scavalcato a sinistra, sono diventati quasi tutti di LC. Abbiamo organizzato – sempre in quegli anni – una vera e propria occupazione del Consiglio Comunale a Venezia, andando in una cinquantina a Ca' Farsetti, con almeno una trentina di ragazzi, soprattutto, di Ca' Emiliani e lì Favaretto Fisca Sindaco ha promesso che sarebbero ripresi i lavori del CEP di Campalto (oggi Villaggio Laguna); effettivamente molti dei nostri amici sono andati poi a vivere lì. Quella sera siamo andati a Venezia prendendo prima il nr. 1 poi il nr. 6, alcuni dei nostri compagni di Ca' Emiliani a Venezia non c'erano mai stati. Al ritorno eravamo gasati e non solo per le promesse ricevute ma perché ai nostri compagni di Ca' Emiliani sembrava fosse una delle prime volte che li avevano ascoltati, Favaretto Fisca si era rivolto proprio a loro: non si sentivano trattati con il fastidio o il malcelato timore che si riserva ai poveri che si incazzano. E a noi giovani studenti piccolo borghesi o figli dell'aristocrazia operaia ci sembrava di avere svegliato le masse, ma non avevamo nessuna capacità di guidarle o velleità di comandarle, ci stavamo proprio bene assieme.
giani giuseppe dice
Salve sono Giuseppe Giani 48 anni nipote del primo oste della Casa del popolo bar dei comunisti per noi della famiglia. Mio nonno Giuseppe Giani… coincidenza? Alto grosso pelato era il barista per tanti anni… Sono nato alla Rana ottobre 66 e poi l’alluvione… Ero piccolo ah ah… ma i racconti… Nel 69 20-30 famiglie si sono trasferite a Chirignago ma ho continuato a frequentare la Rana. Il Bocolo? Anche se avevo 9 10 anni me lo ricordo benissimo mio padre Giani Luciano mi portava spesso da lui… Il giorno di pasquetta 2014 mentre tutti in coda per il nuovo centro commerciale la nave de vero io andavo in giro per la nuova Rana. Fabbriche centri commerciali… prima desolazione… Ma prima cosa sono stato felice di rivedere il vecchio BAR DEI COMUNISTI… Chi avesse foto ritagli di giornale o qualsiasi ricordo del nonno Bepi oste del bar mi contatti ne sarei felice. 1000 grazie :-):-)
Giorgio Gobbato dice
Sono nato e vissuto a Mestre (via Squero “terso palàson”) per 24 anni, nel 1959 mi sono trasferito a Ferrara dove risiedo tutt’ora, ma i miei contatti con Mestre non sono mai cessati, anzi.
Una cugina di mia madre viveva, da sposata con la famiglia “alla Rana” in una casetta in muratura ben arredata, ben tenuta, un cortile tutto coltivato, un clima “sereno”. Questo per dire: tutto vero quello che si dice sulla “Rana” ma il contesto era un po’ più complesso. Il clima da “Rana” lo trovarono quando furono “sfollati” alla “Cita”, infatti appena possibile si trasferirono.
Complimenti per l’associazione storiAmestre. Sto rileggendo “piazza barche” e avrei, non ora, qualche perplessità/domanda da porVi su qualche punto.
Saluti Giorgio Gobbato
cinzia dice
Io sono la nipote di nino boccolo……e volevo solo dire che come mio nonno non ce ne saranno più. Ciao nonno!!!!
Zerbo Virginia dice
ciao a tutti io mi ricordo di ninetto anche se ero molto piccola e mi ricordo che quando mio papà mi portava da lui tirava fuori sempre la merendina per me o il cioccolato. Ho sentito che su di lui avevano fatto un libricino ,è vero? e dove posso trovarlo grazie
redazione sito sAm dice
Con qualche mese di ritardo (il finito di stampare è dell’aprile 2012), segnaliamo l’uscita del volume che contiene gli atti del convegno: “Di nuovo a Massenzatico. Storie e geografie della cooperazione e delle case del popolo”, a cura di Antonio Canovi, Marco Fincardi, Roberta Pavarini, Mauro Poletti, Renzo Testi, Rubbettino, Soveria Mannelli 2012 (il contributo di Fabio Brusò alle pp. 123-135)
Piero Brunello dice
Siamo stati, Fabio Brusò e io, a trovare Nino Bòcolo nell’aprile 1996, quando abitava nell’ultima baracca ancora in piedi di Ca’ Emiliani. La baracca aveva due sole stanze, ingombre di strumenti musicali. Dopo averci fatto sedere in cucina, el Bòcolo ci raccontò un po’ della sua vita.
Era nato a Venezia. Dopo aver fatto due anni alle elementari, viene bocciato. Il padre, motorista sulle chiatte, lo prende con sé. Stavano tutta la settimana in laguna, trasportando fanghi, terra, sabbia e ghiaia. Tornavano a casa il sabato sera con la roba da lavare, e ripartivano il giorno dopo. Nel 1938 il servizio militare; poi la guerra e la prigionia. Liberato, cominciò a suonare, pianoforte e chitarra, in feste da ballo in Danimarca. Non conosceva la musica, suonava a orecchio; aveva imparato in casa, perché sua mamma (abitudine non rara tra le donne popolane a Venezia) cantava accompagnandosi con la chitarra. Tornato a casa, fu ricoverato in sanatorio: di quel periodo aveva una foto che lo ritraeva con altri suonatori. El Bòcolo ci parlò di tutti i ragazzi a cui aveva insegnato a suonare e a cantare. Ci mostrò per esempio fotografie delle feste dell’Unità alla Giudecca con un ragazzo che cantava “Granada” e “Tu che mi hai preso il cuor”, e ci fece sentire il Cd di un suo allievo che aveva fatto strada. “Sentite come suona il mio cocco”, ci diceva. Alle pareti erano attaccate molte foto con dedica “al maestro”, di cui andava orgoglioso.
Non so bene quanti anni avesse avuto allora el Bòcolo, comunque poco più di ottanta. Ce ne aveva parlato, invitandoci a incontrarlo, il papà di Fabio, mentre ci accompagnava in un giro a piedi per una Ca’ Emiliani che esisteva solo nei suoi ricordi. Il papà di Fabio ci aveva raccontato che el Bòcolo era sempre stato molto magro. Mangiare, quasi niente: due zìzole (giuggiole) in una settimana Quando andava a suonare nei matrimoni o nelle feste, neanche allora mangiava, tanto che el Bòcolo aveva l’abitudine di dire: “non ricordo neanche l’ultima volta che ho mangiato”. Gli facevano i raggi – aggiungeva il papà di Fabio – guardando col fiammifero.
fabio brusò dice
caro Leonardo,
la tua precisazione mi sembra opportuna, Nino Bocolo nel 1996, quando visitavamo i resti del villaggio, era ancora lì nella sua baracca, ci aveva accolti mettendosi al pianoforte e raccontandoci un sacco di aneddoti, sembrava un personaggio fantastico aggrappato ad un mondo scomparso. Poi qualche anno dopo era stata fatta una mostra con le sue foto e organizzato un concerto in suo onore.
Un caro e affettuoso abbraccio
fabio
Leonardo (Leo) Bosso dice
Passato il “partito” ed attraversato il ponticello sulla sinistra, c’era una baracca proprio quella che si vede nella foto, la prima di quel vialino alberato dove viveva il nostro maestro di musica (e di vita) Vianello Adamo, meglio conosciuto come Nino Boccolo. Un mito per noi ragazzi del luogo che pur non avendo i soldi per comperarci gli strumenti, avevamo la possibilità di imparare anche più di uno strumento, perchè lui il maestro Nino li metteva a disposizione purchè armati di curiosità e voglia di imparare, lui ne suonava quasi una decina. Con lui si imparava tutto ad orecchio perche diceva “se riva un colpo de vento e te porta via el foglio nò ti soni più”, stò pomerigio sonemo a musica dee simie (il swing)che goduria. Ho visto ragazzi down suonare canzoni intere al pianoforte, ragazzi sbandati appassionarsi alla musica e toglersi dalla strada a suon di note, ah dimenticavo il maestro non voleva una lira per tutto questo. Credo che una parola se la meriti per tutto quello che ha fatto per noi.
Ciao Fabio
mario dice
Ho vissuto la mia infanzia alla Rana, e posso dire sebbene nella miseria di essermi creduto un ricco perché abitavo in una casetta con un pezzo di terra dove mio padre coltivava. Mancava l’acqua potabile, bisognava andare nella piazzetta coi secchi alla fontana, i servizi igienici una buca con una tavola di traverso, e come porta un lenzuolo vecchio, però ritornerei indietro perché non ci mancavano le prospettive per un futuro migliore.
C’erano le baracche di legno d’inverno affumicate perché si bruciava di tutto,e i miei amici che le abitavano stavano peggio di me. Quello che leggo nell’articolo non corrisponde a verita’,seppoi paragoniamo i fatti di questi tempi,e le brutture di questa società gli ex abitanti della Rana si sono dimostrati di essere come tutti gli altri anzi migliori.
alessandro voltolina dice
Un piccolo ricordo in margine al bell’articolo di Fabio Brusò (grazie). A casa mia si ricordava che alla radio regionale (rai regione) un giorno, credo fosse il 1950, trasmisero un servizio su Ca’ Brentelle e sui poveri che abitavano quelle case nuove. Mio fratello Domenico, figlio di un laureato della buona borghesia che abitava in un appartamento ben riscaldato del centro, prestò la sua voce per un accorato appello “…sono un povero bambino di Ca’ Brentelle…”. Era un bravo scolaro, era in grado di leggere bene e… tutto il resto non serve dirlo. un caro saluto a tutti. alessandro voltolina